E meno male che c’è sempre Tommy Denander… Ogni album dei Radioactive è una boccata d’ossigeno fra tutta l’anidride solforosa sonora che quotidianamente ci viene propinata da label stordite e band spudorate, un soffio d’aria fresca che arriva a ben sette anni da ‘F4UR’. Questo ‘X.X.X.’ funziona benissimo come risposta a quell’indecenza intitolata ‘4’ che Slash e soci hanno da poco pubblicato e di cui vi ho da pochissimo riferito: certo non è stato concepito per esserlo, ma può rappresentare un suo negativo concettuale, anche perché stavolta Tommy e soci (la solita filza di cantanti/ospiti) hanno lavorato sul registro dell’hard rock più che su quello dell’AOR. Tanto ‘4’ è approssimativo, orgogliosamente rozzo e ignorante, quanto ‘X.X.X.’ è raffinato nel suo rielaborare la materia rock senza stravolgerla, facendo nello stesso tempo del classico e del nuovo. Rispetto al passato, il grande assente in questo nuovo album sembra il prog: in realtà, l’anima progressive di Tommy Denander fa di continuo capolino attraverso ‘X.X.X.’, spuntando in un lick di chitarra, nei bridge e spesso anche negli assolo. E nel refrain corale della track di apertura “Monkey On Our Backs” (cantata da Jerome Mazza), avvincente con il suo clima anthemico retto da bei riffoni secchi, non c’è una discreta impronta Yes? “The Deed Is Done” vede al microfono Robin Mcauley, con chitarre che si fanno ancora più secche e decisamente AC/DC, ma con un refrain colorato e melodico che profuma di r&b. Con “Remember The Ghosts” (affidata a Robbie Lablanc) cambiamo atmosfera, il riff pulsante e tagliente prelude ad un coro un po’ Triumph, mentre l’AOR raffinato e morbido di “Written In The Scars” (con Christian Ingebrigtsen al microfono) viaggia su equilibrati intrecci chitarre/tastiere ed è impostato su una melodia che fa tanto Foreigner. Jerome Mazza torna per “If Today Was Your Last Day Alive”, che equilibra il clima potente e pomposo dei migliori House of Lords a qualche sfumatura melodica H.E.A.T, mentre a Robin Mcauley è affidata la stupefacente “Move It”: “stupefacente” perché riesce con un’abilità quasi diabolica a fondere due band che se non appaiono antitetiche di certo sembrano non avere proprio niente in comune, e parliamo di ZZ Top e Beggars & Thieves: ascoltare per credere! “Youman Unkind” (qui è Lablanc al microfono) approccia il metal californiano degli ultimi Ratt e dei Van Halen, ma è denso di policromie prog nel bridge e nell’assolo, poi cambio di scena per “I Have A Dream” (canta Jerome Mazza), modern melodic alla Shinedown con chitarre selvatiche e qualche tocco prog nelle strofe. Torna Lablanc per “Voodoo Queen”, che approccia di nuovo l’arena rock alla AC/DC, e se la band di Angus Young fosse ancora capace di scrivere canzoni del genere… Fantastico l’assolo, nello stesso tempo sofisticato, veloce e divertito. “Drag Me Through The Mud” ha la voce di Daniel Byrne, è veloce, potente, adrenalinica, ben lubrificata di melodia e intrecci mirabili di chitarre. Chiude “California Ways”, affidata a Clif Magness: il titolo è trasparente, dato che si tratta di un metal californiano da spiaggia alla Van Halen (era Roth, ma c’è bisogno di specificarlo?), beffardo e divertente, con un canto correttamente sguaiato. Arrangiamenti fantasiosi, a volte imprevedibili, produzione impeccabile, ottima qualità audio: tutto ciò che possiamo aspettarci da un album di Tommy Denander è lì, a ricordare che non tutti coloro che offrono musica rock al giorno d'oggi sono preda di sindrome nostalgica terminale, praticano una rozzezza di principio o (molto semplicemente) sono inetti a comporre musica capace di durare più di un paio di ascolti.
