RECENSIONI IN BREVE

 

 

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MICHAEL FURLONG "Breakaway"

Ristampato nel 2009, questo secondo ed ultimo album di Michael Furlong parlava la lingua dell’AOR e del pop rock di metà anni ’80 (uscì nel 1987): tastiere in abbondanza, batteria elettronica, chitarre ben amalgamate nel mix per un sound che pur guardando ai numi Journey e Toto aveva come punto di riferimento soprattutto le alchimie sonore già sperimentate da John Parr e Van Stephenson. Il songwriting non faceva gridare al miracolo ma produzione e arrangiamenti rendevano piacevole l’ascolto. La top song era “You Better Watch Your Step”: chitarra funky, atmosfera notturna e fascinosa, melodia maschia alla John Parr. Un recupero non doveroso, ma sicuramente non superfluo.

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MFN - 1987

 

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RAINMAKER "Rainmaker"

Ecco una delle tante testimonianze della valentia di quel genietto del rock melodico di nome Tommy Denander. Durarono appena un album, i Rainmaker, solo uno dei tanti progetti in cui il vulcanico svedese è stato coinvolto, undici canzoni che ci davano al suo meglio il sound raffinato e marezzato di prog che Tommy porta in giro da una trentina d’anni. Fra richiami agli Steelhouse Lane (“Father Of Your Sins”, con la sua melodia di marca Journey ed il refrain ad un passo dal r&b, l’arena rock agile di “Bad Call”, le architetture dinamiche e potenti di “Nancy Hold On”), Mitch Malloy (le trame elettroacustiche di “The Sound Of My Heart”) e Bryan Adams (“Passion Again”), ‘Rainmaker’ scorreva piacevolmente, pur con qualche intoppo qua e là (la title track è inutilmente lunga e poco incisiva, il clima epicheggiante alla Magnum di “Going Insane” mi dice poco, “King Of Fools” è un po’ confusa, come se c’avessero messo troppa roba dentro). Sarebbe ora che qualcuno pensasse ad una ristampa.

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Z Records - 2000

 

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THE END MACHINE "The End Machine"

Ma questi The End Machine, sono i Dokken senza Don Dokken, oppure i Lynch Mob del secondo album con Jeff Pilson? Comunque vogliamo considerarli, il suono segue le tracce degli ultimi album dei Mob e anche dell’ultimo Warrant (prodotto, non è certo un caso, da Pilson), con una dose maggiore di street metal melodico nella miscela. Rispetto agli ultimi album della band di George, i suoni di chitarra sono molto più belli, nitidi e colorati, gli arrangiamenti e la produzione curati e, insomma, Jeff Pilson non sarà Ron Nevison o Keith Olsen, ma la sua presenza dietro il banco del mixer si sente. E quel che conta, il songwriting? Molto anni ’80 e primi ’90,  e buono senza stupire. Il meglio sta nei toni anthemici di “Bulletproof” e “Line Of Division”, le trame ipnotiche in cui va ad incastrarsi un refrain solare di “Burn The Truth”, le cadenze insinuanti di “Hard Road”; il peggio in “Sleeping Voices”, che tiene fede al titolo essendo soporifera e troppo lunga. Il chitarrismo di George Lynch resta sempre la carta vincente, anche se meno spettacolare e avventuroso che nel passato, e il risultato globale è decisamente superiore all’ultimo Lynch Mob.

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Frontiers - 2019

 

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TRISHULA "Scared to Breathe"

Prevedibilmente, questa band guidata da Neil Fraser (ex Ten e Rage of Angels) ha un suono decisamente Ten oriented, magari con qualche nuance Journey e tracce (lievi) del suono svedese contemporaneo. Il songwriting è pregevole e ci sono almeno due perle: “Don’t Let Go”, non tanto distante dai Ten degli anni d’oro, e “A Love so Cruel”, più vicina al sound molto Little Angels di ‘Stormwarning’ (album che segnò il breve periodo di militanza di Fraser nella band di Gary Hughes). Produzione e resa fonica sono eccellenti, anche se le canzoni sono sempre troppo lunghe. Rimane enigmatica la scelta di un moniker bellicoso (la trishula è una sorta di tridente che in India ha un significato magico e religioso) e di un’immagine di copertina da film horror, più adatta ad una band heavy metal sanguinolenta e assatanata.

