Chi è Atom Stone? Solo un americano che suona musica che gli americani non ascoltano più. La ama e vuol suonarla e inciderla anche se sa benissimo che pochi, pochissimi gli presteranno attenzione in patria. E il bello è che questa musica l’hanno inventata proprio loro, gli americani… Sembra assurdo, ma forse non lo è affatto. Quanti sanno che, per tanti e tanti anni, cantanti italiani di cui nel nostro paese pochissimi conoscevano l’esistenza hanno girato il Nord e il Sud America esibendosi davanti a platee tutt’altro che scarse e vendendo un più che rispettabile numero di dischi di musica italiana composta nello stile degli anni 50 e dei primi anni 60, gente che aveva in repertorio le canzoni di Modugno, Achille Togliani, Claudio Villa o Alberto Rabagliati ancora nel pieno degli anni 90, quando per l’italiano medio questi erano solo nomi da archeologia musicale? Il parallelismo con la situazione attuale del rock melodico è quasi perfetta. Tornando al nostro Atom… Le risorse, senza dubbio, non gli mancano: per incidere questo suo primo album ha collaborato con un paio di produttori, mentre personaggi più o meno noti della scena AOR (Jimi Bell, Dan Tracey, Paul Taylor, Jeffery Sturms e altri) gli hanno fatto da backing band, dato che lui – mi sembra – si limita quasi solo a cantare. Riguardo la sua voce, non si può fare a meno di notare che il Nostro sembra cerchi di farsi passare per il figlio segreto di Steve Perry… e ci riesce anche abbastanza bene! Un passo falso in apertura: “I Believe” è una power ballad, e non si dovrebbero mai aprire le danze con una ballad, ancorché power, in un album rock. Però è una buona power ballad, molto Journey vagamente filtrati nel moderno, e sempre la band di Neal Schon (e Steve Perry, of course) ispira la title track, che guarda spiccatamente in direzione “Separate Ways”, ma è ben riuscita. “Hate Love” fa un po’ svedese moderno ma non è male, “Watch Me Die” è una power ballad un pelo troppo mesta, problema che affligge anche “Driving Back To You”, questa vagamente Harlan Cage. Cambio di scenario con “Hell On Wheels”, un po’ southern un po’ Bad Company placcati di cromo luccicante: buona. E altrettanto buono risulta il morbido AOR soul di “The Real Thing”, mentre “Tonight” è caratterizzata dal riffing geometrico e dalle solite nuance Journey. Altro cambio di scena per le ultime tre canzoni, tutte figlie illegittime del primo album di Mitch Malloy: “Battlefield” (che può annoverare tra i suoi padrini anche Harry Lee Summer), “Hurt Me” (vivace e divertita, davvero buona), “Uptown” (chitarre più ruvide, decisa e con una bella impronta rock’n’roll. Qualità audio immacolata e produzione impeccabile completano il quadro di un album nient’affatto malvagio: sarà anche archeologia musicale, ma a noi piace…
Per una band, poter esibire il passaporto canadese al popolo dell’AOR era senza dubbio un grosso aiuto per entrare nelle sue grazie. Ma non sempre la semplice nazionalità dell’ensemble bastava ad avere successo o, quantomeno, a destare un qualche interesse. Prendiamo gli Everest, confrontando lo loro fortune con quelle dei recentemente trattati Beau Geste: entrambi avevano un sound focalizzato più sul versante yankee dell’AOR che su quello canuck, entrambi pubblicarono i loro album solo in Canada (gli Everest per la major Epic, i Beau Geste per l’indie TGO). Eppure i Beau Geste sono una mezza leggenda, degli Everest si ricordano in pochi: oblio immeritato per un album che ha invece tanto da offrire a chi ama l’AOR puro e duro, a volte virante perso il pomp altre più incline verso il pop rock. Prodotto da Paul Gross (Saga, Reckless,Wrabit, Mannequin, Lee Aaron, Bernie LaBarge), ‘Everest’ era aperto da “Right Between the Eyes”, che dichiarava subito e senza equivoci la devozione della band