recensione

 

AORARCHIVIA

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ROBIN BECK

 

 

  • UNDERNEATH (2013)

Etichetta:HMMR Records Reperibilità:in commercio

 

Annunciato sei o sette mesi prima della pubblicazione (i promo giravano già a gennaio o giù di lì), finalmente è stato pubblicato il nuovo album di Robin Beck. ‘Underneath’ risulta un lavoro molto variegato, con continue oscillazioni tra il new breed del rock melodico ed il più classico AOR a stelle e strisce. È una strategia, questa di dare un colpo al cerchio ed una alla botte, che non comprendo e neppure mi piace, e mi auguro che questo lotto di canzoni così moderne (quattro su undici) non sia il velato segnale di una svolta. In linea di massima, anche se il livello del songwriting si mantiene sempre alto, mi sembra che ‘Underneath’ sia inferiore a ‘The Great Escape’, sopratutto a causa di quest’irruzione di un sound che non appartiene alla storia di Robin e porta la sua musica in lidi in cui il vostro webmaster non si sente mai del tutto a suo agio. Le canzoni incriminate sono: l’iniziale “Wrecking Ball”, dominata da un riffing serrato e robotico, dove lo smalto melodico è dato dalle keys e da un refrain arioso che fa tanto Eclipse; “Catfight”, con un riff minimale e tanta elettricità in un clima che ricorda sinistramente gli Halestorm (“sinistramente” perché la voce della signora Christian in questo contesto mi pare del tutto fuori posto); l’insignificante “Check Your Attitude”, con un brutto refrain martellante; “Sprain”, che ha però una bella cifra melodica, alternando parti sinuose e ritmate (quasi come degli Headpins trasposti nel ventunesimo secolo), ad un coro impetuoso cavalcato alla grande dalla voce di Robin. Tutto il resto è invece davvero eccellente. “Aint That Just Like Love” è “Follow You” traggono ispirazione dal big sound ruvido dei Tyketto, la title track è una ballad intensa ed ariosa, con una Robin divina; la power ballad “Burnin Me Down” si adagia su un bell’intreccio di keys, chitarre acustiche ed elettriche, e spicca il duetto tra Robin e James Christian; “Perfect Storm” si realizza attraverso una bella chitarrona rotolante, un bridge melodico ed un refrain incalzante, “Ya Can’t Figth Love” è un divertente metal da spiaggia e “I Swear The Nights” è un’altra grandissima power ballad, ennesimo tributo di Robin alla musica degli Heart.

Le somme mi sembra di averle già tirate, aggiungo solo che la qualità audio è molto buona (anche se, di nuovo, un pelo sotto quella di ‘The Great Escape’) e l’auspicio che questa irruzione del moderno nella musica di Robin Beck sia solo un fatto episodico.

 

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BLUE BLOOD

 

 

  • UNIVERSAL LANGUAGE (1991)

Etichetta:Music For Nations Reperibilità:scarsa

 

I Blue Blood appartengono a quello sparuto gruppo di bands britanniche  – comprendente anche quegli After Hours di cui ho scritto qualche tempo fa – che avevano seri problemi ad afferrare la geografia o, in alternativa, vivevano nel paese dei sogni. Che si può pensare, difatti, di una band inglese che si propone al pubblico del proprio paese tramite un look ed un sound americani fino al midollo? Una terza ipotesi alternativa per l’agire della band possiamo trovarla nella speranza che quanto era accaduto anni prima ai Def Leppard (o ai Grim Reaper o ai Fastway) capitasse anche a loro: ma, più che una speranza, sarebbe stato un pio desiderio. Non per i contenuti dei loro album, ma perché i Blue Blood incidevano per una indie, non avevano un supporto almeno decente in USA e impostare una strategia d’attacco per quel mercato basata solo sulle aspettative di un costante sguardo benigno della dea bendata equivale a iscriversi subito sulla lista di quelli che hanno fatto fiasco. Ed i Blue Blood erano già reduci da un mezzo fiasco, dato che questa band era la reincarnazione – diciamo così – dei Trespass, gruppo venuto fuori dalla NWOBHM, molto lodato dai critici ma con scarsi riscontri di pubblico, al punto da non aver mai pubblicato album ma solo qualche 45 giri. A fine anni ’80, tre superstiti dei Trespass decisero di passare dal suono cavernoso ed epicheggiante del metal indigeno a quello cromato e festaiolo che faceva furore in USA. Con quali prospettive di successo, l’ho già abbondantemente sottolineato, solo Dio lo sa. Il primo tentativo andò in porto nel 1989 con l’album ‘The Big Noise’, pubblicato sotto il monicker Blue Blud: se qualcuno se ne accorse, di sicuro non lo dette a vedere… Dopo due anni passati (immagino) a chiedersi perché nessuno aveva voluto filarseli, i Blue Blud dovettero arrivare ad una conclusione perlomeno originale: la colpa era del monicker, dal sapore troppo yankee. Lo modificarono dunque radicalmente: sparirono i Blue Blud e arrivarono i Blue Blood… Con quest’ultimo marchio uscì il disco in esame. Disco che, come il suo predecessore, aveva notevoli qualità e, a differenza di quello degli After Hours di cui abbiamo già detto, provava (e in più di un frangente, riusciva) a proporre un sound che non fosse una fotocopia sfacciata di quanto si faceva ad un oceano di distanza, mettendoci qualcosa di personale; ma, sopratutto, mostrava una qualità del songwriting davvero superlativa, che tante band USA avrebbero avuto ragione di invidiargli. Prodotto da Tony Platt, ‘Universal Language’ era dunque un album che avrebbe potuto benissimo giocarsi le sue carte sul mercato principe per l’hard melodico, se soltanto qualcuno si fosse preso il disturbo di pubblicarlo laggiù.

