AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

SAVE THE WORLD

 

 

  • TWO (2021)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

I miei fedeli lettori (voi due, sì…) forse ricordano i toni entusiastici con cui recensii l’esordio autoprodotto dei Save The World (gli smemorati possono seguire il link). Dopo quattro anni, quell’album viene stampato oggi dalla Frontiers che pubblica anche il nuovo disco della band americana. È una buona notizia perché la promozione che può offrire una label è sempre tutt’altra cosa rispetto a quella che una band riesce ad ottenere con le sue sole forze e i Save The World non meritano di restare una delizia per pochi. Il profilo della band l’ho tracciato nella recensione di ‘One’, a cui rimando per i dettagli, mi preme invece passare al nuovo ‘Two’ (quando si tratta di decidere i titoli degli album, i nostri vanno decisamente al sodo) che segna oltretutto una decisa progressione rispetto al già notevolissimo esordio.

Apre le danze “Camera Obscura”, introdotta da un fraseggio prog su cui si adagia una melodia molto Unruly Child, e la band di Bruce Gowdy è la fonte di ispirazione anche per “Bones”, con le sue chitarre grattanti ed il plus di ombre Beatles nient’affatto anomale per la band. “Miss Muse”, invece, guarda in direzione John Waite con l’aggiunta di una buona dose di Journey (potremmo anche dire, essendo ben noto il risultato dell’equazione John Waite + Journey, che questa canzone risulta vagamente Bad English). “Defenders of the Faith”, agile e potente, incrocia gli Unruly Child con i Def Leppard, ma su un registro grave e per nulla festaiolo, mentre “Daphne Blue” è una ballad elettroacustica un po’ Zebra. La notevole “When Amanda Hits the Stage” ha begli accenti r&b nelle vocals e qualche tocco moderno, “Man on an Island” è un good time r’n’r piacevole e diretto (alla REO Speedwagon?), la ballad elettrica “Longer” mette in campo pianoforte e tastiere d’archi richiamando di nuovo le atmosfere care ai Bad English. Con “Denslow Park” facciamo una puntata nel rock da FM di Bryan Adams (ma il refrain è di nuovo molto Unruly Child), mentre “Automaton” aggiunge al mix anche i Def Leppard e magari un po’ di Queen. “Illuminati” non è una cover dell’omonima canzone dei Ten, ma certamente della band di Gary Hughes ha molto, ben amalgamato alle solite suggestioni Def Leppard e Unruly Child, mentre “Who’s That Girl” dell’ altrettanto omonima canzone di Madonna non ha (fortunatamente) proprio nulla: un hard’n’roll divertente e sofisticato che spalma un refrain sinfonico alla Queen su un telaio un po’ Kix.

Produzione strepitosa, arrangiamenti fantasiosi, impasti vocali pilotati sempre magistralmente. Sarà il top dell’annata? Per me, è - come minimo - già sul podio.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

TED NUGENT

 

 

  • PENETRATOR (1984)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:in commercio

 

I compromessi raramente funzionano del tutto. Più spesso, fanno fiasco. ‘Penetrator’ fu senza dubbio un compromesso e un fiasco solenne a livello di vendite. Ma fu un fiasco anche a livello artistico? Non godette di buona stampa all’epoca e ancora oggi viene considerato se non proprio il fondo della discografia di zio Ted (il marchio d’infamia viene generalmente attribuito al successivo ‘Little Miss Dangerous’) certamente un pastrocchio senza capo né coda.

Partiamo dal principio: fu davvero un compromesso? Sì, e l’ascolto ce lo conferma senza equivoci. Ted Nugent voleva tornare nei quartieri alti di Billboard e, come tanti colleghi, credette che fosse utile (se non indispensabile) andare incontro ai gusti del pubblico per riguadagnare l’accesso alla top ten. Ma, come altri prima e dopo di lui, commise l’errore di non andare fino in fondo: tentò la carta del rock melodico, ma la giocò solo in parte, sbagliando molto, a cominciare dal produttore, l’inglese Ashley Howe, che con il rock da classifica non aveva mai prima avuto a che farci (aveva lavorato con gente come Uriah Heep, Motorhead e Hawkwind). Howe riuscì in compenso a trovargli un grandissimo cantante, il suo connazionale Brian Howe (nessuna parentela tra i due), però Ted gli lasciò cantare solo sei canzoni sulle dieci che componevano l’album. Arrivarono a dar man forte due membri della backing band di Billy Squire, il tastierista Alan St. John e il batterista Bobby Chuinard, vennero comprate alcune canzoni da songwriter più o meno illustri (la coppia Adams / Vallance, Robin George, Andy Fraser, Cliff Magness) che dovevano fare da traino per l’album. Insomma: tutto calcolato, ma in maniera non proprio lucidissima quando andiamo a considerare il risultato finale.

