RECENSIONI IN BREVE

 

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HALESTORM "Into the wild life"

Album della maturità per gli Halestorm? Non mi pare. ‘Into The Wild Life’ manca di quella freschezza e del songwriting superlativo che aveva fatto risplendere ‘The Strange Case Of’. Qui non c’è un’altra “Rock Show”, una nuova “American Boys”, una specie di "Here’s to Us". È tutto più patinato e prevedibile, in un paio di casi anche troppo patinato (con “Bad Girl’s World” vogliono fare concorrenza a Christina Aguilera o cosa?), le poche schegge più heavy si rivelano inconcludenti (le citazioni Sabbathiane al principio di “Sick Individual” sono proprio fuori posto) e le code strumentali che allungano diverse canzoni del tutto inutili. Pure, questo non è affatto un brutto album: è moderno, melodico, elettrico, con begli acuti (la divertente e sfacciata “Apocalyptic”, una “I Like it Heavy” molto alla Joan Jett). Ma, ripeto, non regge il confronto con quanto inciso tre anni fa, soprattutto nel comparto ballad, in cui la bellissima voce di Lzzy diventa regolarmente troppo fredda e controllata. Non proprio un colpo a vuoto, ‘Into The Wild Life’, ma senza dubbio il calo di ispirazione non promette bene per il futuro della band.

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Atlantic - 2015

 

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NEW FRONTIER "New Frontier"

Orientati verso la soft side dell’AOR questi New Frontier, con un sound in cui prevalevano i riferimenti a Journey e soprattutto ai primi lavori solisti di John Waite, anche in virtù di una notevole somiglianza a livello vocale (sia di timbro che di stile) tra l’ex Babys ed il singer Monty Byrom. Con la produzione de luxe di Ritchie Zito, ‘New Frontier’ procedeva liscio e piacevole per tutti i suoi quarantatre minuti, con una certa enfasi r&b nella seconda parte. Il top, nei chiaroscuri elettrici e raffinati di “Burning The Page”.

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Mika/Polydor - 1988

 

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MAXX EXPLOSION "Dirty angels"

Non avendo ancora ascoltato il nuovo House of Lords, ‘Indestructible’, non posso sapere se la backing band di James Christian, di nuovo riunita sotto il moniker Maxx Explosion, ha fatto ancora una volta meglio del suo boss, ma sentito quello che viene fuori da ‘Dirty Angels’, è molto probabile che la storia si ripeta. Questo è un album brillante, poliedrico, che guarda (ovviamente) alle ultime cose degli HoL (fra cui spicca il riff sinuoso della cromatissima “Fast Enough”), molto meno influenzato dai Van Halen rispetto a ‘Forever’ e più incline verso il sound contemporaneo degli Winger (ascoltate “Doctor Saturday” e “Over The Line”). Ben riuscita la cover della classica “Dream Weaver” e menzione speciale per la title track, pregevole power ballad dal crescendo maestoso e potente. ‘Dirty Angels’ è sicuramente una delle migliori uscite dell’anno: non fatevelo mancare.

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Kivel - 2015

 

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HOUSE OF LORDS "Indestructible"

Come volevasi dimostrare, ‘Indestructible’ perde nettamente il confronto con il nuovo Maxx Explosion. James Christian insiste a proporci una minestra riscaldata che può accontentare solo i fan più arrabbiati, inondando per di più le canzoni di vocalizzi, cori, controcori… Il meglio sta nel groove efficace della title track, praticamente un boogie serratissimo ma con un bel refrain arioso, e nelle soluzioni ritmiche accattivanti di “Eye of the Storm”. Per quanto riguarda il resto, si passa da track insignificanti (“Go To Hell”) alle solite alchimie sonore pompose e pompate a cui James ci ha abituato (“Die To Tell”, “Another Dawn”, “Ain't Suicidal”) e che suonano ormai fruste o scontate, un furto palese ai Led Zeppelin (“Pillar of Salt”, che campiona “Ten Years Gone” prima di sparare un refrain in cui James torna imperterrito a citare se stesso), due power ballad di discreto livello (soprattutto grazie agli arrangiamenti), un paio di class metal californiani carini e niente più. Perché continuare a mortificare quel moniker glorioso con album sciapi, inconsistenti e inutili?