Nel dettaglio, la title track inaugurava il disco dopo quasi un inutile minuto d’intro con un hard rock californiano un po’ Autograph, policromo grazie ai flash di tastiere, al bridge d’atmosfera ed al refrain da party anthem, e la stessa rotta seguiva “Cruel World”, arricchita da una bella fase solista di chitarra. Ma pure “She Shakes Me Up” era un bell’esercizio di metal festaiolo, stavolta con nuance Quiet Riot. “Say A Prayer” partiva con armonie acustiche zeppeliniane, sviluppandosi lungo le linee di una power ballad che ricordava abbastanza distintamente la “The Flame” dei Cheap Trick (niente di strano, dato che coautore con la band risulta qui Bob Mitchell). Superlativa “New Toy”, un hard’n’roll con piano martellante e tastiere, molto glam, con un ritmo irresistibile ed un refrain di chiara ascendenza Baton Rouge. Nonostante il riffing massiccio, anche “Hit The Deck” risultava spettacolare grazie agli interventi di tastiere e ad un refrain dalla notevole carica anthemica, mentre “Homebound Train” era fatta di riff secchi e taglienti fra cui scivolavano le armonie di keys, con un bella vena bluesy che si faceva più sfacciata nell’assolo. “Share The Night” era un’altra power ballad dove spiccava sopratutto l’arrangiamento variegato, ma “Sun Worshipper” era semplicemente la canzone che gli Autograph non hanno fatto in tempo a scrivere, potrei sbilanciarmi fino a dire che rappresentava la perfetta espressione di quello che ho battezzato “metal da spiaggia”. Il finale dell’album vedeva un brusco cambio d’atmosfera, prima con “What’s Your Pleasure”, class metal insinuante e minaccioso, mentre la conclusiva “Fool” (solo nell’edizione giapponese) portava la band nell’universo sonoro dei Mission (periodo ‘Children’), con il suo flavour decadente e tenebroso, ammorbidito però dai suoni brillanti.

Le quotazioni su eBay di ‘Universal Language’ sono medio alte (intorno ai 25 dollari), e trovarlo non è neppure facilissimo, ma se l’hard rock di matrice californiana è in cima alle vostre preferenze, la spesa vale l’impresa.

 

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PAUL DEAN

 

 

  • HARD CORE (1989)

Etichetta:Columbia Reperibilità:scarsa

 

Quando i Loverboy andarono in naftalina, nel 1989 o giù di lì – probabilmente a causa degli scarsi risultati in termini di vendite di quello che per me è il loro miglior disco di sempre, ‘Wildside’ (per saperne di più, seguite il link) – i vari membri della band in ordine sparso si dettero (come era prevedibile) all’avventura solista. Il primo ad uscire con un album solo fu il chitarrista Paul Dean, che col tempo aveva assunto una posizione sempre più dominante nel gruppo, considerato che il ruolo delle tastiere di Doug Johnson si era andato ridimensionando e la musica della band era virata con decisione verso l’hard edged AOR abbandonando quasi del tutto la dimensione più pop che aveva fatto la sua prima fortuna. ‘Wildside’ era dunque un disco molto elettrico e anche gli inediti contenuti nella compilation ‘Big ones’ confermavano la migrazione dei Loverboy verso territori decisamente hard rock. Che Paul Dean fosse stato uno dei protagonisti di questa rivoluzione interna appariva palese e l’idea che il suo primo lavoro da solista dovesse orientarsi in direzioni più hard rock che AOR era tutt’altro che peregrina. In realtà, ‘Hardcore’ seguiva abbastanza bene il sentiero degli ultimi Loverboy, diminuendo sensibilmente ma non cassando del tutto le tastiere e adottando un sound che se era senza dubbio più ruvido rispetto a ‘Wildside’ non risultava certo ringhioso. Paul si associò con il bravo Brian MacLeod per la produzione, lasciando all’ex Headpins anche le parti di batteria e tastiere (salvo su una canzone, dove ai tamburi sedette Matt Frenette), e (com’era nello stile dell’epoca) si rivolse ad un esercito di songwriter per comporre il materiale sonoro che avrebbe formato ‘Hardcore’, oltre al suo nome ed a quello di MacLeod, troviamo fra gli autori delle canzoni Desmond Child, Paul Stanley, Bruce Kulik, Bryan Adams, Jim Vallance, Tom DeLuca, Taylor Rhodes, Jon Bon Jovi, Richie Sambora, Mike Reno…

