recension
I Two Of A Kind tornano dopo un’assenza di undici anni e non si può dire che di questa band olandese si sentisse atrocemente la mancanza. La sua formula in bilico tra gli anni ’70 e ’80 raramente coglie nel segno e gran parte del materiale presentato sta tra l’insignificante e il tedioso. Nei dettagli: le prime due canzoni (la prima contraddistinta da un’atmosfera solenne ed il riffing intricato, la seconda tutta chitarrone anni ‘70) risultano inutilmente lunghe, “Wheel Of Life” vagola fra i Rainbow e gli Uriah Heep ed è noiosa tout court, “Naked” è una ballad soporifera e scontata ma con la title track tocchiamo il fondo, fra il riffing di una banalità irritante e le linee vocali scopiazzate per metà alla “First Time” di Robin Beck, mentre “Touch the Roof” vorrebbe essere un arena rock su riffone alla AC/DC ma è condotto praticamente a tempo di valzer ed ha un refrain che fa pensare più che altro ad un jingle pubblicitario. Funziona invece “Higher”, dove c’è una bella freschezza melodica e qualche spunto prog, alla ballad “Alienation” avrebbe fatto bene qualche scossone nell’arrangiamento, “It Ain’t Over” suona molto anni ’80 e anche qui fa capolino (timidamente) il prog, “Without You” guarda all’universo degli Heart ma ha al centro un refrain troppo flautato, “Run Girl” chiude con una ballad elettroacustica senza infamia e senza lode. In definitiva: il songwriting fa acqua e la produzione manca di efficacia. Aggiungiamo che le voci delle due cantanti sono anonime, fredde, poco incisive e che il chitarrismo di Gesuino Derosas è uguale a quello di mille altri e la assoluta inutilità di questo ritorno discografico dei Two Of A Kind non avrà bisogno di essere sottolineata ulteriormente.
Rainey Haynes, chi era costei? L’introduzione manzoniana ci porta in uno di quegli album che non sai bene come qualificare. Sono inediti rimasti a prendere polvere in un cassetto? È un lavoro unreleased finalmente edito oppure il materiale è di fresca registrazione? Dio lo sa. Rainey, nel suo sito web, non lo dice e, alla fine, poco importa: conta quel che c’è nel CD, non come e perché ci è entrato. Riguardo la sua autrice, c’è, come detto, un sito web da cui si possono avere i dettagli biografici: la carriera che Rainey ha avuto nel music business appare di bassissimo profilo, ma la sua voce avrebbe meritato miglior fortuna. Cosa ci serve, comunque, ‘Bring on The Fire’? Un’ora di AOR e hard melodico di ottima fattura, variegato e stuzzicante. La backing band conta sui servigi di esecutori di livello: Steve Farris (Mister Mister), Bob Birch (Elton John), Rocket Ritchotte (Stan Bush and Barrage, David Lee Roth, Cher), Kenny Rarrick (Melissa Manchester), Michael Dorian (Terence Trent D’Arby, o comunque si faccia chiamare oggi questo eccentrico individuo). La title track apre l’album con un bell’hard melodico arioso ma molto elettrico, penalizzato purtroppo da un mixaggio balzano della batteria, con la cassa spostata sulla sinistra in maniera irritante (almeno, risulta irritante quando si ascolta in cuffia), “Love Kills” segue ottimamente sulle stesse coordinate, con un sound tipico di fine anni ’80, mentre “Secret Secret” guarda decisamente in direzione Loverboy, un pop rock di alto livello in cui diventano protagoniste le tastiere. Arretriamo fino ai primi anni ’80 con “Young Romans”: sofisticata, molto elettrica nonostante le strofe pop, i ritmi sintetici di keys ed un refrain quasi r&b. La cover di “Feel Like Making Love” è risolta bene in senso AOR, con un canto di Rainey che sale facendosi addirittura viscerale nel refrain (lei ha una voce un po’ alla Tina Turner, ma più acuta e pulita), la power ballad “You Ain’t Leavin’” è classicamente AOR sia nei suoni che nelle melodie, ha (ovviamente) un assolo di sax e qualche reminiscenza Boulevard. “I Want Your Love” è vivace, divertente, danzereccia, “Tell Me”, un hard melodico drammatico dalla grande melodia un po’ soul, e altrettanto magnificamente procede “Woman In a Man’s World” (con accenti più AOR, magari), mentre con “Keep Your Hands Off My Baby” torniano agli albori del decennio o anche un po’ più indietro: ritmica elementare, un riffone di chitarra, tutto molto alla Heart epoca ‘Little Queen’. Ancora Loverboy (e anche un po’ ZZ Top) nei ritmi sintetici di “Red Hot Love”, mentre su “Isn’t It Time” (cover dei Babys) le chitarre spariscono lasciando spazio alle keys per un tipico pop dance dei Big 80s dall’andamento funky: divertente. In chiusura, quella “Old Enough To Rock & Roll” che rappresenta l’unico, piccolo successo mai ottenuto dalla Nostra, canzone che fu inclusa nella colonna sonora del film ‘Aquile d’acciaio’, un altro tipico prodotto musicale del decennio più caro a chi ama l’hard rock melodico: effetti di batteria elettronica e tastiere, un riff serrato, melodia nervosa che si fa più pop nel refrain alla maniera di Heart e Headpins. La qualità audio è sempre buona anche se il fruscio si fa sentire, nulla comunque che possa rovinare il divertimento. Il Cd dovrebbe essere ancora disponibile sul sito di Rainey Haynes, ed è un acquisto caldamente consigliato a chi ama il rock melodico nella sua forma più classica.
