recension
La mia personale devozione per i primi due album di questa band l’ho dichiarata più volte e dunque non c’è da meravigliarsi che ogni nuova uscita dei Lynch Mob riaccenda nel sottoscritto le speranze di poter ascoltare materiale in linea (e dello stesso livello) con quello che George Lynch incise tra il 1990 ed il ’92. Dai Mob, però, abbiamo avuto album talvolta interessanti (fanno eccezione l’orrido ‘Smoke This’ ed il fiacco ‘Sun Red Sun’) ma mai in grado di competere alla pari con ‘Wicked Sensation’ e ‘Lynch Mob’. Questo fresco di stampa ‘The Brotherhood’ non fa eccezione: ha i suoi momenti ma anche delle inspiegabili pause. C’è poi una differenza enorme a livello di produzione che è perfettamente giustificabile dal punto di vista tecnico e finanziario, meno da quello delle capacità di chitarrista di George Lynch. L’apertura è affidata a “Main Offender”, diretta e basata su un riff zeppeliniano: altro, su questa canzone, non c’è da dire. “Mr. Jekyll and Hyde” è un po’ più movimentata, con un riff rotolante in cui si inserisce una chitarra funk, nello stesso tempo selvatica e ipnotica: non malvagia, ma suona… come dire?... troppo lineare, non c’è quasi nessuna sovrincisione e George si esprime in maniera davvero esageratamente diretta, nessuno gli chiede di riempire di shredding assassino ogni secondo di canzone, ma perlomeno inventarsi qualcosa che non avremo già sentito duemila volte… di questo non è più capace? Buona “I'll Take Miami”, in cui si apprezza soprattutto la cifra melodica del cantato di Oni Logan, mentre “Last Call Lady” è una power ballad sempre ruvida e abbastanza scontata. Con “Where We Started” tocchiamo il fondo: qui, George e compagni suonano come una versione tetra e sonnambulica dei Bulletboys: non siamo di fronte soltanto ad una brutta canzone, ma ad una scheggia di musica inutile e sciatta che mai e poi mai avrei pensato potesse venire fuori dalla chitarra di George Lynch. A chi o cosa serve roba del genere? Neppure si può qualificare come un semplice filler, è spazzatura e basta. È vero che non si tirano le somme quando sei arrivato sì e no a metà di un album, ma se su cinque canzoni ne puoi salvare (a malapena) due, come minimo le aspettative sul resto dell’opera calano drasticamente… Invece, a stupirci arriva “The Forgotten Maiden’s Pearl”, tutta chitarre acustiche, percussioni e keys arabeggianti, sexy e misteriosa. Anche “Until the Sky Comes Down” è positiva, con il suo ritmo lento, un paio di riff interessanti ed il canto dinamico di Oni, mentre “Black Heart Days” si rivela uno street metal melodico che rimanda (a tratti) a quanto fatto ai tempi di ‘Wicked Sensation’, con il plus di un refrain che arieggia un po’ i Riverdogs. Con “Black Mountain” e “Dog Town Mystics” George si tuffa nello stoner: la prima è segnata da un wah wah rauco, alleggerita da un ritornello retto da una chitarra acuta e tinnante; la seconda procede lenta e ipnotica ed è inutilmente lunga. “Miles Away” è una magnifica ballad elettroacustica che sale in un crescendo gentile, introdotta da un fraseggio misterioso, appena velata di tastiere e in chiusura si torna al blues con “Until I Get My Gold”, un blues allucinato, violentato, sinistro, con una chitarra sporchissima ed un’armonica distorta, perversamente bella. In definitiva: un album contraddittorio, con cose notevoli ed altre semplicemente da buttare. È soltanto lo scotto che dobbiamo pagare ai tempi nuovi (pochi soldi, niente produttori)? Oppure George Lynch comincia ad essere a corto di munizioni al punto da dover rimpolpare i propri album con robaccia come “Where We Started”? Qualsiasi spiegazione vogliamo architettare, non ci dà comunque speranza di riavere prima o poi George e compagni ai livelli di trent’anni fa. Don Lisander non aveva torto: non sempre ciò che viene dopo è progresso.