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AOR Heaven - 2019

 

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BAD CITY "Welcome to the Wasteland"

Questo unico album dei Bad City ha una sua importanza dal punto di vista storico: rappresenta difatti l’ultimo tentativo da parte di una major label di proporre al grande pubblico musica inquadrabile nella categoria del rock melodico, un rock melodico calibrato secondo i gusti del pubblico rock degli anni Zero che mescolava con intelligenza Def Leppard, Queen e Kiss ai Green Day ed agli Smashing Pumpkins. Fu un fiasco bestiale (numero 182 di picco sulla Billboard 200) nonostante i commenti ben più che entusiastici di Paul Stanley e tour di supporto proprio agli Smashing Pumpkins ed a Slash, e dopo poco più di un anno la band era già morta e il tentativo archiviato, ennesima dimostrazione che i revival (più o meno camuffati) attecchiscono solo molto di rado nei terreni della musica da alta classifica.

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Atlantic - 2010

 

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TOTAL STRANGER "Total Stranger"

La Lions Pride ha avuto la buona idea di ristampare l’esordio di questa band canadese, risalente al 1997. Salvo per  “Bed of Lies”, che razzola malamente dalle parti degli ultimi Ratt con un metal californiano cupo e noioso, l’album batte benissimo i territori dell’AOR hard edged sulla scia di act simbolo come Honeymoon Suite e Glass Tiger, oppure deriva verso le atmosfere classic rock cromate di Bryan Adams e del Bon Jovi più root. Difficile individuare degli highlight, perché il livello generale è costantemente sopra la media ma l’arena rock anthemico e drammatico di “The Mask”, l’impasto elettroacustico di “Big Dream” e quella ballad dall’atmosfera misteriosa intitolata “Guardian” sono probabilmente le schegge più riuscite di un album davvero interessante.

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Sphinx Ministry - 1997

 

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MICHAEL THOMPSON BAND "Love & Beyond"

Il ritorno di Michael Thompson all’AOR dopo  i furori elettrici di ‘Future Past’ (per saperne di più, c’è il link) è gradito: purtroppo, il Nostro come songwriter sembra arrivato più o meno alla frutta: gran parte delle canzoni sono banali, fiacche e scontate e il grandissimo guitar work non può supplire alla mancanza di ispirazione che affligge una buona parte del materiale presentato. C’è del buono in “Just Stardust”, “Starting Over”, la title track e “Supersonic” ma è troppo poco per promuovere ‘Love & Beyond’. I tempi di ‘How Long’ (altro link per chi non ricorda) sono molto lontani, in senso letterale ed in quello lato dell’espressione.

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Frontiers - 2019

 

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PAUL GILBERT "Behold electric Guitar"

Fusion sopraffina quella che Paul Gilbert ci propone nel suo ultimo album: una chitarra dal suono sempre rigorosamente rock (hard rock, molto spesso) che si esprime con agilità jazzistica e in più di un frangente dialoga con basso, batterie e tastiere secondo i modi dell’interplay tipico del jazz. Lenta e melodica o suonata con uno shredding a velocità vertiginosa, la chitarra di Paul Gilbert è sempre straordinaria, intensa, magistrale, amalgamando rock, jazz, funk e blues in un mix dal fascino irresistibile.

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Music Theories - 2019

 

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THE BRINK "Nowhere to run"

Prendete i Firehouse, filtrateli attraverso i Nickelback di ‘The Long Road’ e avrete quel che suona questa band inglese. L’idea non è malvagia e la sua traduzione in pratica si mantiene su un livello ben più che dignitoso: purtroppo le atmosfere di ‘Nowhere to run’ tendono uniformemente al cupo/incazzato e di ulteriori inviti alla depressione il rock proprio non ha bisogno.

