recension
Quest’unica testimonianza discografica dei Sing Sing potrebbe essere stato il miglior album di quell’anno di pochissima grazia che fu il 1994. Era un grande album, in assoluto, e se non ha avuto la fama postuma che gli spettava, si deve al fatto che uscì per una microscopica label indipendente e nel periodo più nero per il rock melodico, la metà degli anni ‘90 (non che questi che viviamo oggi siano tempi dorati, beninteso). Da dove erano saltati fuori questi quattro yankees così talentuosi, e perché se ne fossero rimasti nascosti per tanto tempo, uscendo allo scoperto a tempo largamente scaduto, non lo so e non sono riuscito a scoprirlo. Tutti svaniti immediatamente nella nebbia, salvo il batterista Aaron Mumma, rifattosi vivo sotto il monicker Motherlode nel 1996 e poi sparito anche lui. ‘Sing Sing’ era un album fresco, vario, in cui la band metteva una notevole personalità, dimostrava cioè di essere in grado di lavorare in autonomia sugli stilemi del rock melodico, non nello spirito originale di gente come Warp Drive o Jay Aaron, ma esercitandosi su quelle atmosfere ormai canonizzate senza far ricorso al più sfacciato dei copia & incolla. Per la verità, è proprio un copia & incolla che caratterizza la track d’apertura, “Wheels in Motion”, una bella canzone che però ha il refrain prelevato quasi nota per nota dalla “Blonde Ambition” dei Tattoo Rodeo, l’unico vero prelievo forzato in un lavoro per il resto ispiratissimo. Prendiamo il secondo brano in scaletta, “Can You Move Me”: una canzone solare, basata su una chitarra pulsante, con un refrain suadente e suggestivo, che fa pensare quasi a degli Autograph in versione west coast… se non fosse che si tratta in realtà di una sorta di figlia illegittima o di versione alternativa della celeberrima “Gimme Some Lovin’”. Non stiamo parlando di una ignobile coverizzazione sotto falso nome (questa potete ascoltarla, tanto per fare un solo esempio, sull’album omonimo di Ken Tamplin del ‘93, sotto il titolo “Get Out of My Sun”) ma di una riscrittura fatta secondo le linee del rock melodico, tanto abile quanto sensibile. Si prosegue alla grande con “What My Body Needs”, anthem di gran classe che si dipana tra riffoni zeppeliniani e armonie vocali decisamente alla Nigh Ranger, la power ballad molto Bon Jovi “1000 Times a Day” ed un’eccellente scheggia di metal californiano, “Hard to Please”, con riffing Ratteggiante dentro cui scivolano sapienti tocchi di keys. Bella anche “Don’t Wanna Lose Her”, drammatica e fascinosa con la sua chitarra dondolante e gli umori un po’ alla Hurricane, divertente “Little Boys”, veloce e metallica alla Kix, di altissimo livello “I’m in Trouble”, sorta di arena rock notturno, suadente e un po’ misterioso, di grande atmosfera. “Longevity” è retta da un riff prima singhiozzante poi martellante con ficcanti interventi di tastiere e vocals molto Danger Danger, mentre il riffing di “It’s Too Late” è vorticoso e geometrico (alla Mike Slamer), con il basso in grande evidenza e linee vocali scanzonate per un altro arena rock raffinato. “Out of the Blue” si rivela invece un class metal camaleontico, un bel patchwork di riff e atmosfere che la band gestisce con stratosferica disinvoltura, “I’m Coming Home” si dipana ancora tra i Night Ranger ed il miglior FM rock con la sua grande estensione melodica, “Don’t Control Me” chiude l’album sulla stessa scia di “I’m in Trouble”: un pulsante riff zeppeliniano, un vago flavour Danger Danger nei raffinati impasti vocali per un risultato finale sempre tremendamente efficace. Mai ristampato, questo album, e si vede dalle quotazioni a cui gira su eBay: sessanta dollari e passa. Una riedizione sarebbe senza dubbio opportuna.