Non sono poche le grandi band AOR degli anni ’80 tornate a pubblicare album dopo un lungo iato, e con risultati non sempre all’altezza delle legittime aspettative di chi ha ascoltato la loro musica per trent’anni. C’è chi si è rifugiato nell’autocitazione (i Drive She Said) o ha provato ad allinearsi ai tempi nuovi, solo pochissimi (i Giant di ‘III’, per esempio) ci hanno dato opere confrontabili con i capolavori del bel tempo che fu. Riguardo le difficoltà “tecniche” che impediscono di incidere album di qualità pari a quelli dei Big 80s mi sono dilungato anche troppo negli ultimi tempi e non voglio tornarci ancora sopra. Anche perché questo ‘Boulevard IV – Luminescence’ sembra dirci che, se davvero si vuole, è possibile tornare a quei livelli, riproporre quel certo sound in tutto il suo splendore. Naturalmente il sound non basta: ci vogliono la produzione e (last but not least) le canzoni, e in ‘Luminescence’ c’è anche tutto questo… E, giunto a questo punto, devo stare attento a non trasformare la presente recensione in un peana insipido e roboante. Ricordo quando su Truemetal.it scelsero di recensire ‘Images and words’ dei Dream Theater semplicemente usando la poesia di Leopardi “L’infinito”: un modo originale per dichiarare la pura e semplice impotenza a tradurre in parole le emozioni che la musica può suscitare. Potrei cavarmela ricorrendo ad un approccio del genere…Ma, dato che anche gli amici di Truemetal hanno capitolato di fronte alla necessità di offrire qualcosa di più che le proprie emozioni a chi li legge ed hanno poi scritto una recensione “vera” di ‘Images and words’, mi accingo a riferirvi di ‘Luminescence’ senza condensare il mio pensiero citando opere di poeti antichi o moderni. Se amate l’AOR sapete già chi sono i Boulevard. Se bazzicate da poco questi territori, seguite il link alla recensione dei loro primi due album per capire con chi avete a che fare. Dare un degno successore a quei due album divini era indubbiamente una sfida che David Forbes e compagni hanno vinto. E, consci che certi risultati non si possono ottenere giocando al risparmio, hanno deciso di incidere e mixare nientemeno che agli Abbey Road Studios di Londra. Al giorno d’oggi, lo sappiamo, gli album si registrano come si può, senza stancarsi troppo e, soprattutto, senza spenderci sopra cifre folli, dato che dovranno essere più che altro regalati. Non so quanto ai Boulevard sia costato registrare ‘Luminescence’, ma senza dubbio il conto finale non assommava a pochi spiccioli. Se una band si impegna tanto, e per un audience limitata come quella del rock melodico, lo fa solo per passione. Se i Boulevard avessero voluto, come tanti fanno, soltanto presentare un biglietto da visita per attirare la gente ai concerti, sarebbe bastato molto meno. Ma hanno deciso di essere all’altezza della propria fama e confezionare queste dodici canzoni come si faceva una volta, dandogli una qualità audio stellare ed una produzione sofisticata. E le canzoni, senza il minimo dubbio, meritavano tutte le attenzioni che la band gli ha dedicato. Anche se mancano due mesi alla fine dell’anno, è facile vaticinare che niente di comparabile a ‘Luminescence’ ci arriverà in questo 2017: è l’album dell’anno per chi predilige l’AOR modellato nella forma dei tardi anni ’80, quella più sfarzosa e raffinata. L’unica sua scheggia in cui si fa qualche concessione al moderno è la mesta “I Can’t Tell You Why”, tutto il resto potrebbe essere stato scritto e registrato nel 1990 o giù di lì. “Out of the Blue” apre l’album con un nuovo (per la band) feeling Beatles che permea il loro classico big sound, mentre “Life Is a Beautiful Thing” mette in campo accordi rotolanti di piano su una chitarra ruvida ed un drumming guerriero, drammatica, potente, con Mark Holden che ci dà un primo, breve, meraviglioso assolo di sax. “Laugh or Cry” esprime il più classico Boulevard sound fatto di chiaroscuri a volte impalpabili, nello stesso tempo leggiadra e fisica, con tenui sfumature r&b e splendenti intrecci di vocals, “What I’d Give” parte con un intro d’organo, entrano le tastiere, una chitarra sognante, sparse note di sax, fra il big sound e l’atmospheric power, con il sassofono che sale al proscenio nel finale. “Come Together” meriterebbe una recensione a sé, per quel feeling danzereccio coniugato con incomparabile gusto all’AOR (connubio che i puristi del rock hanno sempre guardato con sospetto o aperta ostilità): un continuo pulsare di chitarre e percussioni che si intrecciano strepitosamente sotto una melodia ariosa con il plus di una sezione fiati dal retrogusto funky. “Runnin’ Low” è un’altra scheggia di classe assoluta (la melodia mi ricorda vagamente “Rainy Day in London”, ma forse è solo suggestione), di “I Can’t Tell You Why” abbiamo già detto, una timida strizzata d’occhio al moderno, non malvagia ma forse una punta troppo cupa. “Confirmation” è calda e soul, con una melodia dal sapore anni ’70, smaltata di piano e Hammond ed il sax di nuovo protagonista, “Slipping Away” stende letteralmente tramite un arena rock anthemico, “What Are You Waiting For” è una classica ballad in crescendo, con il giusto corredo di chitarre acustiche, archi e pianoforte, “Don’t Stop the Music” chiude l’album riportandoci ancora in quell’universo fatto di divini chiaroscuri tessuti dal sax e dalle chitarre, con il refrain che esplode in una stratosfera di colore, il bridge fatto di poche, sapienti note, un middle eight esemplare nella sua efficacia. Tutto, in questo album, è assoluta goduria per chi ama l’Adult Oriented Rock: canzoni, sound, produzione, ogni cosa è esattamente come deve essere. E, senza dubbio, tra questa / Immensità s'annega il pensier mio: / E il naufragar m'è dolce in questo mare… E preciso che questi versi del poeta di Recanati non condensano il mio pensiero su ‘Luminescence’, ma esprimono le mie emozioni al suo ascolto. Emozioni sfumate dall’inevitabile domanda: quanto passerà prima di poter ascoltare di nuovo qualcosa del genere che sia di fresca registrazione? E se questo fosse l’ultimo album di grande AOR mai inciso nel ventunesimo secolo? I Boulevard chiudono ‘Luminescence’ implorando: non fermate la musica. Io aggiungo, altrettando implorando: non fermate questa musica.