Cosa ne sarebbe stato della carriera di Eric Martin se non fosse arrivato l’arruolamento nei Mr. Big è lecito chiederselo: forse sarebbe sparito nella nebbia come tanti altri e oggi tratteremmo questi due album come le solite lost gem prodotte da uno dei tanti artisti di talento ignorati da un pubblico stordito… Ma perché accusare di stordimento solo il pubblico? A fine ’88, i Toto stavano cercando un nuovo cantante, Steve Lukather si ricordò di Eric (aveva lavorato per lui su ‘Eric Martin’) e lo invitò a fare un provino. Suonò con loro per una settimana ma secondo Mike Porcaro il ragazzo era “too green” per una band importante come i Toto… L’aspetto umoristico della vicenda sta non tanto nella sottovalutazione di un artista che aveva già affrontato diversi tour nazionali ma soprattutto nel fatto che, ritrovandosi senza un cantante, la loro label gli appioppò quello strano animale di Jean-Michel Byron: che si portarono incautamente in tour e provocava tanto imbarazzo nella band e nel pubblico che alla fine venne declassato a corista mentre Lukather si sobbarcò tutte le parti vocali… Tralascio la Eric Martin Band (un solo album nel 1983, ‘Sucker For a Pretty Face’) per puntare subito sui primi dischi solo (pubblicati entrambi su LP e cassette in USA ed Europa, le edizioni in CD vennero molto dopo: per i dettagli vi rimando a Discogs). ‘Eric Martin’ fu un esordio di alta qualità che stranamente riscosse pochi consensi: “stranamente” perché ‘Sucker For a Pretty Face’ aveva sfiorato il disco d’oro negli USA, ed era ragionevole prevedere che un nuovo album del suo principale artefice attirasse l’attenzione del pubblico. Invece, ‘Eric Martin’ fruttò soltanto un singolo di moderato successo, passando per il resto quasi inosservato. Prodotto da Danny Kortchmar e Greg Ladanyi, vedeva Eric affiancato da una quantità di songwriter di vaglia (tra cui Neil Schon e Tony Fanucchi) o impegnato su cover di gran classe. Tra i performer, il già citato Steve Lukather e Randy Jackson al basso. Si comincia benissimo con “Call Of The Wild”, AOR d’atmosfera ma con una bella sferzata d’energia nel refrain, mentre la successiva “Pictures” mostra piacevoli sfumature heartland rock. “Secrets In The Dark” (dovuta alla penna di Chris Thompon) è una notevole scheggia di AOR hard edged, drammatica e un po’ Survivor, “Information” abbassa il voltaggio sviluppandosi come un pop rock dalla forte vena soul, la divertente “She’s Out For Blood” fa molto Loverboy sia nell’arrangiamento (le percussioni sintetiche e le tastiere) che nella melodia, su “Eyes Of The World” tornano gli echi heartland, risonanti (ma solo molto vagamente) nella cover di “Can’t Hold On, Can’t Let Go” (di Michael Bolton, naturalmente). “Finders, Keepers” pure è una cover, la incisero nei primi anni ’70 i funkster Chairmen Of The Board, ma nelle mani di Eric e soci diventa un AOR ritmato e allegro alla Billy Squier, fra gli spruzzi di keys e gli ottoni sintetici che impazzano nel refrain. Anche “Lyin’ In A Bed Of Fire” (di