Perché quest’album di Robin Trower figura in AORARCHIVIA invece che nell’HARD BLUES DEPARTEMENT? Perché ‘In the line of fire’ appartiene al periodo AOR di Robin. Ebbene sì: perfino Robin Trower ebbe il suo bravo (e breve) periodo AOR. Dopo gli anni bui seguiti al licenziamento dalla Chrisalis a seguito delle scarse vendite di ‘Back it up’, durante i quali Robin si ritrovò confinato al mercato indipendente, l’Atlantic gli diede fiducia permettendogli di incidere il valido ‘Take what you want’, ma imponendogli (suppongo) precise disposizioni in materia di direzione musicale. Così, Robin si ritrovò a cercare di cavalcare il mercato dell’hard rock più patinato da top ten di Billboard, e la reazione della critica potete immaginarla: l’ex Procol Harum, il figlioccio bianco di Hendrix alle prese con il rock melodico… Orrore! Disgusto! Scandalo! Oddio, se consideriamo tutto quanto Robin Trower fece dopo questo piccolo lotto di album, si può immaginare che nell’AOR avesse messo la testa ma non proprio il cuore. Contrariamente a quanto avvenne con un altro notevole guitar player approdato al nostro genere per motivi finanziari, Tony MacAlpine (per saperne di più seguite il link), Robin riuscì a trasfondere la sua immensa classe nell’hard melodico senza apparire troppo distaccato o accademico, lavorando in maniera eccellente anche sulle canzoni fornite da songwriters esterni. Apriva l’album “Sea of Love”, caratterizzata da un incantevole intreccio di arpeggi chitarra/basso, canzone d’atmosfera ma nello stesso tempo sinuosa e sexy, quasi come dei Bad Company (quelli classici) in versione AOR, mentre su “Under the Gun” occhieggiavano John Parr e Tommy Shaw per un rock dal big sound fatto di atmospheric power ed elettricità. “Turn Up the Volume” era un anthem diretto e cromato, ma “Natural Fact” arretrava bruscamente fino agli anni ‘70 (anche le timbriche delle chitarre erano più rudi e sporche) pur con decise sfumature anni ‘80 nelle linee melodiche (un po’ Great White, magari). “If You Really Want to Find Love” era messa a punto con la stessa ricetta di “Sea of Love” ma in chiave di ballad e con qualche sfumatura anni ‘70 in più, “Ev’ry Body’s Watching You Now” esplodeva invece a ritmo di boogie, metallica e molto ZZ Top, di nuovo con qualcosa di Tommy Shaw negli impasti vocali (dimenticavo: alla voce c’era il bravo Davey Pattison). “Isn’t It Time” l’avevano fatta anche i Babys sul loro primo album, un delizioso melange di atmosfere che partono dai ‘60 per arrivare all’arena rock ed un refrain ricalcato su quello della sempiterna “You Keep Me Hanging On”, mentre “(I Would) Still Be Here for You” risultava un’eccellente esercitazione sul tema dello slow blues, drappeggiata di tastiere. “All That I Want” era una ballad fascinosa, con un refrain semplicemente straordinario, “(Let’s) Turn This Fight into a Brawl” un funky blues notturno, ottantiano fino al midollo, "Climb Above the Rooftops" chiudeva con uno di quegli hard bluesy da film western alla Bad Company, cromatissimo e arricchito da un assolo fantasmagorico. Ricordato che della produzione si occupava Eddie Kramer, non c’è altro da aggiungere, salvo consigliare caldamente l’ascolto di ‘In the line of fire’ a tutti gli amanti dell’hard melodico di stretta osservanza americana che non avevano mai pensato di associare al nostro genere quel nome da sempre legato a doppio filo all’hard rock più bluesy.