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Frontiers - 2015

 

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ROOM EXPERIENCE "Room Experience"

I Room Experience (moniker un tantino strano, se vogliamo…), sono la creatura del tastierista Gianluca Firmo, che aiutato dal validissimo team di strumentisti italiani già ascoltato all’opera sui progetti Lionville, Charming Grace, Shining Line (Pierpaolo ed Amos Monti – ottima sezione ritmica –, il multistrumentista Davide Barbieri ed altri), ha confezionato un ottimo lavoro di AOR patinato e melodico, in bilico fra classicità (il refrain avvincente di “Shock Me”, i bei chiaroscuri un po’ Survivor che marezzano la ghost track “Something in The Wind”) e modernità scandinava (“Queen of Every Heart”, “No Sign Of Summer”, la melodia pop di “No Time Yet For Lullaby”), fitto di ballad più o meno power. Impeccabile la produzione, belli gli arrangiamenti, l’unico motivo di frizione aurale potrebbe essere la voce del cantante David Readman (Pink Cream 69), col suo timbro anonimo ed uno stile in certi momenti troppo da singer heavy metal.

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MelodicRock Records - 2015

 

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HEAVEN'S WISH "Heaven's Wish"

Onesti artigiani del metal californiano, questi Heaven’s Wish. Attingevano senza troppa fantasia al catalogo di riff, melodie ed atmosfere di Ratt, Crüe, Firehouse, Vinnie Vincent Invasion, Slaughter, Dokken e compagnia losangelena, offrendoci un lotto di canzoni che si risolvevano in buoni esercizi di stile senza (ovviamente?) nulla di personale: l’acuto si intitola “Cindella’s Ball”, un notevole impasto Crüe/Van Halen e se l’ispirazione fosse stata di questo livello per tutto l’album… Il punto più basso risulta invece la ballad “Boulevard Of Broken Dreams”, ricalcata (inevitabilmente?) su “Is This Love”, inutilmente lunga e con un refrain che dà sul lamentoso. ‘Heaven’s Wish’ è da ricordare soprattutto per la data di uscita: 1994. In quell’annus horribilis per l’hard rock melodico, pubblicare un album di class metal cromato e festaiolo era quasi una provocazione che, nonostante il livello non elevatissimo della proposta, avrebbe meritato miglior fortuna solo per il coraggio avuto dalla label nel proporlo ad un pubblico ormai tutto preso da altre alchimie sonore.

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Universal - 1994

 

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THE BREAKS "The Breaks"

Mi pare che non sia mai stato stampato in CD, questo unico album dei The Breaks, ed è un peccato perché la band praticava con buona efficacia l’AOR della prima metà dei Big 80s, con un sound in linea con le produzioni contemporanee (uscì nel 1983) di Loverboy ed Aldo Nova, magari con uno sguardo alle cose più pop dei Cars. Bella la voce di Susanne Jerome Taylor (un po’ sul genere di Fiona), che rendeva la proposta della band simile a quella dei più fortunati (ma non di moltissimo) Scandal: un genere di AOR strettamente imparentato con il pop ottantiano che sembra diventato materia per i libri di storia dato che al giorno d’oggi non lo suona più nessuno ed è snobbato anche dal settore ristampe, più interessato al recupero di band dalle sonorità spiccatamente rock.

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RCA - 1983

 

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ESTRELLA "We will go on"

Sono ancora poco noti fuori dal Regno Unito questi quattro ragazzi scozzesi giunti ad un secondo album di notevolissima caratura. Seguiti da un team estremamente professionale – preproduzione e mastering a cura di Pete Shoulder (The Union), Luke Morley (Thunder) e Pete Mayer (Rolling Stones), produzione di Nick Brine (The Darkness, Thunder) –, gli Estrella si presentano con un sound che amalgama con disinvoltura Def Leppard, Queen, Status Quo, Cheap Trick, Bon Jovi e Journey, spesso con un notevole vigore anthemico e soprattutto con una freschezza d’ispirazione che ha pochi riscontri nel panorama attuale, così che ‘We Will Go On’ risulta un album ottantiano fino al midollo ma senza alcun ricorso al “copia & incolla” che affligge la massima parte delle uscite recenti nel campo dell’hard rock melodico. Gli Estrella non hanno (ancora?) una label, e l’album lo trovate su iTunes e Amazon UK: lo consiglio a tutti, senza la minima riserva.