Questo primo e unico album dei Blonz potremmo paragonarlo ad una sorta di sandwich: le dieci canzoni che lo compongono si dividono nettamente fra il classico metal californiano e l’hard melodico di matrice Bon Jovi, e la similitudine con la specialità alimentare di cui tradizionalmente si attribuisce l’invenzione al nobile inglese John Montagu (quarto conte di Sandwich), si deve alla scaletta che piazza le quattro canzoni Ratt oriented in coppia ad aprire e chiudere l’album, mentre le altre sei decisamente Bon Jovi inspired stanno fra queste, quasi a guisa di imbottitura… E il panino o tramezzino o come preferite chiamarlo è particolarmente saporito. Prodotto lussuosamente da Steve Walsh e Phil Earth dei Kansas (con un ancora implume Brendan O’Brien come ingegnere), ‘Blonz’ vantava un ottimo songwriting tutto interno alla band salvo per una canzone scritta da Joe Lynn Turner e Tony Bruno, “Hands of Love”, molto Autograph con un refrain un po’ alla Black N’ Blue, seconda in scaletta dopo “Miracles”, melodic metal di scuola Ratt con cui forma la prima fetta del sandwich. Il ripieno, dicevamo, è sempre a base Bon Jovi, ma con aromi differenti strato dopo strato dell’imbottitura: “It’s the Same” e “Trouble Child” hanno un sapore western era ‘New Jersey’, “What’s On Your Mind” è una power ballad ispirata, “One and Only” viaggia su un bel riff zeppeliniano ed ha un ritmo formidabile, “Rainbow” è elettroacustica ed ha un flavour Springsteeniano mentre “Skintight”, serrata e festaiola, ci riporta ai bei tempi di ‘Slippery When Wet’. A chiudere, l’altra doppia fetta di pane californiano, sempre con i Ratt come ingrediente principale: “Sexy Ride”, col suo riffone singhiozzante e l’atmosfera viziosa che fa tanto Love/Hate; “Last Call (for Alcohol)”, anche un po’ Quiet Riot, notturna ma potente. Le quotazioni di ‘Blonz’ tra eBay ed Amazon sono modeste (dai sei dollari fino ad un massimo di quindici) e meno male, dato che non è mai stato ristampato. Indispensabile? No di certo, ma sicuramente molto gradevole.