E ridalli con le guerriere discinte… Stavolta ce n’è solo una, sempre seminuda e ben in carne. Vista piacevole, non si discute, ma è diventato un leit motive, dura da tre album questo tema iconografico… Tema che, come ho già scritto riguardo la cover di ‘Heresy and creed’ poco rappresenta la band di Gary Hughes, tornata in un’inedita formazione a sei, con ben due chitarre soliste ad affiancare la ritmica di John Halliwell. Svolta heavy metal? No, solo l’esigenza (secondo Gary) di avere un suono live più corposo. Venendo ai contenuti di ‘Albion’, diciamo subito che non c’è qui assolutamente nulla di nuovo rispetto a ‘Heresy and creed’ e ‘Stormwarning’, ma è notevole che appena un anno dopo l’ultimo album Gary riesca a presentare un lotto di canzoni tanto efficaci (con qualche eccezione che andremo a precisare). Inizio classico con “Alone In The Dark Tonight”, solenne ed enfatica, barocca nelle strofe ma con un ritornello deliziosamente leggero, “Battlefield” e “It's Alive” proseguono sulla stessa rotta, ma in versione più melodica, mentre “Albion Born”è la solita piece guerriera, un inno eroico molto Magnum intriso di suggestioni celtiche. Per fortuna (per me, almeno, che non apprezzo particolarmente i sentieri epicheggianti che Gary insiste a battere dai tempi di ‘Spellbound’) con “Sometimes Love Takes The Long Way Home” arriva una bella power ballad in crescendo, efficace e suggestiva. “A Smuggler's Tale” suona quasi come una versione alternativa di “Ten Fathoms Deep” (da ‘The Robe’), ma con un arrangiamento più sofisticato ed un refrain melodico e pop, “Die For Me” è un’eccellente esercitazione sul sound dei Little Angels (da qualche anno, felicissimo chiodo fisso di Gary… come poi l’interesse per la band di Toby Jepson possa sposarsi senza attriti con i canti guerrieri stile “Albion Born”, proprio non riesco a capirlo), “It Ends This Day” è una bella track policroma, fra il riffing a tratti moderno, i versi drammatici ed un refrain quasi pop. E siamo arrivati a “Gioco d’Amore”… L’efficacia di questa ballatona pianistica, romantica e pomposa, varia a seconda della lingua madre dell’ascoltatore: difatti, Gary ha deciso di cantare il ritornello in italiano, ma non ha creduto di dover chiedere delucidazioni ad un nostro connazionale sulla pronuncia corretta delle parole, finendo per sbagliarla sistematicamente, ed ormai è troppo tardi per informarlo che “fragili” non si pronuncia con l’accento sulla prima “i”, in “cadiamo” l’accento non va sulla prima “a”, né fargli notare che in “viviamo” l’accento non si mette sulla “o”. L’effetto globale è ovviamente esilarante per chiunque parli la lingua di Dante, ma per tutti gli altri quei versi resteranno solo uno strano biasciamento bleso che scivola via fra le note della canzone. Chiude l’album “Wild Horses”, per me la migliore scheggia di ‘Albion’, con le strofe che si avvolgono attorno ad una frase maliziosa e notturna di pianoforte ed un refrain scanzonato e molto Little Angels. In definitiva, salvo per quel ritorno di fiamma del sound epicheggiante (non ce n’era traccia su ‘Heresy and creed’, al punto da farmi sospettare – e sperare – che Gary l’avesse accantonato in via definitiva) e le infelici scelte linguistiche in “Gioco d’Amore”, questo ultimo lavoro regge bene il confronto con quanto pubblicato di recente, e conferma il buono stato di forma di una band che qualche anno fa potevamo invece dare per tecnicamente morta.