Un’altra band misconosciuta o quasi che meriterebbe una rinomanza molto superiore a quella ottenuta sono questi D Drive, autori di tre album, l’ultimo uscito nel 2013, nati come progetto solista del chitarrista Don Mancuso, che intitolò ‘D Drive’ il suo primo (e, ad oggi, unico) album solo nel 2004, tramutando quel titolo in un monicker nel 2007 presentando una band con una line up quasi identica a quella che lo aveva aiutato ad incidere ‘D Drive’: il bravo Phil Naro dietro il microfono, Joe Lana alla batteria, Andy Knoll alle tastiere ed il figlio d’arte Richard Gramm (figlio di Lou, che compariva in qualità di backing vocalist) al basso. Per questo secondo ‘3D’ uscito tre anni dopo c’erano diversi cambi nella band, a Mancuso e Phil Naro si affiancavano John Naro (il presumibile grado di parentela fra i due non mi è noto) alle chitarre, John Taylor al basso e Bobby Bond alla batteria. Album davvero eccellente, ‘3D’: vario, benedetto da un songwriting avvincente e dalla voce chiara eppure calda e pastosa di Phil Naro. In dettaglio, con “Next Train” offrivano una bella tranche di Leppard sound era ‘Pyromania’ (in una versione un po’ più ruvida), passando con “Dig Down” al metal californiano con un corretto refrain pop. “Kiss the Ground” cambiava rotta, veleggiando agile e scanzonata verso l’Inghilterra dei Little Angels, “Chains On You” ci riportava sulle spiagge di Venice al ritmo di Autograph e Black ‘N Blue, “Never Had a Chance” era invece una bella power ballad in crescendo, dalla forte impronta classic rock. Altro cambio di scena con “Last To Fall”, marezzata di suggestioni southern rock alla Tangier/Tattoo Rodeo, mentre “Down Deep” era una scheggia di class metal dalla melodia imponente e drammatica. Il sound dei Little Angels tornava in “Always Done” e “1 To 7”, la prima morbida e policroma, la seconda anthemica e potente. In chiusura, due gemme: “Tumblin’” partiva con una chitarra funk che introduceva una parte melodica densa di chiaroscuri, terminando con un assolo molto Jimmy Page; “Welcome To My World” era elettroacustica, zeppeliniana, improntata ad un’atmosfera misteriosa, benedetta da un arrangiamento variegato e avventuroso. Peccato che di questa band non si senta più parlare.
Esordio interessante questo dei Wayland, band americana dedita all’hard rock moderno ma che non disdegna di fare qualche puntata nel classico. Il grosso del materiale presentato prende ottimamente spunto dai soliti nomi che dettano legge in ambito modern melodic: Alter Bridge ( “Ghost”, la più metallica “Through The Fire”), Nickelback (“Come Back”, quasi una power ballad; “The Brave Don’t Run”) e soprattutto Shinedown (il bel riffing pulsante di “All Rise”, la melodia di “All We Had”, le sfumature acide di “Revival”, la power ballad “On My Knees”). Sorprendono con “Shopping For A Savior”, quasi un boogie, divertente e scatenata alla maniera dei Black Stone Cherry, ma anche “Back To Life” parla la lingua della band di Chris Robertson (anche se con il refrain torniamo ancora dalle parti degli Shinedown). Le canzoni più in linea con la tradizione sono “Ode To 37”, pura atmosfera costruita attorno ad una bella successione di assoli di chitarra e vocalizzi decisamente planteggianti, ma anche quell’eccellente scheggia intitolata “Rabbit River Blues - From The Otherside” ha come padrini i Led Zeppelin, con il suo intro strumentale bluesy e acustico e le chitarre esotiche e fascinose che diventano elettriche e veloci, mentre “Follow” è una ballad prevalentemente acustica, cesellata con appena una bava di violino. Insomma, un album veramente interessante, fatto di canzoni sempre dense, concise (tutte sotto i quattro minuti tranne una), cantate da una voce potente e nitida, primo sigillo di una band sicuramente da tenere d’occhio.
Lo so che questa recensione arriva con un ritardo indecente, l’album è uscito il 30 giugno, ma non potevo non segnalare la pubblicazione di questo masterpiece dell’hard rock melodico che da tempo girava sul web in forma di bootleg, in versione doppio CD dato che ‘Ride the Storm’ è proposto in due diversi mastering. Don Barnes è il cantante e chitarrista dei 38 Special, e questo chi bazzica i nostri territori dovrebbe saperlo già, ma forse gli era sfuggito che, nel 1989, Don (due anni prima uscito dai 38 Special) firmò con la A&M un contratto come solo artist e registrò un album che per tutta una serie di intralci e contrattempi finì in naftalina. Considerato il periodo storico e le stesse scelte in fatto di sound operate in quel torno d’anni dalla sua band, è quasi superfluo specificare che ‘Ride the Storm’ era un prodotto inquadrabile nell’ambito dell’hard melodico. La backing band che venne radunata per comporlo e inciderlo comprendeva Jeff e Mike Porcaro, Dann Huff, Alan Pasqua, Tim Pierce, Danny Carmassi e Jesse Harms, mentre della produzione si incaricarono Martin Briley e Brian Foraker. E questa pura e semplice parata di stelle dell’AOR non andò assolutamente sprecata: ‘Ride The Storm’ è un perfetto esempio di melodic rock fine anni ’80, in cui un songwriting superbo viene benedetto ed esaltato da una produzione spettacolosa. La title track già è un’apoteosi, una tranche di big sound bombastic, spettacolare, potente, appena ruvida ed arricchita di un delicato retrogusto Giant. “Looking for You” è uno dei più begli impasti Journey/Toto che abbia mai sentito, policroma e d’atmosfera, mentre “I Fall Back” ci porta dalle parti di Van Stephenson o Jeff Paris, ma in un clima più elettrico, meno pop, serrata e con un bel piano martellante. “Don’t Look Down” procede come un AOR sofisticato e fascinoso finché non esplode un refrain FM rock che fa tanto Mitch Malloy o John Parr, ed è ancora Parr che ricorre nelle melodie di “Maybe You’ll Believe Me Now”, ma in un contesto che richiama stavolta i Foreigner. Bryan Adams è il nume tutelare di “I’d Do It All Over Again” e “Every Time We Say Goodbye” (ma nella prima c’è di nuovo qualcosa dei Giant), mentre la cover della “Feelin’ Stronger Every Day” dei Chicago ci riporta al big sound, potente e gigantesco ma con un ruvido sottofondo southern tra gli impasti di vocals quasi soul. “After The Way” non sai come etichettarla: southern cromato? AOR bluesy? Comunque, grandissima. Chiude “Johnny Ain’t So Cool”, FM rock ancora ispirato alle stesure più dirette di Bryan Adams (e anche di John Waite). Nel secondo CD, tre bonus track: la ballad “Looking for Juliet” e le più elettriche “Let’s Talk About Love” e “Through the Eyes of Love”. Un’altra meraviglia sbucata da un passato che ci riserverà senza dubbio ancora molte piacevoli sorprese.