Little Steven) viene riletta con un bel piglio (la diresti un parto del primo John Waite) e in chiusura “Just One Night” parte come una ballad pop con un bel cantato soul, facendosi via via più elettrica e AOR. Se le vendite di ‘Eric Martin’ erano andate male, il tour aveva avuto invece un discreto successo, sufficiente a non compromettere il buon rapporto con la Capitol: però la label decise di dare una sostanziale sterzata pop alla sua musica, puntando non tanto sul mercato dell’AOR ma piuttosto sul pubblico che stava mandando nei top ten di Billboard artisti come Paul Young e Hall & Oates. Stavolta, Eric non poté incidere materiale proprio, gli vennero invece messe a disposizione dieci canzoni scritte da songwriter prestigiosi e la solita pattuglia di abilissimi session men per inciderle (fra cui Mickey Curry, Nathan East, Tim Pierce, Michael Landau, Vinnie Colaiuta), mentre alla produzione arrivò Ritchie Zito (a quell’epoca, più noto come chitarrista, e difatti, oltre a produrre, Ritchie suonò anche molte parti di chitarra sul disco). ‘I’m Only Fooling Myself’ si rivelava comunque un album adatto anche ai palati AOR, anche se non poche track sono arrangiate più in senso pop che rock. E proprio con l’AOR si apriva, tramite “These Are The Good Times” (di Myles Hunter, incisa dai suoi Refugee sul loro primo album, ‘Affairs in Babylon’), e un AOR anche abbastanza vigoroso, che le vocals di Eric portavano nei territori già battuti da John Waite. “If You Believe Me” era un pop rock, pimpante e con un deciso flavour r&b grazie anche agli interventi del sax e della sezione fiati, mentre “Everytime I Think Of You” (più nota nella versione che di lì a un paio d’anni ne daranno gli FM su ‘Tough it Out’) è una notevole power ballad. Bruttina si rivela invece “I Can’t Relax”: non per il fatto che è più pop che rock, ma perché suona frigida e monotona. Più vivace risulta la title track, vagamente danzereccia (la scrisse Dan Hartman), con la sua chitarrina funky e l’assolo di sax, ma con “Confess” torniamo all’AOR: big sound, un bel riffone, tastiere d’atmosfera e la solita impronta melodica heartland. Su “Unfinished Business” l’AOR si veste di r&b: accattivante, forse il top del disco assieme a “Crazy World Like This” (proprio quella di Neil Geraldo, Billy Steingerg e Tom Kelly): drammatica e vigorosa, sta alla pari con la versione proposta da Robin Beck su ‘Trouble or Nothing’. Discreto l’AOR ancheggiante e danzereccio intitolato “This Is Serious”, un po’ funky e a tratti anche un po’ Loverboy. In chiusura, uno si aspetterebbe l’inevitabile ballatona, invece arriva il pezzo da arena rock, “Gonna Make A Lover Out Of You”: la solita chitarra funky, esplosioni di keys, l’assolo tirato anche se breve. In definitiva, un buon album: ma che, come il suo predecessore, su Billboard non incise più di tanto. Entrambi sono in vendita come .mp3 su Amazon Music, anche CD e vinili non mancano. Non indispensabili, ma certo gradevoli anche per chi dei Mr. Big non è un fan sfegatato.