L’iniziale “Sword and Stone” porta la firma dei primi tre autori menzionati (era, in effetti, una delle track che non trovarono posto su ‘Crazy Nights’ e pare che i Kiss l’abbiano incisa solo in forma di demo; in quello stesso 1989 la rifaranno anche i Bonfire per la colonna sonora del film “Shocker”), è basata di una bella successione di riff ed ha uno dei classici refrain di Desmond, un arrangiamento movimentato pur rimanendo abbastanza diretto. La divertente “Doctor” è un perfetto incrocio Loverboy / Headpins: è chiaro che Paul Dean c’ha messo il songwriting e Brian MacLeod la produzione. "Draw the Line" porta la firma della premiatissima ditta Adams & Vallance e figurava già sull’album ‘Penetrator’ di Ted Nugent: una strepitosa scheggia dell’Adams sound era ‘Reckless’, fatta di chitarre affilate e fascinose alla “Run to you”. Ma anche “Dirty Fingers” era già stata incisa, l’anno prima, da Joanna Dean sul suo ‘Misbehavin’’: l’arrangiamento è più colorato, ma non c’è confronto fra la voce di Joanna e quella di Paul Dean (non credo ci siano parentele fra i due, oltretutto Paul è canadese…), che è debole, imperfetta e sempre un pelo sguaiata: la canzone è grande, ma chi conosce la versione di Joanna Dean, ascoltando quella cantata da Paul prova il desiderio quasi irrefrenabile di premere il tasto che fa saltare al brano successivo… Con “Under the Gun” ci ritroviamo immersi in una versione scartavetrata dei Loverboy (con Jon Bon Jovi all’armonica) e la stessa ricetta si ritrova su “Action” (ripescata dal primo album degli Streetheart, la band in cui Paul e Matt Frenette – qui alla batteria – militavano prima di unirsi ai Loverboy), più Canuck e d’atmosfera con le sue melodie di stampo pop intarsiate in un ordito di AOR sofisticato ma con le keys sempre sullo sfondo. “Down to the Bottom” parte con un chitarrone molto AC/DC sui cui si spande una melodia semplice ma non banale che sfocia in un refrain tra l’anthemico ed il party rock e si rivela insospettabilmente policroma, grazia anche ad un break drammatico. Su “Black Sheep” sento forte la mano di Brian MacLeod, l’andamento ancheggiante era il suo trade mark, l’assolo di slide è un bel plus: super. E di altissimo livello è pure la conclusiva “Politics”, lo zampino di MacLeod è evidente anche qui, scanzonata e con un potentissimo impasto elettrico / acustico.

Paul Dean ha pubblicato altri due album a proprio nome, nel 1994 e nel ’97, prima di riunirsi ai Loverboy, ma ‘Hardcore’ resta la sua prova migliore: non è un disco raro, eppure gira ad un prezzo non leggerissimo (da venti a trenta dollari, in media) che resta comunque abbordabile (mi pare) e tutto sommato congruo al valore di un album largamente apprezzabile.

 

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LEE AARON

 

 

  • EMOTIONAL RAIN (1994)

Etichetta:Hipchic Music

Ristampa: Casablanca Music

Reperibilità:in commercio

 

Questa non è una recensione riparatoria, ma quasi.

Perché diavolo abbia scelto proprio il suo album più scarso per parlarvi di Lee Aaron, anni fa, non lo so o non me lo ricordo. L’unica cosa certa, è che saltuariamente mi montano i sensi di colpa per aver puntato l’obiettivo proprio sull’anello debole nella discografia della ormai ex Metal Queen.

Non mi rimangio nulla di quanto già scritto sui dischi successivi a ‘Lee Aaron’, ma devo riconoscere di essere stato ipercritico e, sopratutto, di non aver sottolineato un particolare fondamentale: quanto la voce stre-pi-to-sa di Lee renda comunque godibili questi album, al di là di qualunque (lieve) carenza nella produzione. La voce di Lee Aaron è di quelle che semplicemente si impongono per tecnica, espressività ed una timbrica miracolosa, fatta di toni acuti e rochi incredibilmente sovrapposti, caldi, sensuali, di gola. È la presenza di quella voce al centro del mosaico sonoro che consente di glissare sulle carenze di cui sopra e le fa passare in secondo o terzo piano (mentre un’ugola meno ispirata, magari un po’ anonima, le farebbe spiccare senza pietà: come suonerebbero ‘Bodyrock’ e ‘Some girls do’ se lì avesse cantato Fiona? Soporiferi, probabilmente).

Emotional rain’ è senza dubbio la sua prova migliore, per la varietà del songwriting e la forza dell’interpretazione, il suo ultimo disco rock prima del breve periodo jazz, un album arrivato fuori tempo massimo (uscì nel ’94) per competere sulle charts, pubblicato oltretutto per la neonata label personale di Lee (in USA, mentre in Europa uscì su etichetta Koch Entertainment, venendo infine ristampato nel 2004 dalla Casablanca Music). Dopo la full immersion nell’hard melodico festaiolo e anthemico di matrice californiana di ‘Bodyrock’ e ‘Some girls do’, ‘Emotional rain’ voltava (nuovamente) pagina proponendo un hard rock arioso e variopinto su cui Lee poteva esprimersi in una straordinaria varietà di sfumature, a cominciare da "Odds of Love", che ha un delizioso refrain R&B su un telaio cromato, sexy e zeppeliniano. “Baby Go Round” e “Fire in Your Flame” sono fatte di meravigliosi chiaroscuri in stile Beggars & Thieves / Neverland, la seconda con un sensuale ritornello blues, “Waterfall” è invece ipnotica, suadente, maliziosa, liscia come velluto ma attraversata da improvvisi squarci abrasivi di chitarra distorta e pizzichi di wah wah. “Inside” è un fenomenale funk zeppeliniano, agile e cromato, mentre su “Raggedy Jane” Lee spadroneggia attraverso un atmospheric power fatto di chitarre acustiche e keys. “Soul in Motion” è un’esercitazione sofisticata e melodica sul sound dei Tall Stories (un pelo troppo lunga, forse), la title track si sviluppa in un crescendo conturbante, per un hard bluesy che parte lento e si fa via via sempre più tempestoso. Ancora i Beggars & Thieves tornano in mente per “Judgement Day”, con la sua ritmica incalzante e le sue atmosfere fascinose. “Heaven” era invece una ballad semplice ed efficace, tutta chitarre cristalline e punteggiature di keys prima della grandissima “Cry”, con le sue armonie acustiche zeppeliniane che conducono in un sontuoso impasto chitarre/tastiere, intenso e suadente, ancora modellato su architetture Tall Stories. “Had Enough” concludeva l’edizione USA con un hard rock dal riffing avvolgente, tramato da una straordinaria melodia vocale di R&B mutante. Nell’edizione europea e nella ristampa del 2004 c’erano altre due canzoni: “Concrete & Ice”, con un riff portante cupo ed essenziale su cui la voce di Lee ricamava su toni ora suadenti, ora aggressivi; “Strange Alice”, unica traccia con qualche tentazione alternative e lunghe ombre Beatles.