È difficile isolare un album “rappresentativo” nella produzione degli Haywire. Perché questa band canadese ha cominciato la sua breve avventura discografica con l’AOR, approdando piano piano all’hard rock. Scelgo ‘Nuthouse’ perché è semplicemente il mio preferito fra i loro quattro album, forse quello più equilibrato fra energia rock e la pulizia AOR simil-Loverboy delle origini. ‘Nuthouse’ era il terzo album, uscito nel ’90, i capitoli precedenti risalivano al 1986 ed al 1987 e, come detto, spostava definitivamente l’asse del sound verso un hard rock cromato ma impetuoso. Stranamente, per registrarlo la band si spostò in Norvegia (!), dove lavorarono col produttore locale Bjorn Nessjo, del cui operato non furono comunque del tutto soddisfatti considerato che, rientrati in Canada, decisero di rimixarsi l’album in proprio. L’hard’n’roll festaiolo ed un po’ Aerosmith che apre l’album, “Operator Central”, è una palese dichiarazione d’intenti, lubrificato dagli ottoni e con un’armonica ubriaca a chiudere. “Short End of a Wishbone” e “Getting’ the Groove” sono dotate invece di un certo flavour Van Halen (i riffoni zompettanti, gli assoli di chitarra spettacolari), ma laccate e cromate a gran lustro da una produzione calda che autorizza paragoni pure con i Tattoo Rodeo del primo album. Eccellente anche “Livin’ it Up”, scheggia anthemica che mescola con disinvoltura tappeti di keys da arena rock, riff tozzi e vocals scanzonate. “Wild Wild” procede a tempo di boogie come i ZZ Top più metallici, ma con un ritornello molto Bon Jovi, e la band di Richie Sambora viene richiamata in causa su “Strange One”, proiettata qui su un rovente tappeto di riff anni ’70, e nelle armonie elettroacustiche in crescendo di “Tremble in Line”. Atmosfera e potenza dominano “She Drives”, con il suo big sound ruvido in cui si incunea un refrain molto Loverboy, ma anche “Well Oiled Machine”, sinuosa e divertente, e “Push ‘n Shove (That’s the Way)” rimandano alla band di ‘Wildside’, melodiche ma sempre molto elettriche. In chiusura, “Taken the Pain”, squisita power ballad che si dipana fra archi, pianoforte e chitarre imponenti. Le premesse perché ‘Nuthouse’ avesse un buon riscontro sulle charts c’erano tutte, e in effetti l’album fece il platino in Canada, ma il contratto di ferro stipulato con la Attic tagliò le gambe alla band nel mercato che contava davvero, gli USA: l’interessamento prima dell’agenzia di Doc McGee (la più potente d’America, considerato che rappresentava gente come Bon Jovi e Mötley Crüe) e poi della Chrysalis venne meno quando la Attic sparò cifre folli per la cessione dei diritti sul materiale degli Haywire fuori dal Canada. Dopo aver dato alle stampe ‘Get Off’, nel ’92, delusi e sfiduciati dal comportamento predatorio della Attic decisero di rompere quel contratto capestro, ma a prezzo di uno scioglimento che ci ha privati di una band davvero strepitosa.
È strano che di questa band non si sappia assolutamente niente, considerato che ha una discografia di tre album, e molto distanziati nel tempo (1988, 1995, 2001). Ma forse sarebbe strano il contrario, che dei Tradia sapessimo vita, miracoli e causa del decesso. Solo una delle innumerevoli band AOR dei Big 80s, un puntolino sperduto in quello sconfinato orizzonte, per giunta al servizio di una label indipendente… Tralasciando gli album numero due e tre (il numero tre era una raccolta di demo, se non vado errato), concentriamo l’attenzione sull’esordio ‘Trade Winds’. Se il songwriting non pecca di originalità è però ben risolto a livello di arrangiamenti (ottimamente variati e in buon equilibrio tra chitarre e tastiere); la qualità audio è buona senza essere superba, ma il mix in certi momenti ha un suono un po’ balordo a causa del risalto esagerato dato alla batteria (non è frastornante, solo spostato troppo avanti, dà la sensazione che il batterista stia suonando proprio davanti a voi mentre il resto della band si esibisce a venti metri di distanza…). Venendo ai contenuti di ‘Trade Winds’, possiamo verificare che i Journey sono la fonte primaria di ispirazione dei Tradia in “Sweet Sixteen” (dove il suono della band di Neal Schon si sposa in maniera eccellente a quello dei Survivor), “Never Gonna Go” (con, a tratti, una lieve enfasi pomp da arena rock), “Without You”, “Look Away”. Un bridge pomp caratterizza “Let’s Not Turn Love Away”, impetuosa, galoppante e drammatica, ma anche “No Pain, No Gain” risulta molto decisa, con una certa enfasi metallica e qualche tentazione prog. Cambia del tutto registro “Stand Your Ground”, danzereccia, con un cantato quasi rap (il rap degli anni ‘80, meno selvatico e violento di oggi); “Don’t Play Your Ace” è un classico pop rock, diretto e un po’ John Waite come “Take The Chance” (che al principio richiama però i Legs Diamond). Anche “You’ve Got Me Crying” si mantiene perfettamente nell’ortodossia dell’AOR ottantiano e a chiudere c’è la bella power ballad “Exiles”. Ristampato almeno una volta, ‘Trade Winds’ è reperibile (generalmente) a prezzo onesto tra eBay ed Amazon (una quindicina di dollari). Non un capolavoro di quelli da esporre su un piedistallo, ma un posticino nella discoteca di qualunque aficionado dell’AOR anni ‘80 senza dubbio lo merita.