Questo moniker è stato molto gettonato, dato che solo nel nostro genere e dintorni troviamo ben tre gruppi che lo hanno adottato. C’è la band tedesca che nel 1992 pubblicò ‘Best of Wild Thing’, una americana attiva alla fine degli anni ’80 di cui la FNA ha pubblicato proprio quest’anno una compilation e infine questo quartetto pure proveniente dagli USA ma che lavorò con la Escape, label notoriamente svedese. Prodotto da Hish Gardner, ‘Shyboy’ si destreggiava bene fra tutti i temi classici dell’hard rock melodico, cominciando con un bel metal da spiaggia fra Quiet Riot e Autograph intitolato “Have a Little Pitty”, proseguendo con “Good Girls” che, tra un giro di keys molto drammatico ed il pianoforte, ci consegna un bel melange Toto/Foreigner in chiave heavy. “All in the Name of Love” è un notevole arena rock: sofisticato e melodico, vagamente zeppeliniano, con un refrain anni ’70 inconsueto e piacevole. L’hard melodico scanzonato “Goin’ Down” precede la robusta ballad acustica “Fire” (ma perché il cantante urla come un ossesso nel refrain?), mentre “Two of a Kind” è un bel class metal d’atmosfera che si snoda tra tastiere e riff possenti. Un po’ opaca risulta “Losin’ You”, hard melodico ritmato che richiama vagamente i Danger Danger più ruvidi, decisamente meglio suona “Grab My Lovin’” che viaggia su un rif zompettante alla Van Halen ed ha un bel flavour anthemico. “Desperate” è una ballatona pomposa, imbottita di tastiere, e a chiudere arriva la cover del classico dei New England (omaggio a Gardner?) “Don’t Ever Wanna Lose Ya”, ovviamente acustica e arricchita dall’effetto live, cantata dal chitarrista Rob Lohr. Nell’edizione giapponese, due track in più, anche queste ballad acustiche, intitolate “I Remember it Well” e “Nobody Knows You”. La reperibilità di ‘Shyboy’ non è problematica ed i prezzi onesti: fateci un pensierino.
Dietro questo unico album dei Blackstone c’era un’operazione commerciale leggermente discutibile. Il contenuto di ‘Blackstone’ è difatti identico a quello di ‘Out of Nowhere’, primo ed unico (da quel che so) album solista di Marc LaFrance (ottimo cantante ma noto soprattutto come corista), che uscì per una microscopica indie canadese nel 1994 ed ebbe una diffusione prossima allo zero. Tre anni dopo, la Escape lo impacchettò sotto un moniker (“Blackstone”, appunto) aggiungendo tre nuove canzoni (oppure una, mi spiegherò meglio dopo) e ripubblicandolo dandogli comunque una visibilità di cui in precedenza non aveva goduto: resta sempre il fatto che un acquirente distratto avrebbe potuto ritrovarsi con due album sostanzialmente identici in mano… Partner di Mark era stato nientemeno che Paul Dean e fra i songwriters e gli esecutori figuravano quasi tutti gli altri membri dei Loverboy (mancava all’appello solo Doug Johnson). Venendo al contenuto del disco, si parte con una track non presente (credo) su ‘Out of Nowhere’, ma è possibile che sia stato solo cambiato il titolo: confrontando le scalette abbiamo 10 canzoni per ‘Out of Nowhere’ e 11 per ‘Blackstone’ ma solo sette titoli uguali tra un album e l’altro. Non avendo mai visto ‘Out of Nowhere’, mi resta il dubbio che la Escape abbia semplicemente ribattezzato tre canzoni per invogliare all’acquisto chi già aveva l’album intestato a Mark LaFrance, rendendo in questa ipotesi l’operazione commerciale di cui sopra ancora più discutibile… Comunque, ‘Chill’ è davvero un’ottimo avvio: vivace, policroma, ritmata su un riff zeppeliniano, passa da scanzonata a suadente a misteriosa con bella fluidità, ha il solo difetto di essere un po’ troppo lunga. Stessa pecca accusa “Kiss the Fire”, molto AC/DC, travolgente con il suo refrain a tempo di boogie; più equilibrata nel minutaggio “Act Out Your Fantasy”, con i tamburi tribali che ci trasportano in un bel arena rock variegato. Su “Trouble in Paradise” il suono è più rozzo, quasi tirato via salvo nell’assolo, dove invece diventa bellissimo: altra stranezza i backing vocals che nelle mie orecchie suonano decisamente stonati. Era voluto? Dio lo sa… Non rovinano però più di tanto un bel metal californiano fra Keel e Quiet Riot. “Runaway” è un power ballad vagamente Bon Jovi, con “Been There, Done That” sparano invece un funk lento e molto cool, mentre “Livin’ to Ride” approccia benissimo il southern boogie di grana grossa degli ZZ Top con il giusto contorno di chitarra slide. “Land of Denial” omaggia senza equivoci i Van Halen con i suoi riffoni scoppiettanti ed il canto sopra le righe alla Diamond Dave, “World Comes Tumbling Down” torna alla L.A. metallica dei Big 80s, stavolta quella di Kix e Dirty Look, “Schizophrenic” è ancora un bel funk, heavy ed acido alla maniera degli Electric Boys. In chiusura, “Blame It on the Night” si rivela un hard melodico potente e d’atmosfera. In definitiva, un album eccellente: songwriting che non perde mai colpi, produzione autorevole (firmata da Paul Dean) che si traduce in timbriche varie e curatissime (con l’eccezione già notata) e soprattutto arrangiamenti molto curati e fantasiosi anche nelle canzoni in apparenza più dirette. Sicuramente da avere ma è quasi impossibile da trovare: a quando una ristampa?