La reperibilità di ‘Emotional rain’ è buona, si trova senza troppi problemi sia su eBay che su Amazon (dove è in vendita anche in versione .mp3, da cui la classificazione “in commercio” nel box): per chi non si è mai abbandonato alle carezze di quella voce impagabile, sarà di certo una rivelazione.

 

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DANNY DANZI

 

 

  • SOMEWHERE LOST IN TIME (1999)

Etichetta:Z Records Reperibilità:scarsa

 

Se dovessi condensare la carriera di Danny Danzi in una frase, sceglierei: un guitar hero arrivato troppo tardi. Tardi rispetto a cosa? Sostanzialmente, ad una scena rock che non solo di virtuosi della chitarra non voleva più sentir parlare, ma non aveva neppure più bisogno di gente che la chitarra sapesse suonarla bene.

Danny Danzi sa suonare benissimo e dunque non c’è nulla di strano nel fatto che la sua carriera continui a mantenere un profilo molto basso. Nei primi anni ’90, Danny era la chitarra solista di una band della zona di Philadelphia, i Passion, che fece da supporto a Cinderella, Brittny Fox, Heavens Edge e Tangier, ma dopo sei anni di attività ed aver messo a punto un repertorio di 75 canzoni originali (cifra fornita da Danny Danzi sul suo sito: potete crederci o no), non era riuscita a trovare uno straccio di contratto, sciogliendosi infine (suppongo) per pura disperazione. Danny si arruolò allora in una tribute band dei Van Halen, gli Skeleton Crew, molto lodata per la qualità del suo show, con Danny perfettamente a suo agio nel ruolo di controfigura di sua maestà Eddie. Infine, nel 1998, arriva il deal come solista per la Z Records e la registrazione di questo ‘Somewhere Lost in Time’. Su questo disco, Danny fece praticamente tutto da solo incidendo anche le parti di batteria, basso e tastiere, l’unico suo partner fu Andy Slostad, anche la produzione fu opera sua, ed il prodotto finale riuscì tutt’altro che arruffato o artigianale. Al di là della buona qualità del songwriting, ‘Somewhere Lost in Time’ si distingueva per gli assoli di Danny, quasi sempre all’insegna di uno shredding misurato (e non è un ossimoro) che arricchiva le canzoni anziché deturparle o renderle puri e semplici scuse per showcase di tecniche chitarristiche estreme. Canzoni che variavano discretamente di registro, passando dai solenni impasti chitarre tastiere di scuola House of Lords di “Save Us” e “Is Love A Lie” al flavour californiano di “Come to Me”, un bel misto Autograph / Dokken sospeso tra fisicità ed atmosfera. “Lost Without Your Love” era una power ballad elettroacustica fra Tyketto e Bon Jovi con un bel bridge di marca Journey ma “Love Me or Leave Me” riportava immediatamente sulle spiagge di L.A. con il suo metal melodico arioso e fresco in puro stile Firehouse. La title track era un’altra power ballad, stavolta cromata e gigantesca, mentre “All the Time”, seppure introdotta da soffici armonie di chitarra elettrica, si sviluppava come un up tempo metallico con un refrain di nuovo debitore dei Tyketto, band chiamata in causa anche su “Dreams”, dominata da un potente impasto elettrico/acustico che tratteggiava il tipico big sound ruvido che associamo agli autori di ‘Don’t come easy’, ma con un finale di keys che ricordava vagamente gli Eyes. Con “Dirty Mean and Nasty”, Danny omaggiava i Van Halen tramite un party rock acrobatico con un fantastico coro R&B, mentre la chiusura veniva affidata a “Pop Goes the What”, un furibondo strumentale, l’unico sfogo di puro shredding che Danny si concedeva, sempre su un telaio di heavy molto cromato.

La discografia di Danny Danzi conta solo un altro album, ‘Danziland’, uscito nel 2004, da allora il Nostro ha contribuito a qualche progetto minore senza riuscire ad emergere su una scena che dei guitar hero non sa proprio più cosa farsene.