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Frontiers - 2019

 

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TESLA "Shock"

Questo ‘Shock’ segna per i Tesla un interessante cambio di strategia: anziché clonare se stessi, hanno deciso (con il supporto alla produzione di - guarda un po'... - Phil Collen) di mettersi a clonare i Def Leppard. Il bello è che ci riescono benissimo, tutto il repertorio della band di Sheffield viene rivisitato (più o meno sfacciatamente) con bel piglio, e l’album riuscirà certo gradito a chi ama quel suono, molto meno (suppongo) ai fan di Jeff Keith e soci, che comunque da anni ed anni vegetano fra live celebrativi e dischi di studio inconsistenti e insipidi. ‘Shock’ è divertente e ben suonato. Manca di personalità, ovviamente, ma non è che i Tesla (per me, sempre sopravvalutati), anche ai loro tempi d’oro, di personalità ne abbiamo mai esibita in quantità.

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Universal - 2019

 

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TOSS'N'TURN "Freestyle"

Questa band tedesca cercava un approccio alla materia del rock melodico eclettico e/o originale, costellando le canzoni di lampi di genio che solo raramente suonavano geniali. Il bridge disco-funky al centro di quel metal californiano simil Bulletboys intitolato “How Do You Feel” funzionava, meno bene andavano i fiati campionati (dal suono orrendo) del funk metal “Don't Lie To Me”, gli strani flash di tastiere che attraversavano “Back To the Wall”, il refrain mezzo stonato della power ballad “Heart Growing Old”. Jaqueline Cipriano aveva una voce interessante ma troppo acuta e mixata decisamente troppo indietro e, alla fine, ‘Freestyle’ si risolveva in un tentativo di innalzare il livello di un lotto di canzoni per nulla eccezionali tramite soluzioni più o meno anticonvenzionali che molto di rado coglievano nel segno: non proprio da dimenticare, ma certo tutt’altro che una lost gem.

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Long Island Records - 1995

 

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GLASS TIGER "33"

I Glass Tiger tornano a noi con un album (o dobbiamo considerarlo un EP?) di appena sei canzoni (l’anno passato c’era stato ‘31’, ma quel disco era fatto solo di materiale riregistrato) che si ricollega idealmente all’AOR leggero leggero di ‘The Thin Red Line’: rarefatto, d’atmosfera, con più tastiere che chitarre (queste ultime spesso acustiche). Fa eccezione la sola ‘This is London’, rock’n’roll diretto e un po’ Who, un corpo estraneo all’interno di un lavoro raffinato che farà felici tutti coloro che amano l’AOR al confine della musica pop

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Willow Music - 2019

 

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REALITY SUITE "Awaken"

L’offerta musicale dei Reality Suite è perfettamente allineata a quella dei principali act di hard rock moderno più o meno melodico: Evanescence, Alter Bridge, Halestorm. Il songwriting è su livelli buoni, anche se manca della minima scintilla di personalità. La band ha poi un debole per atmosfere depressive e funerarie, ostentate anche nei titoli delle canzoni: traducendo in lingua madre, abbiamo “Seppelliscimi viva”, “Morto per me”, “Sepolcro”… E poi qualcuno si meraviglia se i ragazzi preferiscono andare ai rave party invece che ai concerti rock…

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Lions Pride - 2019

 

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TONY MILLS "Beyond The Law"

Anche se è intestato all’ ex Shy, Siam e TNT Tony Mills, questo ‘Beyond The Law’ porta il marchio delle produzioni di Tommy Denander (che produce ed è autore delle parti di chitarra e tastiere). Ritroviamo qui, dunque, tutte le felici caratteristiche del melodic rock di Tommy: la varietà e la raffinatezza degli arrangiamenti, i tocchi prog. Tony Mills ha portato una certa aria Journey nelle melodie vocali e, immagino, il concept gangsteristico. Il top? La versione del metal californiano che Tommy imbastisce per “Black Sedan”, le architetture spavalde e ritmate di “The Westside”, le suggestioni Def Leppard (era ‘Pyromania’) su cui è costruita “Crackin’ Foxy”.