Si comincia bene con “Tied Up in Love”, arena rock divertente e infuocato, con belle rifiniture di tastiere e tempo boogie, che sembra quasi anticipare quanto i rifondati Bad Company con Brian Howe al microfono faranno di lì a qualche anno… però il suono, se non è proprio tirato via, di certo è tutt’altro che curatissimo e la produzione di Ashley Howe resta di grana grossa. “(Where Do You) Draw the Line”, Bryan Adams e Jim Vallance l’avevano scritta e registrata per ‘Reckless’ (verrà inclusa solo sulla ristampa uscita come 30th Anniversary Edition nel 2014), un hard melodico robusto e molto primi ’80 come la successiva “Knockin’ at Your Door”, agile, con una maggior presenza delle tastiere ed un refrain vicino all’anthemico. “Don’t You Want My Love” ostentava un riffing più diretto, melodia ariosa e lunghi assoli, “Go Down Fighting” sorprendeva riprendendo gli Whitesnake a tempo di tango (quelli di “Don’t Break My Heart Again” e “Gambler”), americanizzandoli piacevolmente. Con “Thunder Thighs” si cambia del tutto registro, arretrando fino agli anni ’70, niente tastiere e Ted al microfono come nella successiva “No Man’s Land”, cadenzata e irruente. “Blame It on the Night” prova a tornare all’hard melodico, è infarcita di tastiere suonate col sequencer ma risulta meno efficace perché le chitarre hanno un suono troppo selvatico, fuori luogo in questo contesto. Lean Mean R & R Machine” vede di nuovo Ted al microfono per un hard rock diretto e scatenato ma abbastanza ordinario. Conclude la ballad classic rock “Take me Home”: pianoforte, cori femminili, tutto molto anni ’70.

Tirando le somme, possiamo dire che i brani più anni ‘80 non sono male, ma sottoposti alle cure di un produttore dal tocco più sofisticato di Ashley Howe avrebbero certamente suonato meglio (per averne la prova basta ascoltare “(Where Do You) Draw the Line” nella versione originale, o in quella che ne dette Paul Dean sul suo 'Hardcore'). Nei pezzi più hard rock, Ted non riesce ad esprimersi al massimo, è come raffrenato dall’esigenza di non offendere troppo le orecchie di chi lo ascolta e in almeno un caso (“Lean Mean R & R Machine”) sembra quasi fare il verso a se stesso. Insomma, ‘Penetrator’ è uno di quei dischi che difficilmente si ascoltano per intero, e finiscono per scontentare tutti: chi ama l’hard melodico troverà giustamente da ridire sulla produzione, che non regge il confronto con quella esibita dall’agguerritissima concorrenza; i fan del Motor City Madman metallico e adenalinico era ‘Cat Scratch Fever’ troveranno qui ben poco di cui nutrirsi, e quel poco suona tutt’altro che entusiasmante. Ted Nugent capirà la lezione solo dopo un altro paio di fiaschi, mettendosi in società con Jack Blades e Tommy Shaw nei Damn Yankees che faranno un bel botto nelle classifiche (due dischi di platino e numero 13 di picco sulla Billboard 200) grazie essenzialmente ad una scelta di campo netta e senza riserve per il rock melodico, evitando qualunque compromesso.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

TAMI SHOW

 

 

  • WANDERLUST (1991)

Etichetta:RCA Reperibilità:scarsa

 

Qual è la differenza tra il pop rock e l’AOR? Dio lo sa… Etichette, sono solo etichette, ma quando vengono incollate addosso ad una band, da etichette si trasformano in marchiature indelebili. I Tami Show vengono in genere catalogati “pop rock”, ma alle mie orecchie la loro musica è classificabile tranquillamente pure come AOR, e, per di più, di eccellente fattura.

Prodotto nientemeno che da Mike Chapman (The Knack, Blondie, Scandal, Divinyls, Rod Stewart, Lita Ford, Pat Benatar, Baby Animals…), ‘Wonderlust’ era il secondo album dei Tami Show: fruttò un singolo (“The Truth”,) che ebbe un discreto successo raggiungendo il numero 28 della Billboard Hot 100, ma nella classifica che contava davvero (quella generale degli Lp, la Billboard 200) neppure riuscì ad affacciarsi e in quel tremendo (non solo per il rock melodico) inizio di anni ’90 i Tami Show svanirono senza che nessuno ci facesse caso.