Un consiglio a tutti coloro che vogliono intraprendere la carriera esentasse di critico/recensore (esentasse perché nessuno vi darà mai un soldo per recensire musica, e qualunque cosa possiate ricavarne non cadrà sotto la scure del fisco): ascoltate sempre gli album dal principio alla fine. Supporre che bastino due o tre canzoni per dare un’idea precisa dell’identità e del valore di un certo disco è un errore comune, testimoniato da tante recensioni fatte di corsa, ascoltando con un orecchio solo. Prendiamo questi norvegesi Hush ed il loro secondo album del 2001. La canzone che apre l’album, “The Restless Ones”, è un impasto fin troppo sfacciato di Journey e Bon Jovi, e a seguire, l’inutilmente lunga “Don’t Turn Around” insiste nella tecnica del ricalco fatto senza pudore, sempre ai danni dei Bon Jovi. Il recensore frettoloso, giunto a questo punto, penserà che non vale la pena sciropparsi il resto dell’album, tanto è chiaro che i vichinghi hanno un solo punto di riferimento e da quello non si schiodano, e le altre otto canzoni non possono essere che invereconde scopiazzature nello stile delle prime due track. Invece, “Till We Become the Sun” riesce, pur lavorando sulla solita matrice, più personale, grazie all’uso del pianoforte ed alle strofe d’atmosfera, mentre “Don’t Say Goodnight” torna a guardare ai Bon Jovi metallici dei primordi, con il plus di un vago smalto Scorpions nelle melodie. “Is it Good Enough” potrebbe essere un’outtake di ‘New Jersey’, “Another Girl” è diretta, elettroacustica e Springsteeniana, “Forever” è una track d’atmosfera che s’affloscia un po’ nel refrain, “Like Love”, più acustica che elettrica, scorre piuttosto anonima, molto meglio riesce “The Real Thing”, metallica e californiana, tra i Dokken e i Lion. Il meglio arriva in chiusura, con “In My Dreams”, aperta da un drumming tribale, con un riff pulsante che scandisce un ritmo galoppante, un notevole impasto di elettriche, acustiche e tastiere che guarda alle cose più western dei Bon Jovi. Al di là del suo valore come esempio di album che un recensore superficiale liquiderebbe in due battute, ‘II’ è ovviamente consigliato soprattutto a chi ama il sound codificato da Jon Bon Jovi e soci, ma ha comunque numeri sufficienti per interessare tutti.
Di questa band non so nulla oltre il curriculum dei suoi membri. Il cantante, Mervyn Spence, si aggregherà successivamente ai Purple Cross e poi ai Face Face, il tastierista Dieter Petereit ed il chitarrista Peter Weihe militarono nei Far Corporation e nella backing band di Meat Loaf ai tempi di ‘Blind Before I Stop’ (ai lavori di Weihe aggiungiamo anche Beau Heart e Ramesh). In effetti, da quanto è scritto nel booklet si potrebbe ipotizzare che una band neppure esista e che si tratti di un progetto solista di Spence, che fa riferimento a se stesso come O’Ryan, accreditandosi non solo le parti vocali, ma anche quelle di pianoforte, chitarra e basso mentre tutti gli altri sono qualificati come “additional musicians”. Singolare il fatto che Spence sia l’unico britannico coinvolto, mentre tutti gli altri additional musicians siano tedeschi (ma nel secondo album del 1995, Spence cambiò la nazionalità della sua backing band, rivolgendosi a musicisti britannici). Registrato tra la Germania e gli USA, quest’album ha un sound risolutamente AOR, a partire da “Stronger Than Love”, che suona come dei Journey all’acqua di rose ma è tutt’altro che sgradevole. Si sale più in alto con l’AOR high tech di “Reaction”, con il suo refrain pop che va a incunearsi tra i bruschi flash di chitarra e keys, e “Don't Let It Slip Away”, più Journey, caratterizzata da un sax morbido come la seta (suonato nientemeno che da Jim Horn). “Shaky Ground”, dalla ritmica nervosa, richiama i Wall of Silence per le sue sfumature r&b, sfumature che abbondano anche sulla title track, dove l’assolo è delegato al sax. “Emer May” è un bel pop rock d’atmosfera, ma “Blood Upon a Stone” è il masterpiece dell’album, con la sua grande estensione melodica e suggestioni riprese dai soliti Wall of Silence, i Refugee e John Waite. La sezione fiati che percorre “Lying Eyes” aggiunge sapore r&b ad una canzone che paga dazio nella stessa misura agli Homeymoon Suite ed a Huey Lewis, in chiusura arrivano i bei chiaroscuri di “Deeper Than the Ocean”, con i versi soffusi e l’esplosione di energia nel refrain. Insomma, tra il buon songwriting, la produzione cristallina e accurata, gli arrangiamenti sofisticati, le bellissime timbriche, ‘Something Strong’ ha molto da offrire a chi ama l’AOR di stretta osservanza anni ’80.