 

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MAXX EXPLOSION

 

 

  • FOREVER (2013)

Etichetta:Kivel Records Reperibilità:in commercio

 

Titolo di questa recensione: “La rivincita dei gregari”.

James Christian decide di accantonare (momentaneamente?) il monicker House of Lords e uscire con un disco a proprio nome. E i suoi pards come gli rispondono? Ricacciati qualche passo indietro dal buon James, mettono su una band e fanno uscire un disco che ho trovato molto più interessante di quello pubblicato dal loro boss. È l’ultimo arrivato, il bassista Chris McCarvill, a prendere il timone della nuova creatura, incidendo le parti di tastiere, cantando (molto bene) e anche producendo (in coppia con un Don Dokken che pare finalmente rinsavito dalla lunga sbandata alternative). BJ Zampa resta un batterista preciso e pulito ma niente più di questo, Jimi Bell rivela invece qui una vena quasi da guitar hero ma è McCarvill a sfoderare in un paio di occasioni delle performances che lo qualificano come un virtuoso del basso elettrico, in particolare sui due minuti esclusivamente strumentali intitolati “Demon Wheel”. Il resto? “Devils Locomotive” e “Falling Away” sono class metal vivaci e ben arrangiati, con un bel fondo di keys su una matrice che è sicuramente quella degli ultimi Lords ma con linee melodiche più “leggere” (“Falling Away” è anche più pomp ed epicheggiante, ma anche un po’ opaca). “Cross Your Heart” è costruita come una bella alternanza di cori pomp, muri metallici, tinnanti armonie di chitarre e tappeti di tastiere, con un flavour che mi ricorda abbastanza il Malmsteen più commerciale (quello di ‘Trilogy’ o ‘Odissey’). La prima power ballad è intitolata “Don’t Wanna Break”, mescola sapiente di Bon Jovi e Giant con bridge e assolo molto Whitesnake (era ‘1987’, of course). “Love Is A Nightmare” e “Famous” ci portano di filato a L.A., belle linee vocali su un tappeto di metal californiano con il solito sfondo di tastiere, e da quelle parti rimaniamo con “Rise”, splendido arena rock galoppante con refrain polifonico. “End Of The Line” ha una bella vena anthemica su un ritmo quasi boogie con il solito ritornello a più voci: come dei Van Halen lustri e cromati o degli Aerosmith che hanno preso la cittadinanza californiana. Un’altra power ballad, stavolta inequivocabilmente Whitesnake, dal titolo “Can’t Stop Falling” precede “Beat Around The Bush”, feroce, divertita, Vanhaleniana, con un altro sfoggio di virtuosismo bassistico da parte di Chris. Ancora Van Halen a manetta con “Suicide Door”, i VH swinganti e bluesy, c’è una corretta sezione fiati e l’Hammond, canzone divertente e piena di finezze, con l’assolo diviso tra chitarra e basso. Gran finale con la title track, che ricorda certe cose degli ultimi Whitesnake, fra intrecci di chitarre cristalline e scoppi di elettricità sui panneggi delle tastiere in cui va ad incunearsi un refrain pomposo.

Forever’ è una delle cose migliori uscite quest’anno: raccomandatissimo.

 

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JESSE DAMON

 

 

  • TEMPTATION IN THE GARDEN OF EVE (2013)

Etichetta:AORHEAVEN Reperibilità:in commercio

 

Paul Sabu sarà ormai giù di voce, ma come produttore sa sempre il fatto suo e lo dimostra in questa ultima fatica di Jesse Damon, chitarrista/cantante di quei Silent Rage di cui ho scritto poco tempo fa, che Sabu aveva diretto ed ispirato nei loro momenti migliori. Il grado di intervento di Paul su ‘Temptation…’ è notevole: produce, scrive le canzoni assieme a Jesse Damon e suona le parti di chitarra ritmica. Il risultato finale è, ovviamente, nello stile dei primi due dischi dei Silent Rage e delle migliori produzioni di Sabu, da ‘Heartbreak’ agli Only Child, fin dall’apripista “Garden of Eve”, con i suoi riff essenziali e trascinanti, lo smalto melodico dato dalle keys ed una linea melodica classicamente Sabu, avvincente ed incantevole. “Black Widow” e “I Need You Forever” sono più vellutate e sinuose, con refrain lisci e sexy, mentre “Save the World” è una ballad moderatamente power, dalla grande atmosfera. “Save Me” ci fa fare un brusco salto nell’AOR contemporaneo (alla Eclipse / W.E.T.), anche se Jesse ricama su questo telaio una linea vocale sempre molto anni ’80, “A Chance for Us” è una power ballad molto solida, “Let It Rock” si rivela (e con quel titolo, cos’altro poteva essere?) un anthem cromatissimo e sofisticato, con un refrain geniale nella sua (apparente) semplicità, fatto di una favolosa tessitura di parti vocali che si intrecciano e contrappuntano. Ancora una ballad, “Angel in the Starlight”, con un ritornello coerentemente celestiale, poi “Hold On” ci offre una fusione perfetta del suono più ruvido dei Silent Rage con quello AOR degli Only Child, “Little Angel” è una divertente, sfacciata esercitazione di metal californiano e a chiudere arriva un’altra ballad, “Wishing Well”, incantata ma percorsa da imponenti fiammate d’energia, refrain suggestivo ed un finale in crescendo con un enfasi quasi orchestrale.

Senza il minimo dubbio, questo è il disco AOR dell’anno che si avvia alla conclusione.