verso i Journey, addobbati di pomp ma con un corredo di belle chitarre robuste. “Hold On” si collocava nella stessa scia, ma risultava più pacata, luminosa, con impasti vocali vagamente prog, mentre “Only a Moment” era contraddistinta da un’enfasi drammatica e tastiere di nuovo pompose, perlomeno a tratti. Dopo il lento crescendo di “I Think It’s My Heart” arrivava il pop rock muscolare di “Danger Zone”, e il synth bass pulsante della eccellente “Streetwise”. I Journey erano molto presenti nel bridge di “You Make Me Shiver”, molto meno nella suggestiva power ballad “Come to the City”, del tutto assenti in “Everybody’s Nuts at the Palace”, un breve strumentale per due chitarre acustiche, del tutto fuori posto (e quel titolo sembra tradire il fatto che la band ne fosse perfettamente consapevole) nel contesto dell’album. Due gemme in chiusura: “I Know You’re There”, dinamica e per nulla scontata con quei cambi di tempo tra strofe e coro; “I Don’t Know”, cadenzata, elettrica, suggestiva e di grande atmosfera. Questo bel disco non raccolse consensi neppure in Canada, la band venne licenziata dalla Epic, registrò un altro album rimasto inedito fino al 1996, cambiò cantante (Ric Mcdonald – anche bassista – lasciò il posto ad Andrea Duncan) e nel 1986 vinse un contest che aveva in palio la pubblicazione di un 45 giri per la MCA. Questa canzone – intitolata “Don’t Know What To Do” – rimase l’ultima testimonianza lasciataci dagli Everest, ripescati solo una volta nel 1996 dalla Long Island che ristampò l’esordio (per la prima volta su CD, in origine uscì solo su LP e cassetta) e pubblicò il secondo album (intitolato ‘One Step Away’, di cui scrissi cinque anni fa: per chi non ricorda c’è il link). Auspicare una nuova ristampa di ‘Everest’, o almeno il suo ingresso nel catalogo di Amazon Music è del tutto legittimo.
Quella dei War & Peace è la classica storia della “band nata morta”? Forse. Certo è il fatto che, quando questo album uscì, i War & Peace non esistevano più, si erano sciolti addirittura un anno prima che ‘Time Capsule’ (titolo fin troppo esplicito) venisse pubblicato. Jeff Pilson, che li aveva fondati e ne era il leader, recuperò poi il moniker per altri tre album che erano però sue produzioni da solista, il terzo e il quarto, mentre il secondo presentava il materiale inciso dalla prima incarnazione della band, i Flesh & Blood, e contava su una line up completamente diversa da quella che registrerà sotto il nome War & Peace. Confusi? Be’, era il periodo storico ad essere – dal punto di vista musicale e non solo – confuso. Grunge e industrial avevano messo in fibrillazione chi operava in altri generi, e Jeff Pilson, dopo la fine dei Dokken, tentò di mettere su una band (moniker scelto, come già annotato, Flesh & Blood) in cui si alternarono Vinnie Appice, Michael Diamond, Kevin Valentine, Randy Hansen, Darren Householder. Già a metà 1989 ci fu il cambio di moniker, poi nell’estate del 1990 la progettata band si sciolse, ma dopo appena qualche mese Jeff si associò a Tommy Henriksen (che qui decise – Dio sa perché – di firmarsi Tommy Hendrix, e andò a occupare il posto di bassista), arruolò Russ Parish (alla chitarra) e Ricky Parent (batteria) e i War & Peace rinacquero, suonarono un po’ in giro, registrarono le canzoni raccolte in ‘Time Capsule’ e nel marzo del 1992 si sciolsero nuovamente. L'album passò praticamente inosservato all’epoca, forse perché era il parto di una band già diventata storia, oppure fu il nuovo clima musicale a relegarlo ai margini di una scena in crisi profonda. Ma trascurarlo fu un errore madornale. Non era un capolavoro, ma un signor disco, sì. Jeff Pilson (qui voce e chitarra ritmica) si rivelava per la prima volta quell’ottimo produttore che abbiamo imparato a conoscere su tanti album, fra