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Autoproduzione - 2015

 

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MAXIMUM "Just for kicks"

Alla categoria delle lost gems dovremmo associarne un’altra che si potrebbe battezzare “lost  patacche”. Ogni volta che una label specializzata in ristampe e/o rarità discografiche annuncia con gran strombazzare la pubblicazione dell’album dell’ennesima band straordinaria di cui nessuno ha mai sentito parlare, uscito a suo tempo in sette copie distribuite solo nei negozi di un paesetto dell’Illinois o del Vermont, oppure la raccolta dei demo incisi dalla straordinaria band che nessuno conosce perché non è mai riuscita a lasciare il suo paesetto dell’Illinois o del Vermont, le probabilità di imbattersi in una lost gem sono sempre ridottissime, mentre quelle di ritrovarsi fra le mani una lost patacca risultano vicine al cento per cento. I Maximum  rappresentano perfettamente la categoria, con un album che doveva uscire addirittura per l’Enigma (così si dice, almeno) nel 1989 ed è stato infine pubblicato da una label tedesca nel 2002, anche se non so spiegarmi perché la suddetta label si sia presa il fastidio di divulgare l’opera di questi cloni di bassa lega di Ratt e Crüe, del tutto superflui e perfettamente inutili salvo come pietra di paragone in fatto di mediocrità e fulgido esempio di lost patacca.

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Sunset Records - 2002

 

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K.K. WILDE "Rock-N-Roll"

Il miglior paragone che posso offrirvi per il sound di questa band è con i Black’n’Blue: provate ad immaginare una versione della band di Jaime St.James (il singer Kris Kurry era praticamente un suo gemello vocale) con un suono di chitarra più scarno e diretto, cori sempre ben orchestrati e flash variegati di tastiere. Anche se, in linea con la band ispiratrice, tentavano di mettere un notevole vigore anthemico nelle proprie canzoni, il loro songwriting si faceva più efficace quando sacrificavano l’aspetto bombastic a favore di arrangiamenti meno lineari e più densi di keys, come su “Living in Sin”, “Round And Round” (dove trovano soluzioni melodiche vicine a quelle dei Warp Drive), nell’eccellente metal da spiaggia “Inside Out” (vagamente reminiscente di “Nature of The Beach”) e nel party anthem “Boys Night Out”. Nel complesso, ‘Rock-N-Roll’ risulta comunque un album sopra la media. L’anno successivo, pubblicarono (sempre per la Platinum) ‘Cocaine Cowboys’, che la label stampò in quattro copie e solo su vinile (gli esemplari in CD che hanno girato per un po’ su eBay di quest’album erano dei falsi: la Platinum, ripeto, lo editò solo in LP). Una ristampa non sarebbe fuori luogo.

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Platinum Records - 1991

 

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KELLY KEELING "Mind Radio"

L’unico motivo per mettersi all’ascolto di questo nuovo album solista di Kelly Keeling (in cui Kelly ha messo in pratica solo la voce), sono le tre canzoni scritte da lui assieme a Jack Ponti e Lance Bulen. Purtroppo, Alessandro Del Vecchio non le ha gratificate con la produzione che meritavano, (bombastic e potente alla maniera dei Baton Rouge), disinnescandole fino a renderle innocue. Il resto è il solito AOR hard edged che Del Vecchio ed i suoi musicisti di fiducia (Mario Percudani, Anna Portalupi, eccetera) praticano per i clienti della Frontiers: competente ma tutt’altro che geniale. E anche la grande voce di Kelly non basta a trasformare questa materia evanescente in qualcosa di, non dico memorabile, ma perlomeno in grado di resistere validamente a più di tre ascolti senza scatenare crisi di sbadigli.