Sembrava che questa fosse un’annata un po’ loffia per l’AOR e l’hard melodico, ma in dirittura d’arrivo sono arrivate un paio di perle: i Devil’s Hand di Mike Slamer (la mia recensione potete leggerla sul numero di Classix! in edicola) ed il secondo album dei Cranston: due lavori che stanno nel meglio del meglio che il 2018 abbia offerto (assieme ai nuovi dischi di Lee Aaron e Fire Tiger: per i distratti e/o smemorati ci sono i link). Già con il primo album questa band si era fatta notare, ma il secondo parto della coppia Phil Vincent - Paul Sabu si impone all’attenzione di chiunque ami il rock melodico anni ’80. Il peso di Sabu nella società mi pare preponderante: Paul non canta (e forse è meglio così, perché la sua voce simil Coverdale non è più – purtroppo – quella dei tempi d’oro), ma suona chitarra e tastiere, compone e soprattutto produce: e si sente… “Always On The Run” e “What’s it Gonna Take”, pur impostate su coordinate sonore molto diverse (la prima fa parecchio Bon Jovi, la seconda viaggia su armonie esotiche dal sapore zeppeliniano) hanno una matrice melodica che rimanda senza equivoci all’universo musicale codificato dal jungle boy dell’AOR. Ancora più caratterizzata risulta “Wrong Side of Town”, potente, notturna e misteriosa in pari misura, con il solito (per Sabu) riuscitissimo impasto chitarre/tastiere, mentre “Soul Crusher” risulta invece solenne ma dinamica secondo la lezione dei migliori House of Lords. “Tables Turning” è di nuovo zeppeliniana, col suo bel riff e l’andamento ritmico sinuoso alla “Kashmir” trapiantato in un contesto melodic rock alla stessa maniera degli Zebra e si prosegue alla grande con “Wish I Had More Time”, con le sue atmosfere da film western molto Tattoo Rodeo. “One Track Mind” è una perfetta scheggia di Sabu sound, selvatica eppure sempre cromata e melodica; “Throwin’ Down” appartiene alla categoria degli arena rock possenti, quelli che una volta facevano battere le mani a tempo al pubblico; “Sad Truth” è un patchwork fenomenale, impastando tappeti acustici, un riff elettrico moderno, cori melodici in un contesto che rimanda nuovamente ai Tattoo Rodeo o ai Bon Jovi più rustici. “Take Me” è il metal californiano aggiornato al ventunesimo secolo, ma con un refrain leggero e AOR, “Dead & Gone” chiude le danze nello stesso spirito di “One Track Mind”, colorata di sfumature Silent Rage. Timbriche bellissime, produzione sontuosa e potente, songwriting stellare: senza il minimo dubbio, ‘II’ è uno degli album dell’anno.
Rumble Tribe: quanti di voi ne hanno mai sentito parlare? Pochini, ci scommetto. Non solo il loro primo ed unico album uscì nel bel mezzo della buriana grunge (era il 1994) ma venne pubblicato solo in Giappone, e anche nella terra dei kamikaze non è che fece sfracelli nelle classifiche. Eppure ‘Fire, Water, Earth & Stone’ ha tutto per meritarsi un posticino nel cuore di ogni aficionado dell’hard rock melodico sofisticato fine anni ’80. Prodotto da James Christian, l’album veniva aperto dalla title track che dichiarava immediatamente la cifra stilistica di ‘Fire, Water, Earth & Stone’ incastonando un refrain dal feeling decisamente southern (il southern volto all’hard rock di Tangier, Company of Wolves, Soul Kitchen e compagnia) in un classico heavy metal americano alla Y&T. Anche la successiva “The Traveler” mescola metal (quello californiano, stavolta) e southern, ma in una chiave più melodica e fascinosa (un po’ come i Lynch Mob dell’album omonimo). “Demons Down” – proprio quella degli House of Lords – considerato quanto abbiamo ascoltato finora, possiamo considerarla una cover quasi obbligatoria (oppure soltanto una leccata di sedere al produttore?), proposta in una versione irruvidita e con meno tastiere, mentre “Cold Day in Hell” si risolve in un bell’anthem fra class e glam. In “No Way to Hide” tornano molto bene gli elementi decorativi southern, ma anche in “Age of the Dog” non mancano le chitarre acustiche western, stavolta in un contesto più hard rock alla Lynch Mob. “Deeper Than Black” è un heavy metal epicheggiante e aggressivo con una particolarità: l’intro del brano è fatto con la stessa, identica coda di tastiere che gli House of Lords piazzarono a conclusione di “Inside You” (su ‘Demons Down’, naturalmente: sarebbe interessante sapere se James Christian portò in studio il programma per il sequencer usato sull’album riproducendo quella sezione d’archi su una Roland D50 oppure si limitò a campionare un CD), e non mi pare che c’entri molto con l’atmosfera del brano, comunque… “One in a Million” era una power ballad multiforme e variegata, “Close Your Eyes” un buon incrocio tra Ratt e Van Halen, “Sea of Silence” un bell’omaggio ai Led Zeppelin in chiave anni ’80 ma “Whipping Post” saliva fino alla stratosfera mescolando acustiche southern ed elettricità di marca Zeppelin e Rainbow. A quando una ristampa?