Sul sito web personale di Lyle Ronglien, che di questa band fu cuore e anima, è scritto che la ristampa di ‘On The Edge’ è “imminente”. Considerato che il suddetto annuncio è vecchio di circa dieci anni, credo possiamo rinunciare alle speranze di vedere mai una ristampa di questo eccellente album, destinato a rimanere una rarità discografica scambiata a prezzo tutt’altro che vile su eBay (la quotazione dovrebbe essere intorno ai 200 dollari). Dato che il prodotto è (fortunatamente) reperibile anche per vie traverse, la sua fruizione non è ristretta ad un manipolo di collezionisti danarosi: insomma, guardatevi un po’ in giro e potrete anche voi gustare le eccellenti alchimie sonore che Lyle Ronglien e la sua band misero a punto nell’ormai lontano 1990. Band in cui spiccava particolarmente la cantante, Alexandra Michele, dotata di una voce un po’ fragile ma bella ed espressiva, una sorta di Darby Mills meno teatrale che si faceva valere immediatamente nella title track, basata su riffing secco alla AC/DC, ma adorna di timbriche cromate e nobilitata da un refrain di big sound in chiaroscuro. In “You're So Cold” c’è un bel contrasto fra il riffone fragoroso ed il pulsare pop delle tastiere, con un refrain diretto ma non banale. Il sinuoso disegno di percussioni danzerecce di “I Want Your Love” si sovrappone ad un ordito di chitarre ruggenti (qui Alexandra duetta con Lyle Ronglien) mentre nella ugualmente notevole “Passion” è palese l’omaggio agli Headpins: quel tipico andamento ancheggiante, gli sprazzi di keys, il canto un po’ nevrotico, il basso rotolante, una chitarra che attraversa tagliente la canzone. Splendida la cifra melodica di “Backseat Lover” (fra gli Heart e la Pat Benatar più pop), “Heartbreaker” esplode invece nella dimensione dell’arena rock più spavaldo, potente e spettacolare, con il suo riff zeppeliniano e tastiere decisamente bombastic. Superba “Redlight Romantic”, tra chitarre fragorose e metalliche ed un refrain deliziosamente pop, la power ballad “As Roses Fall” va in crescendo tra malinconici ricami acustici e tappeti di tastiere mentre la drammatica “White Liar” richiama in causa gli Headpins, mixandoli ad una dose consistente di Autograph. Chiude lo strumentale “Bach ’N A”, in cui il buon Lyle ci dimostra quanto è bravo a fare il verso a Malmsteen e compagnia neoclassicheggiante: con tutto il resto non c’entra un beneamato cazzo, ma è chiaro che il chitarrista non ha saputo resistere alla tentazione di mettersi in bella mostra. Cos’altro resta da dire? La produzione (curata sempre da Lyle Ronglien) è potente e colorata, le timbriche calde e accattivanti e, in definitiva, ‘On The Edge’ non suona affatto come un album indie, è un prodotto di classe superiore che avrebbe meritato miglior fortuna ed una ristampa che dubito di poter mai vedere.
Se non avete mai sentito parlare di questa band, non crucciatevi: siete in buona compagnia. Quasi nessuno ha sentito parlare dei King Swamp, sono sconosciuti anche a Heavy Harmonies. Però hanno un sito web tutto loro, su cui si possono addirittura acquistare i loro tre album pubblicati tra il 1989 ed il 1990: album che valgono molto, molto più di tanto rock melodico di freschissima registrazione. Non proverò a millantare qui una lunga frequentazione con i King Swamp: come la gran parte di voi non sapevo che esistessero e li ho scoperti da pochissimo. E adesso mi preme farli conoscere ai miei lettori, perché lo scopo (più volte dichiarato) di questo sito è portare all’attenzione di chi ama l’AOR tante buone (in certi casi, molto buone) band che non hanno avuto la fortuna di salire alla ribalta. A chi mi scrive chiedendomi perché non recensisco i Boston o gli Europe, rispondo che non c’è davvero bisogno di aggiungere altro su di loro: non escludo di farlo, in assoluto, ma mi sembra molto più importante segnalare belle realtà ignorate dai più come i King Swamp che trattarne altre arcinote e su cui si può già leggere di tutto. La storia della band è riassunta sul loro sito (ecco il link: www.kingswamp.com) a cui rimando per chi vuol saperne di più riguardo precedenti e successivi lavori dei vari membri, io preferisco andare dritto alla musica dei King Swamp, musica davvero eccellente e ben allineata a quanto si faceva nell’hard melodico alla fine degli anni ’80. Il compito di aprire l’album è affidato a “Is This Love?”, che spara una melodia decisamente Autograph ma affrontata con un piglio molto Bon Jovi. A seguire c’è un eccelso funk zeppeliniano, potente e suadente nello stesso tempo, intitolato “Blown Away”, mentre “Man Behind The Gun” – scabra eppure delicata – è un fantastico melange di chiaroscuri elettroacustici. L’incalzante “Original Man” fonde alla perfezione i Rush dei tardi anni ’80 agli U2 in un big sound in cui spiccano il riff pulsante di chitarra e i suoni limpidi di tastiere. “Widders Dump”, cupa e minacciosa, sembra prendere le mosse dalla “When the Levee Breaks” zeppeliniana, servendoci un micidiale impasto elettroacustico da soundtrack di film western. Se “Year Zero” è un anthem ugualmente corrosivo e spettacolare, “The Mirror”, drammatica e tagliente, ricorda un po’ il miglior Billy Squier, mentre il lento, ipnotico crescendo di “Motherlode” precede il funky OGM di “Louisiana Bride” (immaginate i Dan Reed Network in versione voodoo blues). “The Sacrament” è una power ballad immensa, debitrice in uguale misura a Beggars & Thieves e Tall Stories, che si snoda fra acustiche, elettriche e tastiere orchestrali. In chiusura, “Glow” ripropone il clima anthemico di “Year Zero”, ma in una chiave diversa, misteriosa e d’atmosfera. Insomma, ‘King Swamp’ è una lost gem di notevole caratura, e (fortunatamente) meno lost di tanti altri gioielli di un passato musicale che sempre più appare come uno scrigno di tesori di cui siamo ancora lontani dall’intravedere il fondo.