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Frontiers - 2015

 

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NEWCITY ROCKERS "Newcity Rockers"

Naturalmente, tutti ricordano questa band solo per la cover della “Black Dog” zeppeliniana, trasformata dai Newcity Rockers in un ardito ibrido tra un anthem da stadio ed un brano da discoteca rock: un’interpretazione irriverente, e senza dubbio divertente. Ma erano i Big 80s: non esisteva niente di sacro, e copiare e basta era considerato innanzitutto noioso. Del resto, anche la “Brother Louie” degli Hot Chocolate (ma più nota nella versione degli Stories, anche se stiamo parlando soltanto di un’ennesima variante della coverizzatissima “Louie Louie”) venne laccata e anthemizzata a dovere. Il resto è fatto di pop rock impeccabilmente prodotto, decisamente keys oriented, con una spiccata predilezione per il sound degli Autograph (ma nel refrain della ballad “Common Man” spuntano gli Scorpions, “Break A Heart” suona come una versione pop degli Aerosmith e “The Calling” è una suggestiva tranche di atmospheric power). Appena un po’ di elettricità in più e ‘Newcity Rockers’ sarebbe stato un piccolo capolavoro del nostro genere, ma resta comunque un album divertente e godibile: scanzonato, festaiolo, leggero eppure pieno di piccole raffinatezze che ci ricordano un’epoca in cui anche la musica più commerciale veniva presa terribilmente sul serio dai suoi artefici, capaci di trasformare (inconsapevolmente?) un qualunque album di pop rock in una deliziosa operina d’arte. La ristampa del 2006 pubblicata dalla Retrospect aggiunge due bonus tracks di fresca registrazione e molto più rock del materiale originale, belle esercitazioni sul classico sound dei Bad Company che la band (ovviamente) ricopre con un bello strato di cromo luccicante.

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Critique/Atlantic Records - 1987

 

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FALL TO JUNE "Fall to june"

Questi Fall To June sono perfetti per rappresentare lo stato di totale sbandamento in cui si rotola voluttuosamente la scena rock del ventunesimo secolo. Registrano da soli? Certo, ma hanno comunque una label (per quel che può contare). Sanno suonare? Sì, senza dubbio. Il cantante sa cantare? Eccome, ha anche una bella voce. E allora, cosa gli manca? Le canzoni, gli mancano. Cercano di fondere rock moderno alla Nickelback/Shinedown all’hard rock più classico dei ’70, ma il risultato è così amorfo che, nonostante il volume, la noia arreca all’ascoltatore invincibili attacchi di narcolessia. La sola “Delta Breakdown” risulta divertente ed abbastanza pimpante con la sua atmosfera southern, ma anche qui non c’è niente che non abbiamo già sentito (e fatto molto meglio) in qualche album di Lynyrd Skynyrd, Outlaws, Blackfoot eccetera. E allora: a chi o cosa servono questi tizi? E perché tanti altri come loro, risultano a volte addirittura osannati da un pubblico stordito o rimbambito?

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Southern Son/Ballistic - 2015

 

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JOEL HOEKSTRA'S 13 "Dying To Live"

Messa in soldoni, questa release di Joel Hoekstra sarebbe una noia al cubo se non fosse per “Long For The Days” e “Scream” (dal riffing piacevolmente variato), la conclusiva “What We Believe” (bell’esercizio di sound zeppeliniano sul versante esotico/misterioso) e il divertente boogie metallico “Never Want” (che però è in scaletta solo nell’edizione giapponese). Tutto il resto è un unico pappone metal, in bilico tra l’epico ed il class, molto cromato, intarsiato di uno shredding arido che spesso deborda in un classicheggiare un po’ Malmsteen e ricorda (in peggio) certe cose degli ultimi House of Lords. In definitiva, Hoekstra si dimostra su ‘Dying To Live’ un songwriter modesto ed un chitarrista insignificante. Considerato quanto abbiamo ascoltato da lui in precedenza, tra Night Ranger e Whitesnake, si deve concludere che il buon Joel non è in grado di prodursi su alti livelli in autonomia, ma solo quando viene adeguatamente guidato e pungolato da qualcuno decisamente più talentuoso di lui

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Frontiers - 2015

 