Un ritorno inatteso, a dir poco. I China Sky sono una band da conoscitori dell’AOR nordamericano dei Big 80s, uno di quei moniker da tirare fuori con aria sussiegosa per stupire i novellini con il proprio livello di cultura musicale. Li pensavamo non solo definitivamente archiviati, ma anche finiti nell’oblio delle lost gems. Invece, pare che l’interesse del popolo dell’AOR per la band sia stato tanto alto da spingere un paio di superstiti della line up originale a tornare ad incidere con i vecchio moniker. Ma tutto questo interesse è poi davvero giustificato? Il primo album omonimo della band era effettivamente una impeccabile operina d’arte del genere AOR hard edged a cui si poteva rimproverare solo una certa mancanza di personalità, dato che il songwriting, pur efficace, rimaneva strettamente nei limiti dell’ortodossia melodica di fine anni ’80, con costanti riferimenti a Night Ranger, Autograph, B. Adams, Journey, Surgin’, anche se la eccellente produzione di Karl Richardson (Bee Gees) e Frank Wildhorn (anche principale responsabile del songwriting assieme ad un ancora poco noto Bob Marlette) riusciva ad amalgamare tutti questi spunti eterogenei in un sound organico, senza “stacchi” stilistici troppo evidenti fra una canzone e l’altra. Buone critiche ed un discreto airplay sembravano in grado di far spiccare la band tra l’agguerritissima concorrenza, ma per motivi mai chiariti i China Sky si sciolsero appena un mese e mezzo dopo l’uscita di quello che pareva destinato a rimanere la loro unica testimonianza discografica. Dopo più di un quarto di secolo, questo ‘II’ fa (ovviamente?) a meno di produttori e songwriters esterni alla band e allora non c’è troppo da meravigliarsi se i punti di contatto con l’esordio sono ridotti ai minimi termini. L’inizio non è dei migliori: “One Life” si rivela un hard melodico insignificante ma il livello sale prontamente grazie al suggestivo crescendo di “The Road Not Taken”, e anche “You’re Not The One” risulta gradevole, Journey con buon gusto, segnata da un bell’impasto chitarre/tastiere. “I Believe In You” torna all’opaco, un altro hard melodico scontato e troppo elementare, ma “I Wish I Could Fly” è di tutt’altra pasta: comincia acustica, in un bel clima drammatico, poi esplode elettrica alla maniera di Bryan Adams. “Enemy” torna in territorio Journey, pollice verso per “I’m a Survivor”, metallica e potente, ma qui il cantante arranca e melodia e riff sono davvero banali. Carina “The Richest Man In The World”, classica ballad westcoast che precede “You’ll Get Yours”, melodic rock cadenzato che ricorda vagamente gli Headpins. “The Darkness” è metallica, californiana, ben riuscita grazie anche agli interventi di keys che vivacizzano l’arrangiamento. Il meglio sta negli ultimi due pezzi in scaletta: “Give It Up” è fatta di bei chiaroscuri, alternando atmosfera a momenti molto elettrici e con belle parti di tastiere; “Dreams I’ll Never See ” fa tanto anni ’70, con la sua scansione ritmica sinuosa, il basso in evidenza, le ombre funky, l’Hammond e la chitarra col wah wah. Insomma, un album a corrente alternata, ma il bilancio è comunque positivo: consigliato.