Ecco un’altra band inspiegabilmente dimenticata assieme alla sua prima incarnazione, The Works. Le uniche testimonianze discografiche di Wall Of Silence e The Works furono pubblicate solo nel Nordamerica e in Giappone e mai ristampate in seguito, eccetto per una compilation dei due album (composta da un totale di sedici canzoni) proposta dalla tedesca Long Island nel 1995. Inutile domandarsi perché questi due eccelsi trattati di AOR canadese siano ridotti quasi a delle lost gem mentre tante operine di band minori trovano la via della riedizione (e in genere millantati come capi d’opera, per di più). L’unica certezza sta nel fatto che, se ve li siete persi all’epoca, oggi dovete fare una fatica bestiale per trovarli (e se ci riuscite, l’acquisto farà quasi certamente sanguinare la vostra carta di credito). La storia, come già detto, comincia con un altro moniker, The Works, band composta da Brian Malone al microfono e Jim Huff alle chitarre (entrambi ex membri dei Mannequin), Stuart Zaltz (tastiere), Paul Marangoni (batteria), Klyph Black (basso). L’album si intitola ‘From Out of Nowhere’, è prodotto nientemeno che da Tom Allom, pubblicato dalla filiale canadese della major A&M e meriterebbe una recensione particolareggiata: AOR di eccellente fattura, con un sound di marca più americana che canadese solcato da qualche imprevedibile (e sempre piacevole) digressione verso atmosfere di tutt’altro genere (“Broadway Jane”, in perfetta coerenza con il titolo, sembra strappata ad un musical). Purtroppo, ‘From Out of Nowhere’ non se lo filò nessuno, e non so quanto abbia contato nel fiasco una copertina sciagurata, riempita per un quarto dalla faccia di Stuart Zaltz (virata in verde bottiglia) che sembra stia posando per la foto della patente, mentre sullo sfondo uno Jim Huff minuscolo e in ombra punta la sua chitarra verso l’alto e Brian Malone (tutto illuminato in rosso) occupa l’altro quarto di spazio in una posa equivoca a braccio sollevato e testa piegata come se stesse annusandosi l’ascella sinistra… Il flop non compromise il rapporto con la A&M, ma ritenendosi evidentemente bruciati con il moniker The Works, Brian Malone, Jim Huff e Stuart Zaltz reclutarono una nuova sezione ritmica (formata da Scott Lucas e Tim Harrington) e si ribattezzarono Wall Of Silence. ‘Shock to The System’ lo produsse Mike Slamer, e stavolta per il flop si poteva trovare facilmente una giustificazione nell’anno di uscita, il 1992, quando gli zozzoni di Seattle avevano già monopolizzato l’interesse del pubblico. Gli scarsi riscontri ammazzarono i Wall of Silence già pochi mesi dopo l’uscita dell’album, e stavolta i tre soci ritennero inutile insistere su una strada che pareva nessuno o quasi volesse più battere e si divisero una volta per tutte. Brian Malone diventò un musicista di studio, Jim Huff ha avviato una carriera di successo come produttore, songwriter e autore di colonne sonore per cinema e TV, Stuart Zaltz si aggregò agli Any Day Now (un solo album uscito nel 1999) prima di mettersi a fare anche lui il turnista come Brian Malone, il bassista Tim Harrington lo ritroveremo per qualche tempo negli Honeymoon Suite. Ma ‘Shock to The System’, com’è? È un bel disco? No: è un grande disco. La sua valentia nel songwriting, il terzetto l’aveva già dimostrata ampiamente con ‘From Out of Nowhere’, ma qui il livello sale ancora più in alto, grazie senza dubbio anche alla produzione di Mike Slamer (che oltretutto contribuisce alla stesura di diverse canzoni, assieme a Carl Dixon, Phil Naro e Tom DeLuca). La title track apre alla grande con il suo ritmo nello stesso tempo agile e galoppante, la melodia fresca e il refrain anthemico, “Edge Of A Heartbreak” è d’atmosfera nelle strofe (pur con un bel ritmo ancheggiante) ma diventa un potente arena rock nel refrain. La power ballad “It’s Only Love” comincia morbidamente con voce, pianoforte e tastiere, salendo in un magnifico crescendo. Nella grande estensione melodica di “Last Nite” si sentono i Toto e i Giant, mentre nello splendido impasto elettroacustico e nell’atmosfera di “Blood Is Thicker Than Water” scorgiamo Unruly Child, Beggars & Thieves e 21 Guns. “Addicted” è dinamica e potente, con quel riff magistrale, il ritmo secco, la linea melodica che riporta ancora ai Giant e magari anche ai migliori Winger, mentre “Prove Your Love” ha un passo lento e sensuale fra i grandi riff di chitarra e le ondate di tastiere. “Skin And Bones” si muove a un ritmo indiavolato che miscela i Van Halen con l’r&b e quelle atmosfere da musical già sperimentate sulla citata “Brodway Jane”. Power ballad con un divino crescendo e una emozionante carica di atmospheric power si rivela “Stop The Rain”, che intesse sul medesimo telaio Giant e Unruly Child, e chiude “Nobody’s Hero”, class metal ben lubrificato di melodia. In definitiva, ‘Shock to The System’ si può ben classificare fra i capolavori del nostro genere, uno di quegli album che dovrebbero finire in una top 50 o roba simile dei migliori dischi di rock melodico mai incisi. E non è grottesco che si gridi al miracolo per il disseppellimento dei demo di qualche band sconosciuta mentre questo masterpiece è stato quasi dimenticato?