 

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MICHAEL MORALES

 

 

  • THUMP (1991)

Etichetta:Wing/Mercury Reperibilità:scarsa

 

Da dove posso cominciare il ritratto di Michael Morales? Dai quattro Grammy Awards vinti (in coppia con il fratello Ron) come produttore, dalle sue tante collaborazioni come songwriter (con Beyoncé e i Def Leppard, fra gli altri), dalle colonne sonore per film di primo piano, dalla sua scuola di musica? L’avventura in ambito AOR di Michale Morales dura purtroppo solo un paio di album, l’esordio omonimo del 1988 (dopo la lunga militanza nei The Max) e questo ‘Thump’ nel ’92, meglio focalizzato sull’AOR del predecessore che aveva una vena più cantautorale.

E ‘Thump’, com’è? Niente meno che un classico minore, e “minore” solo perché l’altissima qualità della scrittura si applica su stilemi già noti, voglio dire che in questo disco non sentiamo niente di nuovo, è “soltanto” una strepitosa prova di songwriting che pur nella varietà delle atmosfere rimane in territori ben conosciuti da chiunque bazzichi il nostro genere.

L’inizio affidato all’ariosa title track con le sue vocals soul ed il riffone elettrico che scivola sul vivace tappeto percussionistico rimanda senza equivoci ai Dan Reed Network, anche grazie ad un arrangiamento colorato, con “I Don’t Wanna See You” e  “Walk On Water” entriamo di slancio nelle atmosfere FM rock di Bryan Adams, con un plus di grandi armonie vocali un po’ Def Leppard. “I Cant Get Over You” esplora l’AOR robusto di Mitch Malloy e John Parr, “How Many Tears?” è una ballad squisita dall’intenso crescendo power, che di nuovo paga dazio a Bryan Adams (e in una certa misura anche ai Foreigner). Dan Reed e la sua band vengono chiamati di nuovo in causa su “What Do You Know?” e “Greenlight”, la prima aggressiva e ritmata col suo fitto tappeto elettroacustico, la seconda vigorosa ma sinuosa e danzereccia, entrambe dominate dai fitti intrecci dei cori. Tocca poi ai Survivor fornire il sound con cui vengono cesellate “Look Into My Eyes” e “Dream Of You”, mentre “What Will I Do?” è un pop rock che impasta felicemente gli Honeymoon Suite al rock facile di Huwey Lewis, e ancora il big sound ruvido di Bryan Adams è protagonista sulla conclusiva “Blessed Ground”, con il suo caldo organo Hammond.

Disco mai ristampato, ‘Thump’, ma di discreta reperibilità ed a prezzi abbordabili anche se molto variabili (chi lo vende a cinque dollari, chi a venticinque), indispensabile o quasi in ogni discoteca AOR che si rispetti.

 

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THE CREEK

 

 

  • STORM THE GATE (1989)

Etichetta:Beaver Reperibilità:scarsa

 

Un’altra band minore? Mica tanto… Come risultati in termini di vendite e popolarità, certo, i The Creek non hanno mai superato lo status del cosiddetto cult following, solo uno dei tanti monikers gettati allo sbaraglio nel calderone del melodic rock ottantiano. Ma per la qualità della proposta, questa band meritava senz’altro la promozione ai piani alti. Dopo vari album come Sugarcreek (con un suono decisamente pomp), decisero di ribattezzarsi The Creek, pubblicando altri due dischi che non gli portarono miglior fortuna di quelli usciti con la prima denominazione. Sempre confinati al mercato indipendente, gli mancò la spinta propulsiva di una buona promozione, gli appoggi, gli agganci, tutto quello che è in grado di trasformare cinque o sei tizi che suonano assieme in dei feticci per folle urlanti.

Il cambio di moniker aveva portato anche ad un notevole cambiamento nel sound, dall’AOR del primo disco omonimo si passò poi all’hard melodico di questo ultimo ‘Storm The Gate’: entrambi dischi ottimi (nel 2004 la Escape li ristampò assieme), io punto l’obiettivo su ‘Storm…’, il canto del cigno, uscito nel 1989, un album di cui non si può che dire bene, anche se il fatto che spesso il cantante titolare Tim Clark veniva sostituito dietro il microfono dal key player Rick Lee, dai chitarristi Jerry West e Michael Hough, dal bassista Robbie Hegler toglieva un filo di continuità. L’inizio affidato alla title track era nel segno dell’anthem, metallico e dal piglio deciso, ma con un arrangiamento movimentato grazie anche alle punteggiature di tastiere. Qualche spiaggia di Venice era invece il luogo ideale per spararsi “Rock Me Tonight”, con le sue grandi aperture melodiche e le sfumature Kiss nel refrain. Un notevole intreccio di chitarre andava a formare l’ordito di “Foxy”, galoppata sexy e metallica con ritornello essenziale: un vero gioiellino. “Girl Is Crying” era cromatissima, molto californiana, quasi una power ballad nonostante il martellare della sezione ritmica. “I Love” cambiava registro tramite una piece solo per voce e chitarre acustiche con finalino strumentale di keys rarefatte: bella canzone, ma la voce di Jerry West non valeva certo quella di Tim Clark. Una versione energetica e divertente del classico “Hanky Panky” precedeva la bella prova di “Passion”, allegra e vivace, fatta di un intreccio di riff (prima acustici, poi elettrici) per nulla scontato, interventi di tastiere, un assolo ispirato ed una linea vocale incisiva. “The Climb” era uno strumentale d’atmosfera: keys palpitanti e chitarra acustica, poi tastiere che disegnano un tema molto simile a quello di “Who’s Crying Now”, la chitarra che si fa più morbida e confidenziale, scivolando in un fraseggio molto semplice e bluesy che ci porta dritti alla canzone successiva, “Fountain of Youth”, veloce e con tinte R&B nonostante il vigore metallico: eccellente. E pure notevole risultava “Bad Light”, con i suoi tocchi pomp/prog fra le strofe e l’urgenza metallica del ritornello. In chiusura, “On My Way” si rivelava la track meno personale, qui i ragazzi suonavano come dei Journey più vigorosi, ma con belle divagazioni strumentali.