Propulsi dalla voce di gola e molto sexy di Claire Massey, con sua sorella Cathy e Tommy Gawenda alle chitarre, Peter Spero alle tastiere, Mark Jiaras e Kenny Harck come sezione ritmica, aprivano l’album con la già nominata “The Truth”, un perfetto AOR funky high tech contraddistinto – come tutte le altre canzoni, nessuna esclusa – dalla produzione raffinata e dall’arrangiamento variopinto. “Cry Blue”, aperta da un synth bass pulsante, andava in crescendo bilanciando con ecomiabile misura atmosfera ed elettricità, “Do You Love Enough” variava con gusto la formula di base, più dinamica e con un refrain in chiaroscuro. Un cantato più pop caratterizzava “If I Could Only Find You”, col suo ritmo ondeggiante, sinuoso e seducente, mentre la superba “Stay ‘Til September”, movimentata ed elettrica, autorizzava paragoni con i Neverland. Dopo le splendide policromie di “Sometimes I Wonder”, coi suoi prefetti intrecci chitarre / tastiere replicati con un certo flavour zeppeliniano nella successiva “Did He Do It To You”, arrivava la freschezza melodica di “Inside Out” (come dei Diving For Pearls più pop) e la ritmica piacevolmente danzereccia di “Secrets Never Lie”, su cui si adagiavano keys che pulsano o si espandono in panneggi cristallini e power chords di chitarra, per un risultato finale nello stesso tempo potente e d’atmosfera. “I Remember You” allargava il raggio espressivo all’heartlando rock (ma con più di un punto di contatto con gli Honeymoon Suite) e sulle stesse coordinate si situava la conclusiva “Say The Word”, splendida la melodia, azzeccata l’alternanza di strofe secche e refrain semplice ma delizioso.

Le quotazioni di ‘Wanderlust’ su eBay sono abbordabili (dai sei dollari in su, ma l’edizione giapponese spunta di solito prezzi molto superiori) e se per quel suono schifiltosamente catalogato come “commerciale” dall’intellighenzia critica – nella sua forma più raffinata elaborata alla fine degli anni ’80 – avete un debole, della musica dei Tami Show proprio non potrete fare a meno.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

HEAVEN & EARTH

 

 

  • V (2021)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

Da diversi anni avevo perso contatto con la band di Stuart Smith, e questo appena uscito ‘V’ non mi ha fatto rimpiangere di non essermi procurato gli ultimi dischi degli Heaven & Earth. La maggioranza del materiale si divide tra un hard melodico metallico dai toni pomposi che fa pensare a degli House of Lords moderni di grana grossa e variazioni incarognite dei repertori di Deep Purple (in maggioranza) e Rainbow. Che Stuart Smith sia capace di fare altro – e di farlo bene – lo ha dimostrato in passato e anche qui, con quella sorta di hard r&b intitolato “Flim Flam Man” (saltellante e divertente, con l’assolo diviso tra il pianoforte e la chitarra), ma è chiaro che i suoi precordi vanno soprattutto in altre direzioni. La sua capacità di clonare timbriche e stile di Ritchie Blackmoore resta unica, ma non so quanto si possano lodare gli sforzi di qualcuno per apparire identico a qualcun altro (camaleontismo che Smith pare in grado di modulare comunque con una certa scioltezza, considerato che nella conclusiva “At the End of the Day” ci dà un convincente saggio di chitarrismo a-là Page). Il nuovo cantante ha una voce alla Jorn Lande ed un temperamento troppo heavy metal che lo porta sovente a urlare come un indemoniato, la qualità audio è discreta e niente più, gli arrangiamenti tendono troppo spesso all’arruffato e il mixaggio è rumoroso. In definitiva, ‘V’ è consigliato solo a chi per tutto quanto fatto da Purple e Rainbow nutre lo stesso feticismo di cui soffre Stuart Smith.

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

LEE AARON

 

 

  • RADIO ON (2021)

Etichetta:Metalville Reperibilità:in commercio

 

Da quando è tornata al rock, Lee Aaron non ha sbagliato un colpo e anche questo nuovo ‘Radio On’ è un prodotto discografico di eccellente caratura. Non dice niente di nuovo, è vero, rispetto al passato recente, ma lo dice benissimo, accentuando la vena hard rock ma senza mai sacrificare la melodia.