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STATION "Station"

Questa band si meriterebbe di passare alla storia per il fatto di essere stata la prima (almeno suppongo) a rubare ai Bulletboys (!!), dato che la loro “More Than Enough” ha il refrain palesemente ricalcato su quello di “Smooth Up in Ya”, e ‘Station’ non si fa mancare altre citazioni o riciclaggi, al punto che il suo ascolto scatena un vero e proprio rosario di monikers, parte una canzone e ne aggiungi subito un altro: questi sono i Ratt… ecco i Crüe… questi sono i Leppard… adesso tocca ai Black ’N Blue… eccoci ai Journey… e potevano mancare gli Autograph?... ma questo non è John Waite?... Eccetera. Ma, questo è il bello, ‘Station’ non è affatto una ciofeca, e anche se non ci trovate un riff o una melodia originale a pagarle un miliardo, è tale il garbo con cui questa band newyorkese procede che i 71 minuti dell’album vanno giù lisci che è un piacere, diventando praticamente una festa per chi ama tutto ciò che è stato hard rock melodico negli USA dei Big 80s, ponendo gli Station allo stesso livello di altri apprezzabili replicanti di quel suono come i Tango Down.

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Electric Cheetah Records - 2015

 

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JOHN THOMAS "John Thomas"

“John Thomas” è un moniker, non il nome di un interprete: la band era un duo, John Metherell (voce) e Mike Thomas (chitarra) e se devo anche spiegarvi come è stato composto il suddetto moniker… Anche se venivano dal Canada, i John Thomas si dedicavano al più genuino suono rock yankee da FM (anche se nella seconda parte dell’album c’è una leggera sterzata southern), opportunamente irrobustito da chitarre hardeggianti sempre ben impastate alle acustiche, con chiari riferimenti all’universo sonoro di Bryan Adams, Bon Jovi, Mitch Malloy, John Waite. John Metherell cantava come un Bryan Adams più acuto e rasposo, suono e produzione erano davvero di ottimo livello, non mancavano gli ospiti più o meno prestigiosi (i Von Groove al completo, fra gli altri): ristampare l’unico parto di questa band sarebbe tutt’altro che un’eresia.  

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Long Island - 1995

 

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DEF LEPPARD "Def Leppard"

Che ci fosse voglia di restaurazione in casa Leppard l’aveva reso chiaro l’operazione ‘Viva! Hysteria’ e questo album autointitolato ne è espressione eloquente, bastano le prime note di “Let’s Go”, con il riff ricalcato su quello di “Pour Some Sugar on Me”, e quell’estensione di “Rock of Ages” intitolata “Man Enough” a rendere l’idea che ‘Def Leppard’ rappresenta un distillato di tutto il meglio che questa band ha inciso nei suoi anni più luminosi, tra l’83 ed il ’92. Permane qui e là qualche vaga sfumatura più brusca, ma è evidente che Joe Elliott e soci hanno realizzato quanto fosse stupido andare contro la propria storia (ed il proprio pubblico) per cavalcare trend che mai potrebbero appartenergli, ributtandosi senza più remore a fare quello che gli riesce meglio: l’arena rock.

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earMusic - 2015

 

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BEDLAM "Into The Coals"

I Bedlam appartenevano a quello sparuto gruppo di band che cercava di importare nell’hard rock (più o meno melodico) il rock mainstream sul versante new wave. Rispetto ad altri membri del club come Beggars & Thieves e Neverland, risultavano un po’ meno ispirati nel songwriting ed un po’ più influenzati dalle classiche architetture rock yankee (alla Tom Petty o John Mellecamp, per intenderci). ‘Into The Coals’ resta comunque un prodotto discografico di buona caratura, raccomandato soprattutto a chi si è fatto ammaliare dal primo, straordinario album dei Neverland, anche se –  ribadisco – qui non si raggiungono quegli stratosferici livelli.