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Battle God - 2019

 

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CHAMPION "Halfway to Heaven"

Ristampato nel 2008 dalla Retrospect (venne pubblicato in origine nel 1988), questa unica testimonianza dei Champion non è precisamente una lost gem. Il songwriting nello stile AOR della prima metà dei Big 80s non stupiva, con melodie abbastanza fresche disinnescate da refrain fessi o poco incisivi, grande abbondanza di tastiere e intrecci di vocals a volte molto pomposi (e non sempre riusciti: su “On My Way” suonano in qualche caso decisamente stonati). Il meglio sta nella seconda parte, tra le tentazioni anthemiche di “Wait ‘til Tomorrow”, i buoni momenti di “Who’s Running the World” e, soprattutto, l’atmosfera di “One Plus One”, con la sua miscela molto ben calibrata di chitarre limpide e rock, keys e cori pop. Comunque, niente di imprescindibile.

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Quicksilver Records - 1988

 

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LOST JOHNNY "Hidden Measures... And 1/2 Truths"

L’unico album dei canadesi Lost Johnny non è un’opera memorabile: prodotto e mixato in maniera dilettantesca (nella band ci sarebbe un tastierista, ma quello che suona si riesce a stento a percepirlo, e solo ascoltando in cuffia), e con una qualità audio non certo sopraffina. Il songwriting rimastica quindici anni di metal melodico più o meno glam, passando dai Van Halen ai Dokken, dai Babylon A.D. ai XYZ, dai Bulletboys agli Whitesnake senza fantasia e con arrangiamenti spesso arruffati. Il peggio, nei sette, inutili minuti di ‘Long Way’, arena rock rovinato da un refrain in cui le chitarre salgono ad un volume assurdo, di puro frastuono, e afflitto oltretutto da un controcanto stonato. Niente di strano che a nessuno sia venuto in mente di ristamparlo.

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Little Whirled Records - 1995

 

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SCOTT STAPP "The Space Between the Shadows"

Il nuovo album dell’ex Creed è, nell’ambito del modern melodic, un prodotto eccellente, con tutti i pregi e i difetti del genere. I suoni gelidi di tastiere, l’atmosfera che se non è funebre, risulta quasi sempre grave e seriosa. Da quando il grunge e i Metallica del Black Album hanno stabilito che l’unica chiave in cui doveva venire interpretato l’hard rock era quella della pesantezza mortifera, pochissimi hanno sfidato il decreto, e i Creed non erano certo fra quelli, tutt’altro. I riferimenti, dunque, vanno verso la band madre, ma si possono fare altri nomi di act moderni (gli inevitabili Alter Bridge, e poi: Sixx A.M., Halestorm, Shinedown), il tutto elaborato in una chiave decisamente melodica, con le chitarre che a volte lasciano il posto d’onore alle tastiere. Non è precisamente AOR, ma piuttosto hard melodico fatto secondo gli stilemi del rock moderno, e di ottima fattura.

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Napalm - 2019

 

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BAD BLOOD "Bad Blood"

Prendete la miglior California metallica dei Big 80s, passatela al setaccio dell’hard rock moderno e avrete quanto i Bad Blood ci propongono in questo album omonimo. Esemplari delle capacità della band americana di fondere vecchio e nuovo sono “Light ‘Em Up” e “We Are L.A.”, nella prima occhieggiano i Ratt, nella seconda i Love/Hate, riletti però secondo la lezione dei Nickelback. Ai riffoni heavy metal di “Own the Night” si contrappone un refrain genuinamente anthemico, e un anthem pure risulta “Reason to Live”, che guarda senza timori reverenziali in direzione Aerosmith, mentre “Rise up (Bring It On)” è fatta di percussione EDM, groove ed un ritmo trascinante. La perla si intitola “Anything Is Possible”, hard ‘n’roll che trapianta Jetboy e Faster Pussycat nel terreno del rock moderno con bella fluidità e senza rinunciare al cantato glam. Se il melodic metal nato nella Città degli Angeli ha un futuro, passa sicuramente da questa parti.