timbriche bellissime e sempre varie e arrangiamenti per nulla scontati. Si parte con “Love Has No Color”, che dopo un lungo intro ci offre un bel metal californiano dai suoni taglienti, più Ratt che Dokken, con una melodia tra glam e pop e uno stuzzicante assolo dalle tinte funky. Si cambia scenario con “Stone Cold Believer”, aperta da robuste acustiche country che ci portano in un hard rock tramato di southern alla maniera dei Dillinger o dei Soul Kitchen mentre “Change The World” è una sinuosa ballad in chiaroscuro, che si snoda lenta fra acustiche zeppeliniane e tastiere dal suono esotico, con una efficace impennata elettrica nel bridge. Se “Can’t Slow Down” è un bel class metal anthemico alla maniera dei Firehouse, “New Sensation”, divertente e swingante alla Van Halen, viene tessuta da un pregevolissimo intreccio di chitarre e vocals scanzonate, facendosi via via più elettrica con un finale di riffoni bluesy e rotolanti su cui imperversa una chitarra col wah wah in overdrive. Autograph, Winger e Dokken si intrecciano e si fondono in “World Spinnin’ Round”, hard melodico di buona caratura con refrain molto David Lee Roth, seguito dalla ballad tutta acustiche e tastiere intitolata “Believe In Yourself” e da una “Heaven Is Waiting” che guarda ancora in direzione Autograph, interpretando quel sound in una chiave più heavy e meno festaiola. “I Miss You Mama” si rivela una power ballad elettroacustica, un po’ Bon Jovi nel refrain, molto Bad Company in tutto il resto: i riferimenti a “Feel like Makin’ Love” sono trasparenti ma per nulla sgradevoli. “Spread Your Wings” (più scura nelle strofe, più luminosa nel refrain che fa tanto Tyketto) precede “We All Need Someone To Love”, che chiude l’album con una power ballad beatlesiana, arricchita di una impennata sinfonica nel bridge fra i Led Zeppelin e gli House of Lords. Difetti? Ho qualche riserva su certi testi che inclinano sul sociale zuccheroso e/o allo strappalacrime, ma la musica è al di sopra di ogni sospetto. ‘Time Capsule’ non è mai stato ristampato, uscì per la Shrapnel negli USA, la Roadrunner in Europa e la Far East Metal Syndicate in Giappone. Su eBay il CD gira a prezzi compresi tra i 30 e i 40 dollari, ma è disponibile come .mp3 su Amazon Music e per chi ama tutto il rock melodico sofisticato che imperversò al tramonto dei Big 80s l’ascolto è caldamente raccomandato.
Cantare ancora una volta laudi a Tommy Denander è superfluo (chi vuole rinfrescarsi il ricordo di quelle che gli dedicai all’uscita di ‘F4ur’ e ‘X.X.X.’ può seguire i link), preferisco passare subito a occuparmi di questo nuovo ‘Reset’, uscito appena due anni dopo ‘X.X.X.’ (“appena” perché ci vollero ben sette anni per dare un successore a ‘F4ur’). Differenze con l’ultimo prodotto discografico? Alla lista dei collaboratori è stato aggiunto sua eccellenza Jeff Paris, che si alterna al microfono con Jim Jidhed, Robin McAuley, Joey Vana e Harris Zindani, e il tono generale dell’album è molto più rivolto all’AOR e all’hard melodico con riferimenti prog più forti rispetto a ‘X.X.X.’ “Sentimental” chiarisce immediatamente la direzione dell’album, sviluppandosi su una morbida trama Journey con qualche tocco di AOR svedese moderno: gran spiegamento di tastiere e un refrain che ricorda parecchio i Final Frontier. “Shame On You, Shame On Me” prosegue su quella rotta, un po’ più elettrica, ritmata e arena rock (l’imput dato da Jeff Paris è evidente); a seguire, “Gaia” risulta una morbida ballad AOR su un intreccio di chitarre, keys e percussioni dal forte sapore prog, patinata e raffinata nello stesso tempo, con una bella impennata d’energia nell’assolo. Robin McCauley sta al microfono per “When The Lights Go Down”, hard melodico dal ritmo sostenuto ma un po’ anonimo, meglio riesce l’AOR robusto di “In A