Oggi che il “fatelo da soli” in campo musicale predomina, la scelta autarchica di questa band di mettere su una label per pubblicarsi da sé i dischi non stupisce più di tanto. Ma quando comparve il primo album degli Airkraft, (‘Let’s Take Off’, era il 1983) la scelta poteva tradursi molto facilmente in un suicidio commerciale se il distributore si rivelava fiacco o malandrino, e tale doveva essere quello che distribuì i loro primi tre album, rari anche negli USA. Nel 1990, per il presente ‘In The Red’, dapprima tentarono la solita carta con la loro label personale (Premiére Records; per i primi due dischi il nome fu Ark Records) poi, folgorati da un lampo di lucidità, si rivolsero ad una casa discografica vera, la Curb, che lo rese disponibile nel 1991 anche fuori dagli States. Purtroppo, la Curb, come ho già più volte sottolineato, non sembrava minimamente interessata alla promozione dei propri artisti del settore AOR, e complice anche l’anno infausto di uscita, ‘In The Red’ passò inosservato. Ristampato da AOR Heaven nel 2012, oggi questo disco passa di mano su eBay (in edizione originale) per cifre molto variabili ma mai assurde (fra gli 8 e i 35 dollari negli USA), che testimoniano una discreta abbondanza di copie sul mercato oppure un disinteresse del popolo dell’AOR che questo disco proprio non si merita. Certo, non è un capolavoro epocale, ma ha i suoi numeri. Comincia bene con “Someday You'll Come Runnin’”, quella incisa dagli FM due anni prima su ‘Tough It Out’: l’interpretazione degli Airkraft segue senza abbastanza fedelmente quella data dalla band di Steve Overland, vigorosa ma anche più leccata. Il singer Dave Saindon era una sorta di Russell Arcara più acuto e squillante ma non è solo in questa somiglianza che stanno le analogie con i Prophet che sento nella dinamica “Heaven" (soprattutto nelle strofe e nel bridge, ma anche nell’assolo di chitarra). “Love Has No Mercy” parte con una chitarrona funky su un bel riff secco, drammatico hard melodico che vive sul magnifico contrasto fra le strofe elettriche e potenti e il refrain da arena rock, con uno spettacolare assolo fra le esplosioni di tastiere. “Somewhere” è una ballad solare, tutta acustiche e tastiere: va avanti senza scossoni, un arrangiamento un po’ più movimentato non avrebbe potuto che giovare. Con l’incalzante “85 M.P.H.” arretriamo fino all’AOR dei primi anni ’80, anche se nella melodia vocale si sente forte l’impronta dei Bon Jovi era ‘Slippery…’. Interessante “Oh No!” per il clima arena rock un po’ sui generis e il bel riff portante, spavaldo e zeppeliniano. Con “Feed Me To The Fire” andiamo in spiaggia a fare festa: Autograph, Black& Blue e Danger Danger sono i numi tutelari di un party rock di buona fattura, e in California restiamo con “Trouble”: riffone secco alla AC/DC, refrain anthemico, i Black& Blue non erano poi così lontani. Buona anche la power ballad “Tonight” (un po’ scura nelle strofe, magari) e ottima la conclusione con “Say Goodbye”, che tira di nuovo in ballo gli Autograph, ariosa e dalla bella cifra melodica. Quel “vi diciamo arrivederci” usato come titolo dell’ultima canzone si rivelò molto ottimistico, dato che degli Airkraft non si sentì più parlare e ‘In The Red’ rappresentò piuttosto un addio. In data sconosciuta, uno dei membri della band pubblicò privatamente una compilation che conteneva una canzone inedita: iniziativa più che mai autarchica, dato che il dischetto ottico era un CD-R e l’artwork era fotocopiato. Anche per l’ultimo atto, in definitiva, gli Airkraft al “fatelo da soli” non vollero rinunciare.