È singolare che nel campo dell’AOR e del melodic rock in genere, il contributo britannico sia stato nello stesso tempo fondamentale e marginale. Tolti i giganti Def Leppard, imprescindibili pilastri del suono rock melodico, chi c’è, nella vecchia Albione, che abbia inciso in questo settore? Avrebbero potuto farlo, e benissimo, i Little Angels, ma per qualche misterioso motivo sono rimasti un fenomeno nazionale, poco amato e ancora meno conosciuto fuori dalla Gran Bretagna (e anche in patria, non è che abbiano avuto molti proseliti: mi vengono in mente solo i 2 Die 4, peraltro bravissimi). I tentativi di creare un suono AOR britannico da parte di Diamond Head (quelli di ‘Canterbury’, naturalmente) e Notorius non sono stati apprezzati né in patria né fuori (e potremmo mettere nel mazzo anche i Ten, se non fossero arrivati fuori tempo massimo). Dobbiamo rammaricarci di questo disinteresse delle band locali nello sviluppo di un sound AOR autoctono? Chissà. Certo, le band inglesi non avrebbero potuto fare peggio di quelle continentali, e se un british AOR fosse mai esistito forse oggi non ci troveremmo schiacciati fra l’incudine delle band svedesi (che sono passate da melensaggini ABBA inspired a gelidi impasti chitarre/tastiere di una monotonia agghiacciante) ed il martello delle band germaniche (con le loro trombonate metalliche, inevitabilmente rozze e pacchiane). D’altra parte, la mancanza di punti di riferimento locali e di interesse a sviluppare qualcosa di originale c’ha dato tante band che hanno praticato (e molto bene, a volte) il sound più classico, quello codificato dalla scena Nordamericana. Non saprei dire se gli Heartland di questo album d’esordio si possano considerare la miglior band AOR britannica, di certo sono stati quelli che con più convinzione (più dei Virginia Wolf in cui militò in precedenza il singer Chris Ousey, più degli FM, più ancora degli Shy) hanno adottato l’estetica più sofisticata dell’Adult Oriented Rock, in particolare quello di matrice canuck. Ascoltando ‘Heartland’ non si ha certo l’impressione di trovarsi al cospetto di una band inglese, tutt’altro. Quando parte “Teach You to Dream”, con quell’intro soffuso di chitarre cristalline, tastiere e percussioni che sfocia in una divina tranche di atmospheric power, il confronto con i grandi ensemble canadesi (Honeymoon Suite e Glass Tiger in testa) si fa inevitabile (ma l’esplosione d’energia nel refrain è debitrice del miglior Billy Squier). “Carrie Ann” è una power ballad impostata su un gigantesco big sound, mentre chiaroscuri un po’ westcoast percorrono la leggiadra “Don’t Cast Your Shadow” e “Real World” omaggia il fronte yankee dell’AOR con un bel melange Journey/Survivor. “Fight Fire With Fire” a dispetto del titolo bellicoso, è una ballad impostata su una delicata trama acustica, con un crescendo che culmina in un finale corale ed elettrico, invece “That Thing” è notturna, sexy e potente alla maniera dei Giant o di John Parr. Policroma e dinamica si rivela poi la splendida cavalcata intitolata “Walking on Ice”, mentre la power ballad “Paper Heart” torna a guardare all’universo Journey in un trionfo di big sound. Spettacolare e movimentata anche “Paradise”, con il basso in grande evidenza e chiude “Promises”, la scheggia più elettrica, con un ritornello vincente. Proprio i refrain sono l’unico punto debole di un album per il resto delizioso: con l’eccezione di quello di “Promises” risultano sempre poco incisivi, un difetto che si allargherà macroscopicamente quando il posto di Gary Sharpe alla chitarra verrà rilevato da Steve Morris, anche produttore (‘Heartland’ l’avevano prodotto Jimbo Burton e Julian Mendhelson) di album che pur suonati e prodotti in maniera eccellente finivano per essere carenti in ciò che più conta, il songwriting.