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MCA - 1992

 

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BROKEN VOICES "Broken Voices"

Misconosciuta creatura dell’ex Little River Band Graham Goble, i Broken Voices registrarono nel 1990 (ma rimase inedito fino al ’97) una piccola gemma di AOR sofisticato, tra le cose migliori che l’Australia abbia mai prodotto in ambito rock melodico, caratterizzata soprattutto da un equilibrato impasto tra elettrico ed acustico e dalla bella voce della cantante Susie Ahern. Il top nel meraviglioso impasto tra atmospheric power, lirismo soul e suggestioni celtiche su un registro molto elettrico intitolato “Halls Of Justice”, nelle trame raffinatamente AOR di “Restless Heart” e “Secret Affair”, nelle deliziose sfumature spagnoleggianti di “I Have No Words” e “Wanted”, la seconda con begli spruzzi di jazz. Il prezzo a cui gira tra Amazon ed eBay è abbastanza sostenuto (attorno ai trenta dollari), ma chi ama le frange più raffinate dell’AOR non rimpiangerà certamente i soldi spesi.

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Thoughtscape Sounds - 1997

 

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SPIN 1ne 2wo "Spin 1ne 2wo"

L’unico album degli Spin 1ne 2wo, band formata da pezzi più o meno grossi della scena musicale anglo americana (Rupert Hine, Steve Ferrone, Tony Levin, Paul Carrack, Phil Palmer), resta per me uno dei migliori cover album di tutti i tempi. Dodici pezzi di band famosissime (Led Zeppelin, Who, Cream, Bob Dylan, eccetera) rifatti con un’encomiabile misura, modernizzando dove occorreva, aggiungendo esili sfumature prog rock in diversi frangenti, riuscendo nella difficile impresa di assemblare un set di canzoni dalla grandissima fluidità. Singolare ma azzeccata fu la scelta di incidere “Black Dog” in versione solo strumentale, con la chitarra di Phil Palmer che eseguiva la linea melodica dettata dalla voce di Robert Plant e bella anche la versione di “Kashmir”, con una sobria interpretazione di Paul Carrack  (forse qualcuno lo ricorderà voce della splendida “Silent Running” di Mike & The Mechanics) lontana dagli stereotipi dal tipico canto alla Percy. Ma il capolavoro è la loro versione di “Can’t Find My Way Home” (dei Blind Fate), densa di meravigliosi chiaroscuri, con lo stick bass di Tony Levin in evidenza ed un Paul Carrack divino.

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Columbia/Sony - 1993

 

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BLOOD RED SAINTS "Speedway"

Se avete sempre pensato che agli FM farebbe un gran bene una bella dose di modernità AOR scandinava in stile Eclipse, questa è la band che fa per voi. I Blood Red Saints operano questo melange  con grande sapienza ed è addirittura sorprendente l’efficacia con cui riescono ad incrociare e fondere i sound di due band magari non proprio antitetiche ma di certo non vicinissime. Mano a mano che l’album procede, l’influenza nordica tende a scemare e le canzoni diventano in più di un frangente pura materia FM post ‘Tough It Out’, e sempre molto ben assemblata. I fan della band di Steve Overland ovviamente gradiranno ma ‘Speedway’ ha comunque i numeri per piacere a tutti.

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Frontiers - 2015

 

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SWEET F.A. "Stick to Your Guns"

Band di retroguardia, i Sweet F.A., ma nient’affatto disprezzabile con il suo metal californiano decisamente sleaze che a volte derivava verso lo street rock. “Rhythm of Action” era un mid tempo sexy ed insinuante, “Do a Little Drivin’” esibiva un riffing zompettante che faceva tanto Van Halen, la title track aggiungeva alla pietanza metallica di base qualche sfumatura southern, “I Love Women” ci dava dentro con il party rock, “Breakin’ the Law” era swingante e rude alla maniera dei Van halen riletti dai Bulletboys, “Southern Comfort” chiudeva l’album con una ballad per chitarre e voce (rauca e nevrotica quella del singer Steven David DeLeong, ma perfettamente calata nel genere praticato dalla band) con bei chiaroscuri zeppeliniani e refrain luminoso. Perché a nessuno è ancora venuto in mente di ristamparli?