La differenza tra album unreleased e semplici raccolte di demo a volte è marcata, altre quasi inavvertibile. E capita (di rado, ma capita) che un album abbia una resa fonica schifosa mentre dei demo suonino benissimo. Questa raccolta dei Defcon, una delle tante band dei Big 80s che non riuscirono a trovare un contratto, è fatta con il materiale di quattro diversi demo più due pezzi live, e dunque la prima cosa da mettere in chiaro è che genere di qualità audio offre. I due live sono semplicemente da buttare: inascoltabili, siamo al livello di puro frastuono e la Retrospect poteva anche fare a meno di includerli. Il resto? Variabile, molto variabile. A cominciare da “How Close”, dove i ragazzi suonano come degli Hurricane in versione AOR, e la qualità audio si può definire appena sufficiente. Migliora però su “Time Waits”, che ha come punto di riferimento piuttosto gli Whitesnake (ma è afflitta da un mixaggio un po’ sui generis, con la cassa che invece di stare al centro è tutta spostata sul canale destro). La resa fonica di “My Time To Fly” varia dal discreto al pessimo, rovinando un notevole tour de force che parte dall’atmospheric power, si arrampica su tastiere e batterie di tamburi guerrieri, chitarre che si fanno via via più potenti e metalliche diventando serrate e spettacolari in un clima orchestrale ed epicheggiante. Anche “Into the Night” (che impasta Autograph, Whitesnake e Surgin’) non dà molto in fatto di suono, decisamente meglio va con la spettacolarità pura di “Rock Me”, un favoloso arena rock da buttare giù uno stadio. Buona pure la resa fonica del party rock alla Kix intitolato “Don’t Stop The Lovin’” e discreta (nonostante il fruscio bestiale) quella del melodic metal alla Firehouse “Cold Hearted”. “All Your Love” torna all’arena rock, trascinante, fra Autograph e Alias, con una qualità audio discreta, mentre quella dello scenografico class metal “What You’re Hungry For” risulta appena accettabile. “Never Too Far Away” è una ballad opaca che forse sarebbe stato opportuno lasciare in un cassetto, non tanto per la resa fonica (non indegna, tutto sommato), ma per il mixaggio strano (c’è un basso fretless dal volume esagerato che copre tutto) e il canto che in più di un frangente è fuori tonalità, ma è il genere di cose di cui non ti preoccupi troppo se stai registrando un demo. “All Night Long” è divertente, un clima molto party, come dei Crüe in versione funk e restiamo dalle parti del Sunset Strip con l’ottima “Hard, Loud & Heavy”, delizioso mix di Ratt e Slaughter: la qualità audio è discreta sulla prima, appena sufficiente sulla seconda. I Defcon senza dubbio si sarebbero meritati un chance e questo materiale, ulteriormente lavorato da un produttore e registrato come si deve, avrebbe certo spiccato nel panorama del rock melodico di fine anni ’80: recuperarli non è stato uno sproposito.
Non userò questa recensione del recente parto di un’ottima e praticamente misconosciuta band americana come scusa per sfottere la pletora di band svedesi, finlandesi e tedesche (per tacere di quelle che vengono da Norvegia, Croazia, Spagna, Grecia, Bangladesh e chi più ne ha più ne metta) che oggi tutti si ostinano a ritenere siano “la scena” melodic rock. Scrivete quello che vi pare, pensatela come volete: io continuerò sempre a setacciare la scena Nordamericana alla ricerca di hard rock melodico di qualità superiore, che sia fatto secondo i classici canoni del genere o guardi avanti verso territori non ancora battuti. Tenetevi pure i W.E.T., coccolatevi gli Eclipse, io cerco fra Canada e USA roba che mi stuzzichi i padiglioni auricolari. E ogni tanto la trovo, come è accaduto con questi Save The World. Chi sono? Tre musicisti di professione, tanto per cominciare: non ragazzini brufolosi o vecchi ronzini sfiancati, ma membri a pieno titolo del music business che hanno unito le loro forze per suonare quello che gli piaceva (per saperne di più, ecco il link). Dodici canzoni in questo ‘One’, che chi è allergico alla monotonia made in Scandinavia e alle trombonate teutoniche non potrà che trovare entusiasmante. Da dove cominciamo? Dal principio, con “Bleed”, impostata su un bel riffing avvolgente in cui scivola una bella melodia cremosa, magari un po’ Def Leppard. Davvero notevole risulta “Comic Con”, una scheggia d’atmosfera fra tastiere e chitarre taglienti e zeppeliniane: come dei Final Frontier asciutti e meno pomp del consueto. Non mi dice molto, invece, “In Pieces”, power ballad spiccatamente moderna che precede la bella cavalcata metallica “Circus Maximus”. Altre due power ballad con “Let Love Win” (moderna e ariosa) e “This Little Pill”, questa al crocevia tra classico e moderno. Dopo la grande melodia di “I Wish” c’è il riff stile schiacciasassi di “Black Pearl”, che si muove però ad un ritmo ancheggiante che sfocia in un refrain delizioso, un po’ Autograph un po’ Def Leppard. “Cecilia Weiss” quasi la prendevo per una cover dei Beatles ed ha un piacevole assolo di sax. “Princes & Thieves” è la piece de resistence dell’album: sette minuti che alternano atmosfere epicheggianti e moderne, passando dal delicato, all’acustico al pomposo in poche battute con una chiusura in stile classic rock. “CERN” è un intro di keys a “The Light”, che chiude l’album con una ballad fra piano, acustiche e tastiere d’archi. Produzione di classe e ottima resa fonica sono le ciliegine sulla torta di un lavoro davvero rimarchevole. Insomma, i Save The World sono per me l’ennesima conferma di una certezza che nulla di quanto è mai arrivato dal Nordeuropa è riuscito a far vacillare: gli americani, il melodic rock, lo fanno meglio.