Il riffing funkeggiante e dai toni zeppeliniani di “Vampin’” apre alla grande l’album, “Soul Breaker” risulta più melodica, con un certo flavour anni ’70, “C’mon” è anche troppo diretta e spande la melodia su un tappeto ritmico monotono e rumoroso. Pronto recupero con l’ancheggiante “Mama Don’t Remember”, ma anche la title track suona divertita, ariosa, moderatamente anthemica. Se “Soho Crawl” ha un riffing bluesy e si fa largo con un bel ritmo sculettante, “Devil’s Gold” parte con un basso ipnotico e diventa una power ballad drammatica e vagamente southern. Al vivace hard’n’roll “Russian Doll” segue “Great Big Love”, un riff essenziale su cui Lee ricama una bella trama melodica, “Wasted” parte come ballad acustica, infiammandosi a metà percorso diventando un hard rock un po’ alla vecchi Aerosmith. “Had Me at Hello” è swingante e ci dà vocals policrome e sofisticate mentre “Twenty One” chiude con una ballad ariosa che veleggia su bei tappeti di tastiere.

Insomma: chi ha apprezzato le ultime cose di Lee Aaron, non resterà deluso da ‘Radio On’.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

KARLA

 

 

  • KARLA (1990)

Etichetta:Sisapa Records Reperibilità:scarsa

 

La prima apparizione discografica di Karla Goldman risale al 1986: è la vocalist degli 18 Names, band (quasi) fantasmatica, dato che esordisce (e svanisce) con un LP pubblicato in proprio e in tiratura limitatissima (il titolo era ‘Armed and Ready’: nella band figuravano il futuro Baton Rouge Scott Bender e Chris Procopio dei Triple X). Quattro anni dopo, Karla ricompariva con un album a proprio nome e una backing band che contava, fra gli altri, sul chitarrista dei Godz, Mark Chatfield. Le atmosfere di ‘Karla’ erano prevalentemente impostate sul rock melodico in voga a metà anni ’80, con una produzione essenziale ma non sciatta. L’ugola di miss Goldman era notevole: decisa, con quella punta di raucedine che in una voce rock raramente guasta, camaleontica ed espressiva.

Outsider” apriva le danze con un hard melodico bello sodo mentre “Love Won’t Wait” calava il voltaggio a favore della melodia. “In The Night” era decisamente zeppeliniana, sviluppandosi lungo l’asse voce/riff; anche “Hungry For Your Love” inseguiva le atmosfere del dirigibile, ma in un contesto più heavy metal. “I’m All Over You” risultava bluesy, notturna, tutta voce, basso e una chitarra in overdrive, “Hold On”, serrata e metallica ma con un refrain melodico e una trama fitta di backing vocals, guardava in direzione Quiet Riot. La ballad “Daddy” risultava cupa e drammatica (ma anche un pelo monotona), l’atmosfera cambiava completamente con il metal californiano vivace e festaiolo di “Lot To Learn”. “Season’s Change”, ballad per voce e chitarre acustiche, precedeva “Fashion”, metallica e decisamente Van Halen, con una bella armonica guizzante che si produce anche in un assolo. “Never Say No” diceva poco: power ballad elettroacustica senza carattere e un po’ amorfa. Buona la conclusione con "Howlin’”, hard rock metallico con refrain melodico che ruba qualche battuta alla “The Wolf” degli Heart. In definitiva: non un capolavoro; ma un buon disco, certamente sì.

Pubblicato da un’ etichetta distribuita dalla Curb, ‘Karla’ non ebbe certo grandi chance sul mercato (la Curb sembrava del tutto disinteressata a vendere i suoi artisti del settore AOR, figuriamoci quanta voglia poteva avere di promozionare quelli delle proprie consociate) e oggi è quotato su eBay a cifre che oscillano tra i 25 e i 50 dollari. Se amate le belle voci femminili rock, fateci un pensierino.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

SIC VIKKI

 

 

  • KISS ME IN FRENCH (1993)

Etichetta:Polystar/Blue Martin Reperibilità:scarsa

 

Quella dei Sic Vikki è una delle tante storie finite male di band nate negli anni d’oro del nostro genere. Ma è interessante e istruttivo raccontarla nei dettagli perché illustra benissimo cosa significava lavorare in campo hard melodico nella seconda metà dei Big 80s.