Perfect World”, e ancora più in alto sale la title track, che parte insinuante e d’atmosfera tra sciabolate di chitarra facendosi molto elettrica in splendido equilibrio tra classico e moderno. Se “Midnight Train” sembra il parto di una versione dei GTR meno pomp e luminosa, “Open Spaces” ci riporta nell’universo Journey con un AOR dalle strofe notturne che procede su una melodia tenera tra frasi di chitarra di grande suggestione. C’è molto del tipico rock melodico di Jeff Paris nel refrain di “Sweet Little Tina”, canzone che bilancia miracolosamente il divertimento dell’hard melodico con la cerebrale raffinatezza del miglior prog rock, tra il synth bass, i flash di tastiere, una chitarra ritmica agile e aggressiva, mentre i meravigliosi chiaroscuri di “Hard Times To Fall In Love” scivolano su un riff zeppelinano corretto al prog fra cui si adagia una frase maliziosa di chitarra. In chiusura, “Breakaway” spara un riffone indiavolato e molto Deep Purple, con Jeff Paris che spande un bello smalto r&b nella melodia: diretta per quanto Tommy Denander si permette di esserlo… Insomma, ‘Reset’ album top del 2024? Mancano ancora un paio di mesi al 31 dicembre, e non si può mai escludere un colpo di coda che rialzi il livello generale di un’annata molto grigia: se di novità ne ho recensite poche non è stato per pigrizia, solo perché non volevo affliggere i miei stimati lettori con troppe lamentazioni sul livello infimo delle uscite più recenti nel nostro settore. ‘Reset’, dunque, non è solo un magnifico album di rock melodico, ma illumina di luce abbagliante un anno che è passato quasi sempre rischiarato solo da malinconiche penombre.
Chi legge le mie recensioni anche su Classic Rock forse ricorderà che dell’ultimo album di questa band britannica, ‘Those City Lights’, scrissi entusiasticamente un paio di anni fa. Questo ‘Ain’t no Saint’ mi ha entusiasmato un po’ meno del suo predecessore, che era forse un pelo più avventuroso nel coniugare il classico rock melodico britannico di Little Angels e Kiss Of Gypsy con il moderno, ma resta un disco notevole. Un intro rarefatto e un po’ Pink Floyd ci porta nella title track, che si sviluppa lungo un crescendo morbido e acustico al principio, salendo fino a un’elettricità ritmata e danzereccia. “The Wire Defines” e “Hell or High Water” sono i Little Angels proposti in una versione ruvida ed essenziale, la prima con un bel coro anthemico, la seconda più orientata al moderno. Dopo la ballad elettroacustica “Not Enough”, arriva l’arena rock “Down & Outs”, più vicino al sound dei Kiss Of Gypsy, mentre le sfumature soul di “End of Our Song” sono debitrici degli FM post ‘Tough It Out’. Ancora i Little Angels, quelli più beatlesiani, ispirano “Hang Fire”, svelta, elettrica, divertita, sul riffing dinamico di “Hold the Anchors” si stende un impianto melodico di chiara ascendenza Thunder, con “Callin’ Time” torna in ballo la band di Toby Jepson, quell’irruenza servita con spavalderia e freschezza. Chiude “Return”, bluesy e tenera nelle strofe alla maniera di Gary Moore o degli FM, si infiamma nel refrain, terminando con una lunga coda strumentale che procede fra muri di tastiere e una chitarra lacerante. Raccomando caldamente questo album a tutti, ma in particolare a chi ritiene che da tutto ciò che è rock contemporaneo si debba stare alla larga. Il confronto con il moderno certo non è ineludibile, ma dovrebbe essere perlomeno una possibilità. Gli Austin Gold provano a trasporre un certo sound nel XXI secolo e lo fanno benissimo. Temo che questo non basterà a farne delle stelle (se non è riuscito ai Tempt, con quell’esordio straordinario…) ma la loro musica ha tutto per prendere alla gola chi, delle classiche band citate, è sempre stato un fan.
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