Chi è JK Northrup, dalle nostre parti lo sanno tutti e quindi non è necessario presentare il suo lungo e variegato curriculum. David Cagle è invece un illustre sconosciuto, e non solo per chi bazzica i territori del melodic rock, pare che canti professionalmente negli USA, fa jingle, sigle per radio e TV, quella roba lì: quel che conta è che si ritrova un gran bel vocione e JK non ha certo sbagliato ad associarsi a lui per questo album di bollente, elettrico hard rock melodico e metallico. Inizia benissimo con “The Night Is Mine”, fra Whitesnake e King Kobra (adorna di un bell’assolo risolto da JK tramite una teoria di stili diversi), prosegue con un notevole esercizio di riffing moderno e rotolante spezzato dalle strofe melodiche intitolato “Gone”, passa dalle parti dei Bon Jovi prima con “The Moment” (una power ballad), poi con “Can’t” (sintonizzata sulle lunghezze d’onda adottate più di recente della band di Jon). “Sting of Her Kiss” mi ricorda il materiale del primo disco con Paul Shortino, un classico metal californiano dalla melodia avvincente su un tessuto molto heavy, mentre “Another Goodbye” torna dalle parti dei Bon Jovi come pure “Honeymoon Is Over” (davvero eccellente, melodica e fascinosa). La title track, con i suoi riffoni geometrici e taglienti, è moderna ma alla maniera di Mike Slamer, “For Sure Thing” mostra belle sfumature Burning Rain, “Siren” è davvero super, funk trattato alla maniera degli Electric Boys ma con un refrain degno dei Baton Rouge. Virata verso il moderno melodico alla H.E.A.T con “Forever Starts Tonight” e chiusura affidata alla balld elettroacustica con ampio spiegamento di tastiere “Chasing Ghosts”. Detto che delle keys si occupa Eric Ragno e la sezione ritmica è formata da Larry Hart (basso) e Steve Brown (batteria), bisogna sottolineare che tutto questo eccellente materiale è stato mixato in maniera decisamente troppo rumorosa e sottoposto poi ad un mastering che risulta addirittura frastornante, rovinando in buona parte la resa di canzoni che si sarebbero meritate un trattamento tecnico più garbato e attento.
Come i miei fedeli lettori dovrebbero sapere, non ho l’abitudine di compilare classifiche di fine anno, ma ammetto che (di tanto in tanto) la tentazione di offrire se non una graduatoria, quanto meno una scrematura del meglio pubblicato nell’anno solare mi prende, e mi prese particolarmente nel 2016, quando giudicai il ritorno al rock di Lee Aaron, ‘Fire and Gasoline’, il miglior album di hard rock melodico pubblicato durante quei dodici mesi. Dopo due anni, Lee torna con un altro album fantastico che promette seriamente di occupare il posto più alto fra le uscite del 2018. Rispetto a ‘Fire and Gasoline’ c’è qualche cambiamento: una superiore resa fonica, la quasi totale scomparsa degli elementi moderni nel sound, una vena hard rock più accentuata. Si parte subito in quarta con “Diamond Baby”, con il suo riff zeppeliniano che regge un clamoroso hard melodico da stadio, poi Lee ci stupisce con una impeccabile cover di “Mistreated”, resa a tratti appena più swingante e cromata a cui segue uno straripante boogie anthemico, “American High”, meravigliosamente lubrificato dai fiati. “I’m A Woman” è un mid tempo blues, heavy, massiccio, torrido, che rotola come un macigno foderato di velluto, sexy senza volgarità o forzature ridicole stile telefono erotico. L’hard melodico robusto “Mercy” è arricchito da un efficace bridge funk, “Best Thing” è una classica power ballad, con un bellissimo tema melodico ed un arrangiamento in crescendo esemplare per varietà e finezza, la “Black Cat” di Janet Jackson viaggia qui su un riff di scuola AC/DC ed una batteria agile e boogie, sculettante e danzereccia e divertente: il top? “Hard Road” riporta ai tempi di ‘Bodyrock’ e ‘Some Girls Do', un classico metal californiano, mentre “In The Bedroom” riprende le atmosfere scanzonate e boogie di “Black Cat” con un’architettura vagamente moderna. “Cut Way Back” è uno slow blues notturno e incandescente, con tanto di chitarra slide, il superclassico (coverizzato innumerevoli volte, la versione più celebre resta quella incisa da Linda Rostadt) “You’re No Good” risulta splendidamente soul ma sempre vigorosamente rock e in chiusura arriva un’altra cover, la classica “My Babe” di Little Walter, in una versione indiavolata e rock’n’roll. Insomma: ‘Diamond Baby Blues’ è già uno dei dischi dell’anno.