La band nasce nel 1985 a Philadelphia, pratica un hard rock piuttosto ispido e passa attraverso numerosi cambi di line up mentre si esibisce a Philly e dintorni finché, nel 1987, si decide a registrare un po’ di canzoni per l’indispensabile demo: prima in uno studio locale, poi ai Mounty Holly del New Jersey grazie all’interessamento nientemeno che di Nick Didia (produttore e ingegnere dal curriculum sontuoso che tre nomi come  Bruce Springsteen, Pearl Jam e Rage Against The Machine dovrebbero a riassumere a sufficienza). E l’impressione che fecero fu talmente buona che il proprietario degli studi, Nash Cohen, decise di occuparsi di loro. Però, il demo non riuscì ad attirare l’attenzione di nessuna label, così Cohen ritenne che per dare una buona spinta a quei ragazzi occorreva qualcuno un po’ più esperto di lui in faccende di management musicale e si rivolte addirittura a Bill Aucoin, che in precendenza aveva curato la rappresentanza di Kiss, Billy Squier and Billy Idol. Aucoin tagliò corto chiamando Steve Plunkett (che da poco aveva sciolto gli Autograph ed era diventato songwriter e produttore a tempo pieno), mettendo i Sic Vikki nelle sue mani perché li trasformasse in una band melodic/glam adatta ai gusti del pubblico yankee in quel tramonto di anni ’80. Ma i Sic Vikki erano d’accordo con quel progetto? Pare proprio di sì, considerato che arruolarono un tastierista per meglio seguire le direttive in fatto di sound che Steve Plunkett gli stava dettando (però, nel 1991 l’ultimo superstite della prima line up del 1985, il chitarrista Joe Seabe, lasciò la band: testimonianza, probabilmente, del fatto che il passaggio alla nuova dimensione non era stato accolto dal suddetto con grande entusiasmo; a rimpiazzarlo fu chiamato l’ex Heaven Bobby Enloe). Arrivò finalmente il contratto, ma solo per la Polystar, che all’epoca era la filiale giapponese della Polygram.

Il primo album, ‘Kiss Me in French’, venne registrato a Los Angeles (la band era composta da Richie Cox, voce e chitarre; Steve Salter, batteria; il già nominato Bobby Enloe; Pat Schumaker al basso; il tastierista Tony Annunziata), sotto la guida (ovviamente) di Steve Plunkett (che scrisse con la band tutte le canzoni) ma decisamente troppo tardi, nel 1992 e pubblicato l’anno seguente: in Giappone dalla già citata Polystar, mentre in Europa venne preso in carico da una label svizzera, la Blue Martin Records, che portò la band a esibirsi (con buoni risultati, pare) sia in Svizzera che in Germania. Ma insistere in quella direzione musicale quando in patria gli zozzoni di Seattle stavano monopolizzando l’attenzione del pubblico e le major strappavano a mazzi i contratti che ancora li legavano a band AOR, glam e melodic rock era un po’ come cercare di vendere costate di manzo ad un ristorante vegano, e allora, dopo qualche altro cambio di line up, la band adottò un nuovo moniker (Kissing Babies) e riprese a esibirsi (senza molta fortuna, ritengo, dato che dei Kissing Babies non resta, da quel che so, alcuna testimonianza discografica). Nel 1995 la Blue Martin Records chiese a Richie Cox un nuovo album dei Sic Vikki (ma a chi diavolo sperassero di venderlo, resta per me un mistero). Cox non si fece pregare, contattò Steve Plunkett, recuperò un po’ di demo incisi ma non usati per ‘Kiss Me in French’, li completò assieme a Steve (nel giro di una settimana, pare), ottenne il benestare della label e registrò con il solito Steve Salter e i nuovi Eric Azvolinsky (chitarre) e Joe Bello (basso) ‘Streetside Picasso’, riportando in giro il moniker Sic Vikki per qualche tempo.

Questa è la storia – né troppo bella né tragicamente brutta ma, come detto, esemplare – dei Sic Vikki, ma ‘Kiss Me in French’, com’è? Ma come può mai essere un album che Steve Plunkett ha scritto e prodotto? Favoloso!