Ecco un’altra band che non è registrata sulla bibbia on line del rock melodico, Heavyharmonies.com. E se tra i miei lettori c’è qualche volenteroso compilatore del sito, potrebbe fare una buona azione inserendo (finalmente) i Living Daylights nell’elenco: non solo perché questa band australiana appartiene al nostro genere, ma anche perché lo praticava con notevole maestria. Partiti con il moniker The Kind (era il 1985) ed una formazione differente in cui militava anche il bravo Johnny Diesel, cambiarono denominazione quando furono messi sotto contratto dalla InsideOut che pubblicò il loro primo e unico album nel 1993, in Giappone (sotto etichetta Toshiba Emi): la band era però ridotta adesso ad un duo formato da Denise DeMarchi (sorella della più celebre Suze dei Baby Animals, chi vuol saperne di più su di lei e la sua band segua il link) ed il key player Boyd Wilson, coadiuvati da vari turnisti. I riscontri in Giappone non furono male, ma probabilmente non sufficienti a spingere Wilson e la DeMarchi a tenere in piedi una band arrivata all’esordio troppo tardi. Peccato, perché ‘Living Daylights’ era un album davvero eccellente: produzione sontuosa, arrangiamenti colorati e fantasiosi, timbriche degli strumenti (soprattutto le chitarre) curatissimi, e poi la voce di Denise, decisamente più interessante di quella della sua troppo celebrata sorella. L’album cominciava benissimo con un magnifico arena rock dalle sfumature pop e un certo feeling Sabu nelle melodie intitolato “Pieces of My Heart”, poi, a seguire, “Naturally” risultava elettroacustica, vivace ma con bei chiaroscuri ed un refrain di matrice r&b. “Merry Go Round” era un bel connubio di atmosfera ed elettricità, ostentando un riffing sinuoso su cui andava ad adagiarsi una melodia carezzevole; “Madalaine” metteva a segno un altro bell’impasto acustico/elettrico, drammatica e potente, mentre “Fire With Fire” (fascinosa, bluesy, dipanandosi tra chitarre slide e tastiere pop) era una power ballad divina. Virata verso atmosfere southern rock con “All Over You”, mentre la successiva “Sliding” suonava come il prodotto di Van Halen cromati e sofisticati, impostata su un riffone vagamente zeppeliniano e cori ancora di stampo r&b. “Tears” partiva con una citazione della “Run to You” di Bryan Adams a precedere una chitarrona tagliente che introduceva un refrain ancheggiante ed un po’ Headpins, ma anche “Come Tomorrow” seguiva vagamente le tracce del più celebre Bryan canadese, mettendo a punto un hard melodico su atmosfere classic rock che doveva qualcosa anche ai Tyketto, atmosfere riprese dalla successiva “Heartbreak Town” in chiave di power ballad. Con “Crazy World” la band esplorava i territori del pop rock d’atmosfera con vibrazioni funky ed un arrangiamento in qualche frangente molto avventuroso e “Damned if You do” chiudeva con quello che era praticamente un party rock sofisticato fra parti di chitarre da metal californiano ed un bel refrain anthemico. La reperibilità è problematica: anche se i prezzi non sono da capogiro, capita di rado che se ne veda qualche copia tra eBay e Amazon. Una ristampa non sarebbe fuori luogo.