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MCA - 1990

 

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THE PAUL GODFREY BAND "Magic Touch"

Anche se uscì nel 1990, questo secondo parto della Paul Godfrey Band suona come se fosse stato inciso cinque o dieci anni prima: tipico AOR della prima metà dei Big 80s in perfetto equilibrio tra pop e hard rock secondo la lezione dei Loverboy (con qualche sparso tocco alla Bryan Adams e Toto), mentre la bella voce di Celeste Alexander (ma il leader duetta con lei sulla title track e prende il microfono per “Wild Ones”) porta ad ulteriori, inevitabili paragoni con gli Scandal e gli Heart dell’album omonimo. Una ristampa sarebbe raccomandabile, anche per lo status di rarità che questo CD si è guadagnato: l’ultima volta che l’ho avvistato su eBay portava un cartellino del prezzo che diceva: 500$.

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Ossum Possum Records - 1990

 

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WILD BOYZ "Unleashed!"

Ma quante band c’erano negli USA durante i Big 80s come i Wild Boyz? Di sicuro erano tante, altrettanto sicuramente erano troppe… Gli spunti da cui partivano erano sempre gli stessi: Firehouse, Trixter, Steelheart, tutti i decani del metal californiano dai Van Halen ai Crüe... una massa sterminata di act e non sempre ispirati (e ben supportati da produttori di talento) come quelli citati sopra. Dalla loro, i Wild Boyz avevano un ottimo cantante per il genere praticato (quasi un sosia di C.J. Snare dei Firehouse), suono pulito e molto curato nelle timbriche degli strumenti, e la capacità di offrire una routine competente per tre quarti d’ora di melodic metal californiano divertente ma senza acuti. Una band onesta, insomma, ma certo non memorabile, consigliata però a chi del metal di Los Angeles del bel tempo che fu non vuol farsi scappare niente.

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Polaris records - 1991

 

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JOE LAMONT "Secret You Keep"

Non fatevi abbagliare dalla gran quantità di luminari dell’AOR coinvolti (Dan Huff, Bill Cuomo, Alan Pasqua, Richard Gibbs,Vinnie Colaiuta solo per fare qualche nome), quest’unico (da quel che so) album di Joe Lamont è un prodotto nella media nel settore dell’AOR e del pop rock dei mid 80s, impostato sulle coordinate sonore codificate da Van Stephenson, Loverboy, Toto, Aldo Nova, Surgin’ e compagnia. Il meglio sta nell’ancheggiare molto Loverboy di “Sharks” e nel funky dance “Heartbreak City”, il resto di ‘Secret You Keep’ contiene musica gradevole ma non esattamente memorabile. La Yesterrock l’ha ristampato nel 2010, rendendolo disponibile per la prima volta in CD.  

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Private Records - 1985

 

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OSUKARU "Triumphant"

Se dovessimo giudicare questa band solo dal punto di vista del songwriting e per la qualità delle performance strumentali, il voto sarebbe alto, dato che l’AOR degli svedesi Osukaru è ben assemblato e suonato, muovendosi con grazia fra gli universi sonori di Journey, Boulevard e Toto (che bello quel sax che spesso e volentieri fa gli assoli al posto della chitarra). Le dolenti note arrivano quando prendiamo in esame le parti vocali. Questa band ha due cantanti, Fredrik Werner  e Cecilia Camuii, i quali in più di un frangente risultano entrambi sfiatati e/o stonati. Quando non è necessario alzare troppo il volume le performance migliorano (come nelle belle atmosfere Toto di “Walk in Balance”) ma pare che le canzoni siano sempre suonate in chiavi troppo alte o basse per le voci dei cantanti (come su “I Won’t Let You Go”, dove Cecilia Camuii è costretta a cantare su una tonalità troppo bassa, innaturale per la sua voce acuta), dando al tutto un’impressione di dilettantismo che mortifica un tessuto sonoro tutt’altro che malvagio.