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Autoproduzione - 2019

 

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SHAYNE MALONE "The Crossroad"

Shayne Malone: chi è costui? Del soggetto in questione non so dirvi molto, salvo che è arrivato al terzo album e deve nutrire una passione viscerale per i Def Leppard. L’universo sonoro della band di Sheffield viene però da lui virato su tonalità fra il cupo, il malinconico o il serioso, solo poche schegge dell’album sfuggono a queste atmosfere: “Every Little Thing”, “It’s Gonna Be Alright”, “Victim of the Night” (metallica e dinamica, forse il meglio), l’hard’n’roll “Good Time” (che ha il sapore dei Leppard selvatici degli inizi). La title track è un calderone di atmosfere e citazioni (Def Leppard, per la maggior parte) che dura oltre dodici minuti, ma si fa ascoltare e non annoia. Nel caso la band di ‘Pyromania’ sia in cima alle vostre preferenze, dedicare un po’ d’attenzione a Mr. Malone potrebbe rivelarsi una buona idea.

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860508 Records - 2019

 

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UNRULY CHILD "Big Blue World"

È veramente difficile trovare qualcosa di nuovo da aggiungere su questa band superlativa. Forse potrei compattare la recensione del nuovo album in un semplice consiglio: compratelo e basta… Il songwriting non fa una grinza e si mantiene, dopo tanti anni e tanti album, sempre fresco e brillante, meno elettrico e d’impatto rispetto allo storico esordio o a ‘Tormented’ (che, pur intestato alla sola Marcie Free, era a tutti gli effetti il loro secondo album), accentuando le sfumature prog ma rimenendo sempre ben saldo nei territori del rock melodico. “Down And Dirty” è un arena rock da favola, “All Over The World” alterna chitarre secche e sfrigolanti, scoppi di melodia e un refrain suadente, “Dirty Little Girl” coniuga ancora l’arena rock alla loro maniera, raffinato e un po’ cerebrale ma sempre coinvolgente, “The Harder They Will Fall” risulta dinamica, agile e potente, “The Hard Way” è bella tosta fra i consueti chiaroscuri, i flash di tastiere e il bridge d’atmosfera.

Big Blue World’ è già uno degli album dell’anno.

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Frontiers - 2019

 

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EYE "It Might Rain"

Curioso, questo unico album degli Eye, band americana con una evidente predilezione per le alchimie sonore degli Styx, alternando cose buone ad altre orribili: registrazione che varia dal professionale al dilettantesco, songwriting oscillante fra il discreto e l’insignificante. Su “The Hero Is Dead”, i cori terribilmente scarichi e fiacchi gli fanno fare la figura degli Styx dei poveri, “Under The Weather” ostenta chitarre dalle timbriche orripilanti, cori mezzo stonati e una batteria elettronica, “I'm After You” è un pop rock smorto e neppure ben inciso. Risalgono la china con  “Baby-Lady” (sempre Styx, in bilico tra i ’70 e gli ’80), “Nuclear Affair” (pomp bello sodo), “Right Time, Right Place” (ottimo hard melodico) e quel divertente pomp’n’roll (non saprei come altro definirlo) intitolato “Reddi Freddi”. Comunque, prodotto indispensabile solo per completisti dei Big 80s.

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Eternal Youth Enterprises - 1989

 

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ELECTRIC RADIO KINGS "Purr"

Chissà quante volte vi sarà capitato di leggere in una recensione che un certo disco è “onesto”. Cosa precisamente si voglia intendere tirando in ballo l'aggettivo, non ne sono del tutto sicuro, eppure mi sembra che si adatti benissimo a questo ‘Purrr’. Che non è un capo d’opera, ma neanche una ciofeca. Nove canzoni quasi tutte piacevoli, certo non destinate a sconvolgere il mondo o a durare nei secoli, ma che si fanno ascoltare. Il meglio? “Black Cherry Blossom”, ariosa, melodica, con bei chiaroscuri e un’atmosfera alla Bon Jovi post ‘New Jersey’; l’hard rock metallico, selvatico, californiano in senso street di “Downshifter”, con qualche riferimento agli Whitesnake era ‘Good To Be Bad’ o ai Burning Rain; il clima drammatico e i tocchi moderni di “Back to Black”. Il peggio, invece? Senza dubbio “Sympathy for Me”, inutilmente rumorosa e afflitta da un cantato a volte stonato: solo un’increspatura nel tessuto per il resto ben imbastito di ‘Purrr’.