Quando, anni fa, scrissi la recensione dell’unico album dei Cold Sweat (il link è a disposizione per chi è arrivato dopo o non ricorda), feci alcune considerazioni non proprio lusinghiere riguardo la produzione discografica dei Keel e la collocazione – un pelo curiosa, a mio parere – di questa band nel firmamento metal californiano. Non mi rimangio nulla di quanto pubblicato a suo tempo, ma ammetto di aver avuto la mano un po’ pesante con Ron e la sua band, che furono nei Big 80s senza dubbio fra i protagonisti della scena metal californiana (mai protagonisti su Billboard, però, considerato che tutti i loro album degli anni d’oro hanno sempre vagolato nella terra di nessuno fra i numeri 50 e 80). Questo album omonimo del 1987 resta per me la loro prova più convincente: meno heavy rispetto ai predecessori, con una maggior continuità nel songwriting (che vedeva coinvolto anche un pezzo grosso come Jack Ponti) e la produzione accurata di Michael Wagener. La canzone d’apertura, “United Nations”, mi è sempre apparsa come la perfetta espressione dei dubbi amletici in cui certe band metal americane si sono rotolate durante gli anni ’80, indecise se rimanere ancorate ad un suono massiccio ed epicheggiante o virare sullo stile melodico californiano: i Keel riescono qui a stare con un piede in entrambe le scarpe, confezionando una canzone cromata e anthemica, in bilico tra class e puro heavy metal: un risultato tecnicamente eccellente, ma che rischia di scontentare entrambe le platee (i fan del class probabilmente troveranno “United Nations” troppo solenne, quelli dell’heavy classico diranno che non lo è abbastanza…). Anche nella successiva “Somebody’s Waiting” la band sembra non essere sicura della direzione da prendere, questa scheggia di class metal suona un po’ cupa, e la bella linea melodica delle strofe sbocca in un refrain stranamente amorfo (“stranamente” perché questa è una delle track firmate da Jack Ponti, che in genere proprio nei refrain hanno la loro forza). Dubbi e incertezze vengono (finalmente) superati con “Cherry Lane”, divertente metal da spiaggia alla Black’n’Blue, e “Calm Before the Storm”, una buona power ballad con ampio spiegamento di tastiere e gradevoli umori FM rock. “King of the Rock”, veloce e serrata, è un bel class metal ruvido e anthemico, “It’s a Jungle Out There” parla la lingua del metal californiano di marca Ratt, come “If Love is a Crime (I Wanna Be Convicted)” e la conclusiva “Fourth of July”, mentre “I Said the Wrong Thing to the Right Girl” e “Don’t Say You Love Me” approcciano l’hard melodico, la prima con qualcosa di Autograph e Bon Jovi. Dopo il successivo ‘Larger Than Live’ (senza più la coppia d’asce Mark Ferrari e Brian Jay, emigrati altrove in cerca di una fortuna che non troveranno), Ron nel 1990 scioglie il gruppo e si dà al country (presentandosi al suo nuovo pubblico come “Ronnie Lee Keel”), riformando la band nel 2008 e registrando nel 2010 quel buon album che fu ‘Streets of Rock N’ Roll’. Dovrebbero essere sempre attivi, per la gioia dei nostalgici dei bei tempi che furono, anche se nella Los Angeles metallica dei Big 80s, i Keel hanno senza dubbio inciso in misura molto minore rispetto ad altri act.