Il mio pensiero sul nuovo album di questa quasi leggendaria band potrete leggerlo sul numero di Classic Rock che uscirà ad aprile: per chi non sa o non ricorda, illustriamo qui la base su cui la leggenda è stata edificata, l’album omonimo del 1985. La storia del gruppo la trovate su Wikipedia, ed è inutile che perda tempo a riassumerla qui. Anche perché, come per tante band leggendarie – vere o presunte tali – della musica dei Fortune non è che si sia mai scritto molto. ‘Fortune’ venne ristampato nel 2004 e poi nel 2011 e se volete ascoltarlo senza spendere un soldo lo trovate comunque su YouTube. Anche se il moniker rivendicava un ruolo preminente ai fratelli Richard e Mick Fortune, erano Larry Greene e Roger Scott Craig le menti pensanti della band: la produzione de luxe di Kevin Beamish faceva il resto. Il particolare sound messo a punto qui non andò perduto con i Fortune, dato che Larry Greene e Roger Scott Craig anni dopo lo riportarono in auge negli Harlan Cage (che ripresero sui loro album diverse canzoni già incise su ‘Fortune’), mentre il solo Craig proseguì il discorso successivamente con i 101 South: dunque, chi conosce quelle band sa già cosa aspettarsi: un rock melodico con una prevalente base tastieristica, impostato su atmosfere tra il drammatico e il romantico. “Thrill of It All” apriva le danze con fuochi d’artificio di keys “spaziali”, mentre “Smoke From a Gun” dilatava lo spettro all’arena rock pomposo in un maestoso crescendo vocale. Su “Stacy” spuntava un bel sax per una ballad che molto doveva ai Journey, ma si tornava immediatamente all’arena rock con “Bad Blood” in un gran spiegamento di tastiere. “Dearborn Station” ha una melodia divina e potremmo descriverla come più Journey degli stessi Journey oppure come la canzone che i Journey non hanno fatto in tempo a scrivere o magari come un distillato di tutto il meglio che i Journey hanno prodotto: spero di aver reso l’idea… “Lonely Hunter” era fatta di keys robotiche ed una chitarrona tagliente, strofe d’atmosfera ed un coro potente, “Deep in the Heart of the Night” spingeva l’atmospheric power a forza 10, incastonandoci un refrain molto Toto, “Stormy Love” tirava di nuovo in ballo i Journey con una power ballad passionale infarcita di tocchi pomp. “Out on the Streets” è una di quelle canzoni che si potrebbero usare come perfetta esemplificazione del sound dei Big 80s: la base robotica molto primi Loverboy, i flash di tastiere, il refrain… Semplicemente favolosa. “98 in the Shade” è un’altra tranche divina di atmospheric power, con il plus di uno splendido refrain anthemico. Nelle ristampe, tre bonus track: la ballad molto Toto “Home Free” e due riprese live di canzoni inedite: “Breakin’ Down The Door” (bella tosta) e “Heart of Stone” (power ballad che è stata appena incisa su ‘II’). Capolavoro? Senza il minimo dubbio. Ma certo non “il più grande album AOR di tutti i tempi”, come qualcuno ha scritto e certi pappagallescamente ripetono. Primo, perché il sound di questa band era decisamente derivativo (i riferimenti a Journey e Toto, come annotato, si sprecano); secondo, perché “il più grande album AOR di tutti i tempi” semplicemente non esiste, dato che l’arte non è una gara con classifica finale e medaglie da assegnare secondo il piazzamento. Prendiamo ‘Fortune’ semplicemente per quello che è – un magnifico trattato di Adult Oriented Rock nel più puro stile di metà anni ’80 – e piantiamola di distribuire corone e allori e stilare graduatorie assolutamente prive di senso.