La superba title track è secca, melodica, pop e anthemica: come degli Autograph molto più Def Leppard del solito. “Tough Enough” parte con qualche accordo di chitarra acustica, poi entra un bel chitarrone che scandisce un riff essenziale e dondolante, fra strofe notturne e d’atmosfera (che fanno un po’ Van Stephenson) e il refrain da power ballad. Di “Baby Talks Dirty” potremmo dire che è una canzone “Autograph’n’roll”: Steve Plunkett qui trasla lo spirito della sua band nei territori del rock’n’roll, con un bel refrain arioso e una voce femminile correttamente puttanesca che distribuisce mugolii erotici in giro senza esagerare. La meravigliosa “You Make Me Bleed” ce la ricordavamo, naturalmente, sul disco solo di Steve, ‘My Attitude’ (chi invece non ricorda può seguire il link): qui viene proposta con un arrangiamento più colorato e hard rock, mentre “Tie Me Up” ha uno di quegli intro fatti di tastiere e voci riprodotte al contrario che piacevano tanto a Jack Ponti, ed è un metal californiano festaiolo con begli impasti vocali ancora di marca Def Leppard. “Her Body Compliments The Beat” è il top assoluto: intro di tastiere d’effetto, un riff incalzante su cui scorrono keys d’atmosfera, ritmo sexy e sculettante e un refrain che riesce ad essere nello stesso tempo diretto e raffinato. Il metal californiano allupato “I Don’t Want No Body But Yours” precede la power ballad elettroacustica “Damage Is Done” (che forse segue un pelo troppo da vicino la traccia di “You Make Me Bleed”), “Stop Breakin’ My Broken Heart” potrebbe venire dalle session di ‘Loud And Clear’ o ‘That’s The Stuff’, le manca solo la voce di Steve per essere Autograph al cento per cento. In chiusura, “Cry”, ballad ben arrangiata, tutta acustiche e tastiere.

Kiss Me in French’ non è proprio una rarità, ma spunta prezzi abbastanza sostenuti: tra i 15 e i 30 $ tra eBay e Amazon (su Amazon ci sono un paio di folli – si concentrano sempre lì, chissà perché – che per un CD ancora sigillato chiedono 140 euro o giù di lì). Ma se per il rock melodico da spiaggia degli Autograph (quelli veri, non la band che Steve Lynch porta in giro con quel moniker da qualche anno) avete una passione viscerale come il sottoscritto, saranno soldi ben spesi.

 

AORARCHIVIA

TORNA ALL'INDICE

STATION

 

 

  • PERSPECTIVE (2021)

Etichetta:autoproduzione Reperibilità:in commercio

 

Non chiedetemi perché, dopo dieci anni di attività e quattro album in crescendo, questa band è ancora senza contratto. L’assurdo per cui le band americane di rock melodico (gli Station vengono da New York) faticano a trovare una label mentre svedesi e compagnia scandinava e mitteleuropea hanno quasi solo l’imbarazzo della scelta non merita ulteriori commenti.

Hanno cambiato pelle più volte, gli Station, come potete verificare seguendo i link ai loro album (‘Station’ e ‘Stained Glass’). Li ho seguiti verificando la loro crescita e questo ‘Perspective’ si merita una recensione meno stringata di quelle che gli avevo riservato in precedenza, perché è un album davvero pregevole, che potrebbe insidiare ‘Two’ dei Save The World come disco top del 2021.

Con ‘Perspective’ hanno di nuovo cambiato – anche se non di molto – le carte in tavola rispetto al recente passato e lo dimostrano subito con “I Can’t Find My Way”, che apre l’album proponendo i Nostri come una versione più algida dei Danger Danger. Se “See the Light” ha un bel riff pulsante e suona vagamente Unruly Child, “Do You Really Want to Fall in Love Again” è una magnifica scheggia di big sound in chiaroscuro. “Don’t Keep Me Waiting” è più vivace e spensierata, mentre “Tonight”, sospesa e misteriosa, sale con un sinuoso crescendo elettrico alla maniera di Tommy Shaw. Se “If You Want Love” ha piacevoli tinte Bon Jovi (quelli meno d’antan), “Believe”è un notevole class metal platinato. La pregevole “All Over Again” parte acustica, diventando elettrica e zeppeliniana, “Spanish Steps” è un AOR raffinato e morbidamente funky, “You Found Yesterday” conclude l’album riprendendo certe atmosfere dei 21 Guns (che bello quel pianoforte che si fa largo fra i ruggiti delle chitarre).

Con una produzione e una qualità audio di ottimo livello, ‘Perspective’ si impone fra le tante immondezze nordeuropee proposte con assiduità dalle label continentali ad un pubblico ormai (temo) disabituato ad ascoltare rock melodico contemporaneo di gran classe. Le band americane dedite al nostro genere ormai sono poche e spesso hanno difficoltà a farsi notare, confuse tra le orde vichinghe, ma sono come diamanti fra cocci di vetro: basta illuminarle bene che brillano spiccando fra l’opacità generale.