Compendiare la carriera di Tommy Denander è un’impresa, e non mi ci proverò. Dai primi anni ’90 in poi, ha lavorato praticamente con tutti quelli che contano nel campo del rock melodico (per tacere del suo lavoro fuori da esso, e basta fare solo un nome: Michael Jackson). È comprensibile, dunque, che al suo progetto personale, Tommy Denander non possa dedicare molto tempo e gli album dei Radioactive escano una volta ogni morte di papa. Ma, quando finalmente arrivano… Dico subito che mi pare difficile che nell’anno in corso (e magari anche nel prossimo futuro) qualcuno possa fare di meglio e proporre materiale dalla caratura perlomeno pari a quello contenuto in ‘F4ur’. Dietro il microfono, nelle dodici canzoni che compongono l’album, si alternano dieci cantanti (il tredicesimo pezzo è uno strumentale), i contributi al songwriting sono consistenti, la produzione perfetta, il chitarrismo (riff, assoli e timbriche) di Tommy si adatta con una perfezione esemplare al “tono” di ogni singola canzone. ‘F4ur’ non è stato composto e registrato dalla sera alla mattina, è frutto di una decina d’anni di lavoro e dunque non c’è da stupirsi che fra i cantanti ce ne siano due scomparsi da non poco tempo, Fergie Frederiksen e Jimi Jamison. È proprio la canzone interpretata da Jimi che apre l’album, “Summer Rains”, una bella esercitazione sul più classico sound dei Survivor. “Back to the Game” vede Fergie Frederiksen al microfono, ha un riffing nervoso, decisamente prog, su cui si proietta la melodia AOR, ed un refrain di nuovo molto Survivor. Jeff Paris subentra per “Beautiful Lies”, ancora riflessi prog, un tessuto ritmico geometrico che si dipana attorno ad un tipico mid tempo ed un ordito melodico in cui Jeff ha messo certamente del suo. “The Piper” è cantata da Steve Walsh, ha un andamento cadenzato, le strofe sono molto d’atmosfera ma il refrain è più in linea con l’AOR svedese attuale, magniloquente e pomposo ma molto diretto, le pause strumentali fondono mirabilmente prog e AOR. David Roberts canta “Alibis”, che ha un refrain delizioso ed una trama di puro AOR che potrebbe appartenere alla Michael Thompson Band dei tempi d’oro, mentre alla voce di Robin Beck è affidata “When the Silence Gets Too Loud”, intensa ed un po’ Heart. “You'll Find The Fire” è basata su un disegno di keys dondolanti, percorsa da suggestive fiammate elettriche, ha uno sviluppo melodico molto Journey ed un refrain che mi ricorda vagamente i Danger Danger: canzone dalla grande atmosfera, arricchita da un assolo bluesy: forse il top assoluto (dimenticavo: al microfono c’è Jean Beauvoir). Bobby Kimball si incarica di “Heart Come Alive”, un po’ prog un po’ AOR, con un catalogo di riff che va dai Led Zeppelin al rhythm & blues. Jeff Paris torna per “Start All Over”, e anche questo pezzo porta il suo marchio inconfondibile sotto forma di uno di quei refrain impagabili che emerge da un tessuto di big sound alla Giant. Dan Reed canta “If Only My Memory Could Lie”, un classico AOR, ma anche questo con qualcosa del moderno sound melodico scandinavo. A Fergie Frederiksen era stata affidata pure “Just a Man”, AOR hard edged senza nulla di particolare: non una ciofeca, ma in confronto al resto fa quasi la figura di un filler. James Christian sta dietro il microfono di “Give Me Your Loving”, potente e spettacolare in perfetto stile House of Lords (se solo James avesse avuto canzoni come questa per l’ultimo album della sua band…). Chiude “Memoriam”, un minuto e mezzo di strumentale fatto di un assolo lacerante di chitarra su un fondo solenne di tastiere. In definitiva, per chiunque ami l’hard melodico, ‘F4ou’ è un ascolto imprescindibile: uscirà il 17 aprile. |