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City Of Lights - 2013

 

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THE ROSSINGTON BAND "Love your man"

Non per caso o sfortuna quest album dell’ex (a quel tempo) Lynyrd Skynyrd Gary Rossington non è diventato un classico o una lost gem. Era l’epoca in cui le southern band cambiavano pelle ritenendo che il genere fosse arrivato al capolinea e anche il buon Gary tentò una netta sterzata verso l’AOR e l’hard melodico. Purtroppo, i generi non dovevano essere del tutto nei suoi precordi: così, a cose buone ma concentrate stranamente nella seconda metà dell’album (“Stay With Me”, che non avrebbe sfigurato sull’album omonimo degli Heart; le suggestive melodie Journey di “Nowhere to Run”; l’atmospheric power di “Say It From the Heart”; le sciabolate elettriche di “I Don't Want to Leave You” e “Enough Is Enough”; un paio di belle fiammate southern, la title track e “Don't Misunderstand Me” che vede ospite Steve Morse) fanno da contrappunto anche dele canzoni poco incisive e per nulla memorabili, sempre ben suonate, arrangiate e prodotte ma scarse di mordente anche per colpa della voce di Dale Krantz-Rossington, moglie di Gary che negli Skynyrd si limita a fare la corista e non per caso, dato che possiede una voce intonata e tecnicamente ineccepibile ma assolutamente anonima.

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MCA - 1988

 

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TOSELAND "Cradle the rage"

Se non fosse per l’accento inconfondibilmente britannico del cantante, proprio non li diresti, questi Toseland, una band inglese. Prodotto da Toby Jepson, mixato nientemeno che da Mike Fraser, ‘Cradle the Rage’ ha un suono prevalentemente ottantiano e americano, mutuato da quelle band yankee che non si chiudevano in un ambito ristretto ma svariavano da un fronte all’altro dell’hard rock dei Big 80s, come Wildside, Wild Horses, Flame o The Scream, con saltuarie incursioni nell’universo policromo dei Little Angels (niente di strano, considerato chi li ha prodotti) ed in quello dei Thunder. Tradizionali nel riffing ma senza disdegnare soluzioni più moderne a livello armonico, con il giusto apporto di tastiere, sempre un po’ sporchi di blues, questo loro ‘Cradle the Rage’ risulta una delle cose più interessanti ascoltate da inizio anno.

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Absolute Marketing- 2016

 

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EPIC "Like a phoenix"

Le label dovrebbero evitare toni troppo roboanti quando presentano le nuove band e anche di fare paragoni che non solo risultano del tutto fuori luogo ma finiscono poi per trasformarsi in un boomerang. La Escape millanta questi Epic (moniker che gronda originalità da ogni lettera…) come una fusione di (tenetevi forte) Saraya, Headpins, Witness, Heart e Winger. Se fosse vero ci sarebbe da saltare dalla sedia, ma (ovviamente?) le cose stanno in tutt’altro modo. La voce della cantante non ha niente di straordinario ma il vero problema qui è il songwriting opaco, basato su stilemi che ormai sono stati masticati e rimasticati oltre il limite della sopportazione, riproposti per giunta senza fantasia, con linee melodiche sempre fiacche o banali. Le dieci canzoni di ‘Like a Phoenix’ si ascoltano e si dimenticano immediatamente, senza lasciare la più labile traccia nella memoria, se non come ottimo esempio di album non ignobile ma definitivamente inutile.

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Escape - 2016

 

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MIDORI & EZRA BOY "Midori & Ezra boy"

Li segnalo con notevole ritardo (l’album è uscito ad agosto del 2015) ma vale davvero la pena recuperare il parto di questa eccellente band americana, che copre tutto l’arco dell’hard rock californiano melodico senza mai finire nell’AOR, con una prevalenza di atmosfere anni ’80, saltuari salti nei ’70 e perfino qualche (lieve) inflessione power pop. “So What” fa pensare a dei Ratt più melodici, “Burned” è sexy e notturna con esplosioni di energia nel refrain, “Born Lucky” ricorda un po’ gli Enuff Z’Nuff, “Love Avalanche” ha deliziosi intrecci vocali che si insinuano in un riffing molto Van Halen, “Over the Edge” è una ballad elettroacustica suggestiva mentre l’agile “Mile High” fa molto Guns N’ Roses. Midori Longo ha una voce eccellente, la produzione è ottima e, insomma, ‘Midori and Ezra Boy’ farà felice chiunque ami l’hard melodico dei Big 80s intonato da una bella voce femminile.

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autoproduzione -2016