Dopo ‘Storm The Gate’ ci fu un EP a quattro pezzi pubblicato solo a livello locale e su cassetta, con il nuovo cantante Jay Willard (Illusion) ed una direzione musicale ancora più heavy che in passato, poi più nulla, la band passò nei libri di storia e non possiamo che rammaricarcene, vista la capacità che aveva di ritagliarsi un sound passabilmente originale ed il songwriting convincente.

 

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JESSICA PROUTY BAND

 

 

  • SET ME FREE (2013)

Etichetta:Briola Records Reperibilità:in commercio

È un esordio promettente quello della band di Jessica Prouty. Lei suona il basso e canta davvero bene e con questo primo, stringatissimo (appena trenta minuti) album ci consegna un lavoro ben suonato e prodotto, con una qualità audio impeccabile, ma che evidenzia anche una notevole indecisione della band sulla strada musicale da prendere. In più di un frangente dimostrano un debole per gli Evanescence (“I Know”, alternanza di accelerazioni furiose e momenti sognanti; “Devastate”, con chitarre stoppate e turbinanti, a volte carezzevole, altre furibonda; la power ballad cupa e dolente “Sometimes I Wonder”) ma senza una distinzione particolare, risultando competenti ma anonimi. Spiccano invece quando prendono le strade del rock più tradizionale, sulla splendida “Light This Place Up”, canzone tra l’hard bluesy da saloon ed il party metal più cromato, con chitarre slide, piano, armonica e linee vocali che richiamano un po’ gli Halestorm, e con la title track, un class metal moderno, un po’ Hydrogyn ma più caldo e melodico. Anche “Stay” non delude, un notevole hard rock dal ritmo indiavolato, mentre gli Hydrogyn vengono richiamati in causa su “Tired”. Conclude l’album “Take a Walk With Me”, ballad sensibile e delicata, cantata da Jessica in duetto con il chitarrista Cody Nielsen. Se riusciranno a scrollarsi di dosso il fantasma ormai logoro della band di Amy Lee e prenderanno coscienza delle potenzialità che hanno nel forgiare l’hard rock di stampo più classico, la loro strada si farà sicuramente in discesa.

AORARCHIVIA

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DISTANCE

 

 

  • UNDER THE ONE SKY (1989)

Etichetta:Reprise Reperibilità:scarsa

 

Negli “Appunti per una definizione dell’AOR” (per leggerlo, seguite il link) ho sottolineato quanto siano vaghi e incerti i confini del genere etichettato dal nostro beneamato acronimo. Si può addirittura dire che ciascuno può tracciarli a proprio piacimento, escludendo o inglobando secondo il proprio gusto. A mio parere (e, non lo nascondo, per i miei gusti) questi confini non sono poi tanto ampi. L’AOR è un genere di musica rock, e “rock” non significa semplicemente chitarre elettriche più o meno frastornanti ed una doppia cassa martellante. Le frange dell’AOR più sbilanciate verso il pop, l’R&B o il funky hanno comunque precisi elementi rock nel loro DNA: magari non prevalenti, ma comunque ben presenti. Ma quando questi elementi latitano? Se per gli Airplay hanno fatto tutto i critici (e penso proprio che Jay Graidon e David Foster si opporrebbero fieramente all’inclusione della loro creatura fra le rock band), diverso e più complesso è il caso di un’altra band tradizionalmente caricata sui nostri registri, i Distance. Loro sono AOR o no? Ogni volta che ascolto il loro unico disco mi pongo la domanda. In certi episodi, senza dubbio. E in altri no, sempre senza il minimo dubbio. E in altri ancora… Che alcuni personaggi chiave della band, con il rock propriamente detto avessero avuto poco a che fare, è innegabile. Bernard Edwards e Tony Thompson venivano dagli Chic. Ma il chitarrista  Eddie Martinez ha nel suo curriculum collaborazioni con David Lee Roth, Meat Loaf, Mick Jagger. Del key player Jeff Bova è superfluo dare il pedigree e sulla voce di Robert Hart (il miglior emulo di Paul Rodgers che si sia mai messo davanti ad un microfono) neppure si può discutere. Il prodotto finale di questa superband era però ben lontano dal rappresentare una sintesi mirabile fra generi. Ma andiamo a vederlo in dettaglio, 'Under The One Sky'.