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Grand Vision Records - 2019

 

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MURDERER'S ROW "Murderer's Row"

Fulgido esempio di album inutile quest’unico parto dei Murderer’s Row. La line up prometteva scintille, potendo contare su David Glen Eisley, Bob Kulick, Jimmy Waldo, Chuck Wright e Jay Schellen, ma il prodotto finale diceva veramente poco, un heavy rock spesso cavernoso e metallico, dominato dalla chitarra di Kulick (Jimmy Waldo fa atto di presenza e poco più). C’è un buon campionario di riff ma il songwriting fa acqua e le atmosfere tendono al plumbeo. Il meglio sta in “Hangman’s Moon” (zeppeliniana senza raffinatezze) e in “Suicide Saloon” (atmosfere alla Dirty White Boy e una bella armonica western): niente, comunque, che possa sottrarre ‘Murderer’s Row’ ad un meritato oblio.

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Milestone - 1996

 

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D'ERCOLE "The Ballad of C.L."

La band guidata dai fratelli D’Ercole e Phil Vincent è arrivata al sesto album fra – mi pare – l’indifferenza generale, ma continua imperterrita lungo la sua strada fatta di metallurgia pesante anni ’80 ispirata in prevalenza a Firehouse, Dokken, XYZ, Keel, con il meglio in “On My Way”, sospesa tra le atmosfere della band di Bill Laverty e i Kiss. C’è qualche diversione che prende la forma di un violento melodic thrash (“Fighting”), un power metal trito e inutile (“It’s All Over Now”), un buon esercizio di street metal (la title track). Se in “Dark Haired Lady” suonano come dei Van Halen swinganti e un po’ stonati (ma comunque divertenti), “Time & Time Again - The Way You Treated Me” sono due canzoni inspiegabilmente appiccicate l’una all’altra: una noiosa ballad vagamente Beatles che dopo quattro minuti diventa un feroce hard rock molto AC/DC. In definitiva: nulla di trascendentale, ma se il metal americano dei Big 80s è il vostro pane, una chance a ‘The Ballad of C.L.’ potreste anche darla.

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Pvm Records - 2019

 

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DREAM COMPANY "The Wildest Season"

I Dream Company fanno il loro esordio con un album che cerca di unire passato e presente del rock melodico, spalmando un certo flavour scandinavo su canzoni che richiamano di volta in volta Bon Jovi, Unruly Child, Dokken, Journey. Buona la power ballad “River of Love” e i toni nello stesso tempo cupi e anthemici un po’ H.E.A.T di “Revolution”, ma per ora la band si muove più che altro sul terreno della celebrazione, con tutti i limiti che questa strategia comporta.

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Tanzan Music - 2019

 

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STATION "Stained Glass"

Gli Station non sono più quelli del secondo album omonimo (per saperne di più, seguite il link). Già con ‘More Than The Moon’ avevano fatto un discreto passo avanti verso altre sonorità e con questo ‘Stained Glass’ la trasformazione è praticamente completa. La sola “A Matter Of Time” ricorda il passato (un arena rock un po’ Def Leppard, efficace ma troppo lungo), il resto si rifà all’hard melodico raffinato di fine anni ’80 come praticato da Beggars & Thieves, Unruly Child e 21 Guns. L’album si snoda tra pezzi elettrici e ballad per acustiche e keys con grande scioltezza e se il songwriting non raggiunge i livelli delle band ispiratrici è comunque di buona fattura. Consigliato!