Poco si sa e ancora meno si parla di questa eccellente band canadese con due album all’attivo: il primo pubblicato nel 1990, l’ultimo nel ’92, entrambi per una indie locale. Eppure meriterebbero attenzione, soprattutto da parte di chi ama quell’hard rock melodicamente trasversale con cui ci deliziarono Neverland, Tall Stories e Beggars & Thieves. L’apertura, affidata a “Counting on You”, non è particolarmente avventurosa, ricordando i Bon Jovi pre ‘Slippery…’, e sulla stessa strada si incammina “Turn to You” ma già con “Sally” i fantasmi dei Neverland prendono nettamente corpo su un telaio di acustiche zeppeliniane luminose e arcane su cui ricamano le chitarre elettriche in un crescendo che muta il registro della canzone dal delicato al potente. Elettroacustica anche “Silence Leaves”, con qualche suggestione alla Mitch Malloy, via via sempre più drammatica e vigorosa, mentre “Shanghai” è basata su un bel riffing croccante e serrato che procede su un lontano sfondo di organo Hammond con un refrain semplice e diretto per un metal californiano un po’ sui generis. “Empty House” è una power ballad molto Guns N’Roses, col suo tappeto acustico su cui irrompono le elettriche e l’assolo di pianoforte, molto più heavy “Enough Love”, dal riffeggiare metallico, un Hammond più presente e le solite suggestioni Neverland che impregnano anche “Never See Me Cry”, di nuovo una power ballad, mentre fra i chiaroscuri di “I Run Away” si aggirano anche i mai abbastanza lodati Beggars & Thieves. Il top assoluto in chiusura, con “One Life”: acustiche, elettriche e Hammond che si intrecciano magicamente disegnando un quadro nello stesso tempo ipnotico e drammatico, completato da due begli assoli di sax. Non è facilissimo da trovare ma viene offerto tra eBay e Amazon a prezzo di saldo (alla data in cui scrivo, c’è un tizio dell’Illinois che lo vende a sei euro su eBay) e se le band citate sono tra le vostre predilette, farci almeno un pensierino.
Il mio atteggiamento verso gli album unreleased in principio oscillava regolarmente tra il sospettoso e lo scettico, ma la messe di prodotti davvero strepitosi che ha inondato il mercato negli ultimi anni lo ha temperato alquanto. Quando capita poi di imbattersi in album pazzeschi come questo unreleased degli Youngblood, la tentazione di smettere di seguire le uscite attuali e concentrare l’attenzione esclusivamente su tutto ciò che viene estratto dagli archivi diventa quasi irresistibile. Inutile domandarsi perché un lavoro di tale caratura non sia stato edito quando il pubblico era ancora ben disposto verso il nostro genere, limitiamoci a godere queste sedici, favolose canzoni registrate nel 1989 sotto l’egida addirittura della Epic. Produzione, songwriting, resa fonica, sono ai massimi livelli, qui tutto urla “Big 80s” a squarciagola e gli Youngblood si presentano come una sintesi perfetta di tutto ciò che ha reso magici i Firehouse del primo album e gli Steelheart, ma senza ricalchi sfacciati e con una personalità che avrebbe potuto portare questa band a risultati ancora più clamorosi: già la opener “Pump It Up” è un masterpiece, un party anthem esemplare completato da un pizzico del tipico kitch stile Queen nelle linee vocali, e a seguire, “Love Is All Around” aggiunge al mix sfumature Van Halen era Roth, mentre “Sock It To Me” si basa su un impasto elettrico/acustico indiavolato, con divertenti tocchi bluesy e country, ed un’atmosfera molto Slaughter. E poi: l’arena rock dai riffoni d’acciaio di “Get Down To It”, l’hard’n’roll veloce e divertente “Shot Of You”, i tamburi guerreschi che fanno da intro a “Heat of the Passion”… Ogni canzone ha un’identità, qualche particolare che la caratterizza: nel caso di “Save Your Lies” è il pianoforte che diventa protagonista (e quel flavour r&b è magistrale), mentre è il riff pulsante che contrassegna “Feel Thang” (di nuovo arena rock, stavolta con qualcosa dei Motley Crue). “Find a Way”, elettroacustica, suona come il prodotto di Guns N’ Roses più patinati di quelli a cui siamo adusi, i fiati che impazzano rendono la splendida “Taste Of Your Lovin’” swingante e lunatica, ma “Back in My Life” è semplicemente strepitosa, aperta da tastiere programmate col sequencer che lasciano spazio a chitarre taglienti e dondolanti su una ritmica agile e quasi danzereccia. La ballatona di rigore si intitola “Coming Home”: parte con pianoforte e tastiere d’archi, a metà entra tutta la band, e con notevole vigore, per un risultato generale fra Queen e Scorpions: buona, ma un pelo sotto il resto. Anche l’elettroacustica “My One and Only” è una ballad, di quelle che gli Steelheart degli anni d’oro avrebbero firmato con orgoglio, con “Don’t Play With My Head” siamo a spasso sul Sunset Strip, metal californiano decisamente Firehouse, ma con un refrain leggero decisamente Autograph. C’è molto dei Van Halen nella indiavolata e un po’ folle “You’ve Gotta Go”, mentre “I Love You” chiude l’album con impasti vocali nello stile dei Mr. Big di “To Be With You” Tirando le somme: arrangiamenti curati allo spasimo e fantasiosi, chitarrismo brillante, produzione stellare, cantante perfetto (acuto ma con una notevole estensione, espressivo e potente), canzoni sempre brevi e compatte… Capolavoro? Ascoltato oggi suona strabiliante, se fosse uscito trent’anni fa, quando gli standard a cui eravamo abituati si erano fatti altissimi, forse lo avremmo considerato “solo” un altro album di hard melodico e class metal made in L.A….
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