No Way Out” è aperta da una chitarrona funk, imponente, cattiva, su uno sfondo di tastiere ondeggianti e percussioni. Una canzone sexy e d’atmosfera che fa quasi pensare a dei Toto più heavy, ma per tutti o quasi i suoi cinque minuti e passa di durata sentiamo in sottofondo una chitarra durissima che sembra stare lì solo per fare rumore: non scandisce un riff, non disegna una melodia o un’armonia, fa l’effetto di puro suono (il suono che dovrebbe avere una canzone rock, avrà pensato Bernard Edwards, che l’album lo ha prodotto?), un rumore di fondo che alla lunga può diventare addirittura irritante. “Leave It Up to You” esce del tutto dai confini del rock, è un R&B danzabile su cui incidono sopratutto i fiati scoppiettanti ed il basso slappato, con un bel ritmo e ancora una grande atmosfera e la chitarra di Martinez che si limita a rifinire qua e là. “Speech of Angels” viaggia sul filo di un rasoio, un pop rock dall’anima danzereccia, con la solita chitarrona che ogni tanto irrompe fra le tastiere a dare “durezza”: se vi piacevano le canzoni di Dan Hartmann, qui c’è pane per i vostri denti. “As You Turn Away” è la prima ballad, decisamente power grazie al solito chitarrone che esplode nel ritornello, il rimbombo della cassa, l’assolo di chitarra distorta ed una grande melodia scandita dalla voce di Robert Hart. L’R&B torna con “Give It Up”, con uno spiegamento di tastiere e ottoni e una chitarra a fare da tappeto: solita storia, quella chitarra sta lì per dare colore rock, l’unico momento in cui Martinez dà un contributo vero alla canzone è con l’assolo, c’è una mancanza di equilibrio da attribuire sicuramente anche ad un mixaggio discutibile. Stessi difetti presenta la title track, c’è il solito chitarrone dalla durezza zeppeliniana, il battito della cassa ed una melodia mirabile, soul e corale, siamo quasi all’arena rock, ma non sembra esserci proporzione tra le parti, come se i volumi fossero stati pompati solo per aumentare la pressione sonora. Più equilibrata risulta  “Rescue Me” che dopo un intro etereo vede irrompere una chitarra enorme, con la melodia scandita dalle tastiere ed un assolo distorto e spettacolare, e tutto suona come dei Bad Company anni ’70 cromati ed AOR. Ma si torna al solito utilizzo “rumoristico” della chitarra su “Looking Over Your Shoulder”, notturna e raffinata su una classica ossatura di pop ottantiano. Anche “Everytime I Stand Up” vede Eddie Martinez darci dentro sopratutto per indurire il suono: un basso incalzante, la chitarra prima funk poi rabbiosa che scivola indietro come d’abitudine, un bel trattato di big sound alla John Parr che si impenna nel grande refrain. “Softly Speak” è una ballad limpida e suadente, con qualche nota di chitarra solo nel finale. Divertente e ben strutturata si rivela “Stand Up”, con la sua ritmica serrata e grattante, gli interventi di chitarra duri e rabbiosi su cui viaggia una melodia robusta e R&B, con gli assoli affidati all’organo Hammond di Jeff Bova ed al basso. Chiude “I Hear You”, funky dance con qualche impennata rock nei bridge ed un bel refrain arioso.

Tirare le somme di ‘Under the One Sky’, l’avrete intuito, è tutt’altro che semplice. Il songwriting è di livello altissimo, ma tutto il resto lascia perplessi. La vena pop, funky, R&B e dance risulta alla fine sempre prevalente, nonostante Eddie Martinez c’abbia dato dentro, suonando in maniera tirata e fragorosa. Ma i suoi interventi, come già detto, si sono limitati in genere ad aggiungere puro “suono”: la chitarra non entra mai davvero nell’ossatura delle canzoni, non scandisce quasi mai un riff, non segue né detta la ritmica, non fa le armonie, non impone una linea melodica ed è tutto questo che ci dice che stiamo ascoltando una canzone rock. Se quest’album l’avesse supervisionato un produttore rock “vero” come Bruce Fairbairn o Mike Stone, forse oggi ne parleremmo come di un masterpiece assoluto, ma il lavoro di Bernard Edwards si limitò nella sostanza a rivestire di una scorza rock canzoni che (per quanto belle) rock non erano per niente. Tutto questo basta, almeno per me, ad escludere i Distance dall’elenco, o quanto meno a piazzarli in una sottocategoria particolare, tra le band di confine, quegli act né carne né pesce che vagolarono tra i generi senza fare mai una scelta di campo netta e chiara, per calcolo o sincera indecisione. Nel caso dei Distance, il calcolo mi sembra palese. Nel 1989 l’AOR dominava le classifiche di Billboard e Edwards pensò che una puntata in quella direzione non poteva che far bene al suo portafogli. Ma, dato che il rock propriamente detto non era nei suoi precordi, si mosse male: ritenne che per suonare l’AOR bastasse semplicemente aggiungere una chitarrona in overdrive ad una qualunque canzone pop o R&B. L’ibrido ottenuto non risultava sgradevole, ma certo non poteva tenere testa all’AOR “vero”, e mi piace pensare che il fiasco commerciale dei Distance sia dipeso proprio da questa strategia maldestra, che allontanò da un lato gli amanti del pop (rintronati e/o spaventati dal fracasso prodotto dalla sei corde di Eddie Martinez) e dall’altro quelli del rock, i quali non riuscivano a sentirsi coinvolti da canzoni che nonostante il volume delle chitarre elettriche, alla fine della fiera non erano “rock” quasi per niente.