Scrivendo, anni fa, del meraviglioso ‘Wired Up’ di Jeff Paris, sottolineavo quanto debba essere frustrante, per un artista, ritrovarsi nella condizione di cult hero: oggetto della venerazione di pochi e nome sconosciuto o quasi per tutto il resto del mondo. Può esserci qualcosa di peggio? Forse, essere membri di una cult band… Quel po’ di notorietà e venerazione ottenuta non è neanche tutta tua, devi dividerla con altri tre o quattro tizi… Questo cappello introduttivo fa ovviamente riferimento alla militanza del singer dei Jerusalem Slim in una di quelle band divenute cult che più cult non si può: gli Hanoi Rocks. Michael Monroe, dopo lo split degli Hanoi, tentò (come tutti gli altri membri sopravvissuti) di rifarsi una carriera senza mai riuscire a ottenere non dico un certo successo ma neppure un minimo riscontro, quasi come se la morte di Razzle avesse portato con sé una condanna alla iella perpetua per i suoi (ormai) ex pards. Resta il fatto che il destino poco fortunato di questa band in particolare si deve accreditare essenzialmente a due fattori. Fattore numero uno: arrivarono un pelo tardi, nel 1992, quando il grunge era già scoppiato e per il metal californiano i giorni di gloria erano contati. Fattore numero due: il carattere incostante di quello straordinario guitar player che risponde al nome di Steve Stevens. L’album ancora non era nei negozi che Steve mollò tutto per accasarsi con Vince Neil e suonare (magnificamente) sul suo ‘Exposed’: alla fine, ‘Jerusalem Slim’ risultò la testimonianza di una band che si può ben dire era nata morta. Una band che sulla carta prometteva scintille, considerando che al basso c’era un altro ex Hanoi, Sam Yaffa (anche lui reduce da un fiasco, quello dei bravi Jetboy: per saperne di più, seguite il link), mentre dietro la batteria stava Greg Ellis, già con gli Shark Island e poi nei Chrome Molly. In effetti, il contributo di Sam Yaffa fu minimo, dato che alla fine Steve Stevens suonò personalmente le tracce di basso in sei canzoni sulle nove che componevano l’album (fece lo stesso su ‘Exposed’, non trovando di suo gradimento le parti di basso suonate da Phil Soussan) e Sam non contribuì neppure con una nota o una parola al songwriting. L’impressione, insomma, era che a dettare legge sul progetto fosse Steve Stevens: la voce che il risultato finale delle registrazioni non soddisfece gran ché Monroe e Yaffa (ma il giudizio negativo di Sam, considerato il trattamento ricevuto, era scontato) non può essere solo leggenda, dato che il materiale presente in ‘Jerusalem Slim’ risultava abbastanza lontano dal tipico rock targato Hanoi e aveva molti più punti di contatto con quello composto da Steve sull’unico, favoloso album degli Atomic Playboys. Insomma, per i fan degli Hanoi Rocks qui c’è davvero pochino, ma chi ama il guitar playing incendiario e anticonvenzionale di Steve Stevens applicato al metal californiano, da quest’album avrà parecchia soddisfazione, anche se il songwriting è molto meno avventuroso rispetto agli Atomic Playboys, e i testi a sfondo politico/sociale risultano completamente fuori contesto. “Rock’N’Roll Degeneration” e “Dead Man” possono in effetti essere descritte come ipotetici parti di una versione dei Ratt dal riffing più sofisticato, mentre “Attitude Adjustment” varia piacevolmente il passo: gran ritmo, un feeling bluesy su una base Van Halen (era Roth), con il plus dei fiati e di un assolo di sax di Michael Monroe. “Hundred Proof Love” torna alle atmosfere Ratt (stranamente, dato che su questa canzone figura Jim vallance tra i songwriters), “Criminal Instict” è invece fatta di un magistrale riffone rotolante inserito in un contesto di nuovo bluesy. Un’altra serie di riff formidabili si snoda attraverso “Lethal Underground”, la cover di “Teenage Nervous Breakdown” dei Little Feat è correttamente metallizzata e indiavolata, con un piano boogie frenetico, “Gotta Get A Hold” si snoda lungo una trama un po’ Quiet Riot, molto elettrica con preziosi intarsi acustici spagnoleggianti che ricorrono anche nella conclusiva “The World Is Watching”, ballad segnata da melodie vagamente beatlesiane. Nell’edizione giapponese erano aggiunte come bonus track le versioni demo di “Rock’N’Roll Degeneration” e “Teenage Nervous Breakdown”, in quella americana c’era un’alteriore canzone, uno street rock ispido e diretto intitolato “Scum Lives On”. Le quotazioni di ‘Jerusalem Slim’ su eBay non sono esorbitanti, si va dai nove ai venti dollari, indifferentemente per le edizioni giapponese e americana: per i fan di Steve Stevens, un acquisto quasi obbligato.