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Station Music - 2019

 

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STREETHEART "Dancing With Danger"

Gli Streetheart in genere vengono ricordati solo per essere stati la band di Matt Frenette e Paul Dean prima di approdare ai Loverboy, eppure sono stati una delle migliori band dell’hard melodico canuck. Il meglio, per i palati AOR, sta nel loro ultimo album, ‘Dancing with Danger’ (prodotto da Spencer Proffer e registrato a Los Angeles), uscito nel 1983, un perfetto esempio di melodic rock primi anni ’80: i ritmi robotici delle tastiere suonati con il sequencer e spesso apertamente danzerecci alla stessa stregua dei Loverboy, i riff secchi, qualche sparso detrito dei ’70, le melodie imparentate con quelle dei già citati Loverboy, i Journey o Aldo Nova, un songwriting di prima classe. ‘Dancing…’ è stato ristampato dalla Rock Candy nel 2012.

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Boardwalk Records - 1983

 

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TIGHT FIT "The Fine Line"

Pubblicato dalla defunta Long Island nel 1996, questa solitario album degli americani Tight Fit era un disco a corrente alternata, offrendo cose buone o addirittura molto buone ed altre decisamente insipide. Fra quelle sciape, possiamo mettere “When I Look Into Your Eyes”, ballad levigata e tutta keys, banale fin dal titolo, l’esercizio di Bryan Adams sound “Those Were The Days”, gli Autograph in salsa Journey di “Where You Wanna Be” (troppo lunga). Ottima, invece, la drammatica “On My Own”, il clima anthemico della galoppante “Heat Of The Night”, la power ballad maschia e molto Survivor “Run For My Life”, l’hard melodico dinamico e raffinato di “Too Young To Die”, il connubio Autograph/Baton Rouge della divertente “Tell It To My Soul”. Una ristampa che lo cavasse fuori dall’oblio non sarebbe una cattiva idea.

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Long Island Records- 1996

 

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EVEREST "One Step Away"

Fu solo nel 1996 che il secondo album degli Everest – inciso nel 1985 – vide la luce, grazie alla mai abbastanza lodata Long Island. La brava singer Andrea Duncan cantava una sola canzone, la notevole “Runnin’ On” (drammatica e molto Surgin’), mentre il bassista Ric McDonald stava dietro il microfono nelle altre nove, mixate (come per l’esordio) da Alex Lifeson. Se la title track ricalcava (ma non in maniera esagerata) i Journey di “Separate Ways”, “I’ll Never Let You Go” virava negli spazi dell’atmospheric power con il plus di un bel refrain pop, “Hold Me” era puro AOR dei mid 80s tra le keys d’atmosfera e il riff robotico, “Will Your Love Last Forever” e "We’re All in This Together” ballad pomp, la prima solenne, la seconda luminosa e in crescendo. “Fugitive” confinava la chitarra di Don Gaze al refrain, “Stand Up” suonava come dei Journey più hard, “Coming Back for More” era quasi una ballad, magari un po’ Foreigner, “How Does It Feel” una cover dei Toto (da ‘Isolation’). Una ristampa sarebbe doverosa.

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Long Island Records- 1996

 

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LITTLE SISTER "Along The Way"

Uscì nel 1993 questo disco (il terzo) del duo vocale formato dalle sorelle Jenny e Debbi Lonmon. La poca rinomanza (lo ignora anche Heavyharmonies) si può spiegare con il fatto che le sorelle erano sudafricane e anche la label che pubblicò l’album era basata nell’estremo sud del continente nero. Prodotto da Mike Flicker e Dennis East degli Stingray, ‘Along The Way’ dava il suo meglio nei toni suadenti ed elettrici di “When The Sun Goes Down”, nelle suggestioni Headpins con il plus di un coro arena rock di “Whenever I Need Somebody” e “The Wrong Way Round”, nelle atmosfere Heart primi ’80 di “Never Say Never”. Il resto era meno incisivo, a volte troppo anonimo e/o scontato. Insomma, ‘Along The Way’ resta un titolo minore: non superfluo, ma neppure indispensabile.

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Gallo - 1993