Ecco un’altra band che si presenta a noi giurando e spergiurando di aver resuscitato la musica dei Big 80s, quella che ci è più cara. Ci sono riusciti? Qua e là, diciamo. Timbriche ed effetti sono proprio quelli d’epoca, la registrazione è curata e la produzione è professionale (e tutto questo è davvero rimarchevole dato che stiamo prendendo in esame un’autoproduzione). Ma quello che conta davvero, le canzoni? ‘Runaway’ non comincia bene, almeno dal mio punto di vista, dato che “Dusk Till Dawn” suona come una sorta di condensato del primo album di Mitch Malloy, con il refrain mezzo rubato a “Our Love Will Never Die”. Questo genere di “omaggi” (le virgolette sono d’obbligo) alla musica di una volta non mi piacciono, non mi dicono nulla, non capisco neppure a cosa dovrebbero servire: se mi viene voglia di risentire il primo album di Mitch Malloy, io metto su quello, certo non vado ad ascoltarmi la canzone che i Raider hanno inciso assemblando come in un Bignami parti prese da questa o quella track di quel disco esemplare… “High Speed Woman” è una sorta di class metal melodico, parzialmente sfregiato da un coro fesso e pacchiano. Altra canzone che vive di citazioni è la title track, che prende gli Whitesnake di ‘1987’ e li trasla in un contesto arena rock: qui i Raider sono stati un po’ meno sfacciati e il risultato finale è meno disturbante (per le mie orecchie, almeno). “Come and Get It” torna al class metal con discreta efficacia, mentre “Feel The Night” sembra guardare soprattutto agli Scorpions (ma con qualche nuance H.E.A.T nel refrain). Anche “We Had Tonight” prende spunto dagli H.E.A.T per il coro, mentre nelle strofe recupera atmosfere Whitesnake e veramente buona riesce “Sidewinder”, class metal veloce e swingante alla Van Halen. “Changes” mi ricorda più o meno i Firehouse nei loro momenti più melodici (ma è appesantita da un brutto assolo di synth), “Memories” impasta un Bryan Adams metallizzato con una buona dose di Bon Jovi, “Give It All You Got” chiude ancora nel segno del class metal e delle melodie di matrice Scorpions, ma c’è un capitombolo nella resa fonica, con un suono grigio e impastato. Credo di aver delineato con sufficiente chiarezza l’identità di quest’album, i suoi limiti (notevoli) e i suoi pregi (non del tutto trascurabili): circoscriverne la fruibilità agli appassionati di bocca buona o ai più recenti e poco preparati adepti della fede sembra la conclusione inevitabile a cui questa recensione porterebbe. C’è però il fattore nostalgia, di cui tenere sempre conto quando abbiamo a che fare con musica impostata su temi e stilemi vecchi di quarant’anni. I nostalgici a forza nove, quelli che non badano alla sostanza ma in primis alla forma, da questo album trarranno senza dubbio grandi soddisfazioni. Ma chi cerca qualcosa di consistente in cui affondare i denti, che non si limiti a scatenare ricordi o associazioni mentali con musica di ben altra caratura non troverà poi molto di stimolante nell’opera prima dei Raider.
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