Non chiedetemi certezze riguardo questo disco, l’ultimo degli Outside Edge. Girando nel web, su ‘Call Me’ si legge tutto e il contrario di tutto: che è uscito solo su vinile, che è un bootleg, che è una raccolta di demo neppure incisi dagli Outside Edge ma dalla successiva incarnazione della band, i Blackfoot Sue (un solo album all’attivo, pubblicato nel 1995). Io propendo per il bootleg (quando un album non è registrato su Discogs, deve essere un bootleg per forza), la data del 1990 per la pubblicazione è solo presunta, ogni ipotesi potrebbe essere valida e, sia come sia, questo ‘Call me’ è (a mio modesto e sempre fallibile parere) il miglior album a portare il moniker della band britannica. I dischi ufficiali sono ottimi, ma a tratti troppo marcatamente derivativi, mentre le canzoni di ‘Call me’ testimoniano la volontà da parte di Tom Farmer e soci di andare oltre la mera riproposizione di temi e stilemi codificati dalle varie band leader, anche tramite arrangiamenti più complessi e multilayered. “Kiss Of Judas” apre l’album con una tranche di atmospheric power molto elettrica in cui si incastra magnificamente un refrain molto pop, “Don’t Look Down” procede come una power ballad cromata in crescendo mentre “Heat Of The Moment” si sviluppa lungo ritmi robotici e danzerecci che fanno tanto Loverboy, tra strofe movimentate ed un refrain morbido e diretto. Drammatica, potente e molto Survivor (l’attacco di pianoforte è un vero trade mark) risulta “Build Another Wall”; “Ghost In Your Heart” è figlia invece in parti uguali di Honeymoon Suite e Diving For Pearls, una trama d’atmosfera solcata da sciabolate elettriche. Vagamente funky la ritmica di “Losing Control”: un refrain dinamico sull’impasto d’effetto di chitarre e tastiere per un risultato finale che ricorda distintamente Tall Stories e Beggars & Thieves. Stratosferica “Teardrop”, grandiosa esercitazione su tema Journey, ma altrettanto bella è “Ready For Love”, che ancheggia sinuosa e anthemica, sofisticata e travolgente, mentre sono i Def Leppard di “Rock of Ages” a venir presi a modello su “Burn The House Down”, anche questa (ovviamente) anthemica e con un ispirato break d’atmosfera, e la band di Joe Elliot (versione ‘Hysteria’, stavolta) fa da spunto anche per “House of Love”. Belle anche le melodie dal sapore Journey che solcano “Angel”, canzone che parte morbida e s’infiamma lungo la strada, poi la conclusiva “Hot Touch” ci regala un’altra scheggia di AOR hard edged sofisticato in bilico tra Honeymoon Suite e Glass Tiger, fra una chitarra dinamica ed una splendida commistione di strofe potenti e refrain elegante. Insomma, ‘Call Me’ è un ascolto quasi obbligato per chi ama il melodic rock sofisticato della fine degli anni ’80.
Mi sembra superfluo tessere ancora le lodi di Tommy Denander, preferisco puntare l’obiettivo su questo suo (ennesimo) progetto con il cantante canadese BK Morrison. ‘Soulfire’ sarà senza dubbio uno degli highlight dell’annata, ed è un peccato sia pubblicato da una label che negli ultimi anni ha adottato strategie promozionali autolesionistiche (o suicide tout court), che ne limiteranno senza dubbio la diffusione. Morrison ha una voce calda e robusta che fa un po’ Coverdale, e il chitarrismo di Tommy affascina come sempre: “Before I Will Know” porta il suo inconfondibile sigillo, mescolando prog e rhythm & blues a tempo di AOR. La superba “Bullet With Your Name” è un arena rock trascinante intessuto su bei riff geometrici, “Come Home” innesta su uno shuffle slow blues linee melodiche soul e atmosfere AOR, mentre “Confess To Your Demons”, potente e agile, è un vero e proprio funky OGM. “Fade To Black” sterza in direzione AC/DC, heavy e anthemica, “I Won’t Surrender” è uno spettacolare arena rock (ma con un refrain non efficace al massimo), “Have Mercy” innesta gli Whitesnake più patinati sul tronco del melodic rock svedese moderno. Da questo punto in poi, la band di David Coverdale (in versione USA, naturalmente) diventa un riferimento costante: “My Soul Is A Ghost Town” alterna momenti carezzevoli e potenti, più melodica si rivela “On The Other Side”, “Somewhere In The Past” è decisamente AOR, praticamente una ballad, mentre “Walk It Like A Man” spara splendide sovrapposizioni di riff. Gran finale con “Full Of Shit”, che reinventa gli anni ’70 attraverso suoni cromati e un refrain pop-r&b.
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