HARD BLUES DEPARTMENT

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HEART

 

 

  • JUPITERS DARLING (2004)

Etichetta:Sovereign Artists Reperibilità:buona

 

Non si può dire che la puntualità sia la prima dote del webmaster di questo sito. I dischi “nuovi”, quando si prende la briga di scriverne, li recensisce magari due o tre anni dopo l’uscita... Prendiamo quest’album, ad esempio. Dopo averlo ascoltato, anziché illustrarlo in tutta la sua magnificenza si mise a scrivere il pezzo che copriva la discografia della band per gli anni che vanno dal 1985 al 1993...

Jupiters Darling’ è arrivato veramente a sorpresa, dopo la bellezza di undici anni dal loro ultimo disco di studio, ‘Desire walks on’, quando sembrava che il moniker fosse stato definitivamente accantonato a favore di carriere soliste tiepide e portate avanti in maniera saltuaria e poco convinta. Chiuso lo studio di loro proprietà a Seattle, Nancy diventata madre, pareva davvero che le sorelle Wilson (complice anche la non più tanto verde età) si stessero preparando per la pensione nella classica casetta in Florida. Invece, le ragazze rifondano la band (che oggi vede assieme alle sorelle Wilson, Craig Bartock alle chitarre, Darian Sahanaja alle tastiere, Ben Smith dietro i tamburi e l’ormai fedelissimo ex Alice In Chains Mike Inez al basso), registrano un disco e prendono a scorrazzare per gli States con un tour praticamente interminabile. Cristo, vorrei averla io l’energia di queste due signore ormai over 50...

Ma ‘Jupiters Darling’, com’è? Un lavoro per fans sfegatati come il sottoscritto o qualcosa di fruibile in senso più generale? A me, sembra semplicemente un gran disco. Lontano dall’AOR ottantiano, molto vicino – almeno nell’atmosfera – a quanto fatto negli anni 70, ai tempi di ‘Dog and Butterfly’ e ‘Little queen’: non a caso compare nell’HARD BLUES DEPARTMENT. Hard rock dalla forte impronta zeppeliniana, ricco di intermezzi acustici ma elettrico in una maniera veemente e convinta, e questo è davvero sorprendente dopo i Lovemongers ed i live unplunged. Quattordici canzoni prodotte e registrate in proprio, (perché neppure agli Heart le majors americane offrono ormai uno straccio di contratto) con professionalità e competenza. E poi, la ciliegina sulla torta, anzi le ciliegine, perché le voci di Ann e Nancy sono sempre, miracolosamente integre, il tempo non ha scalfito neanche un po’ quelle ugole magnifiche, ricca e fascinosa quella di Ann, acuta e fragile quella di Nancy. Stupisce la freschezza del songwriting, la bellezza delle melodie, la raffinatezza degli arrangiamenti, la compattezza del disco, sedici canzoni ma meno di un’ora di durata, si entra al ritmo di “Make me”, come un invito perentorio fatto dalla voce di Ann: Make me high / make me low / Make it stop / Or come on / Let the damn thing go... un grande rock zeppeliniano che sboccia dopo un intro acustico, sognante, un po’ blues un po’ folk, quel refrain dal flavour inconfondibile; l’atmosfera si fa più elettrica su “Oldest story in the world”, un altro ritornello squisito che si adagia su un riff funk abrasivo come carta vetrata. Nancy prende il microfono per “Thing”, il primo folk acustico (ma una slide elettrica lo percorre in sottofondo come una trama di luce metallica), Ann torna su “Perfect Goodbye”, una bella melodia elettrica dall’atmosfera intensamente settantiana, “Enough” è una ballad robusta, piena di riverberi ed echi, un po’ misteriosa, “Move on” sono i tempi nuovi nell’interpretazione delle sorelle Wilson, chitarre a manetta, riffone spezzato, ma la melodia si incunea in maniera vincente anche fra questi muri elettrici e si fa perdonare anche la voce leggermente filtrata. Nancy canta un altro delizioso folk acustico (qualche sfumatura country?), “I need the rain”, poi Ann entra sul riff singhiozzante e cadenzato di “I give up” per regalarci l’ennesimo refrain memorabile (che bello quel bridge così funk). “Vainglorious” percorre le rotte più pesanti del dirigibile di Jimmy Page, “No other love” è una ballad con gran spiegamento d’archi (magari un pelo troppo pomposa?), ma “Led to one” torna sulla rotta zeppeliniana, quella più suadente e bucolica (mai sentito Nancy planteggiare così sfacciatamente...). “Down the Nile”: Dio mio, che blues... lento, fangoso, solo Ann sa cantare in modo così raffinatamente sensuale, ti sembra quasi di sentire il suo alito che ti solletica le orecchie, scendi il fiume con me, baby... La voce di Nancy ci riporta sulla terra con “I’m fine”, di nuovo un funk graffiante che si scioglie nel refrain in una splendente linea melodica. “Fallen ones” è ancora un gran riff zeppeliniano su cui va a posarsi un magnifico refrain e poi un’altra grande ballad, “Lost angel”, accorata, ricamata di chiaroscuri, un crescendo emozionante in cui viene incastonato l’ennesimo tributo al dirigibile sotto forma di un bridge variopinto. “Hello moonglow”: Nancy canta una melodia semplice solo in apparenza, le voci delle sorelle si intrecciano, si fondono, quasi un canto a cappella, tutto molto classico, tradizionale e il disco è finito, è la track numero sedici, niente brani nascosti, regali dell’ultimo momento, pazienza, magari sarà per la prossima, Dio voglia che una prossima volta ci sia, perché del rock degli Heart non ne avremo mai a sufficienza.

 

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OUTLAW BLOOD

 

 

  • OUTLAW BLOOD (1991)

Etichetta:ATCO Reperibilità:scarsa

 

Il periodo storico che va dal 1981 al 1993 rappresenta per il nostro genere l’Età dell’Oro. L’AOR era il rock che andava per la maggiore, occupava stabilmente i primi posti della classifica di Billboard e le etichette discografiche grandi e piccole lo sostenevano amorevolmente, certe di poter avere un rientro economico anche nel caso di esordienti allo sbaraglio gettati nella fossa dei leoni senza il cuscinetto protettivo di una promozione adeguata. Ogni settimana, ondate di album alluvionavano i negozi, cento bands si formavano ed altrettante si scioglievano, negli studi di registrazione si lavorava a ciclo continuo incidendo dischi su dischi. Erano tanti, forse erano addirittura troppi (quanti sono stati pubblicati a distanza di anni ed anni, quanti aspettano ancora di vedere la luce?). I criteri di valutazione del prodotto si erano talmente raffinati, era tale la qualità media delle produzioni discografiche che si faceva oggettivamente fatica ad apprezzare bands che non sfornavano l’ennesimo lavoro da dieci e lode ma solo uno da nove o magari sette e mezzo. Il grande pubblico poteva permettersi di accantonare act come Survivor, Quiet Riot o White Lion senz’altra giustificazione che dedicarsi alla next big thing sbandierata dalla major di turno come ineguagliabile ed inarrivabile. In questo contesto, è chiaro che certe realtà siano passate completamente inosservate e che i loro dischi abbiano ricevuto consensi solo miti da parte di recensori storditi e/o distratti. Wild Horses, Haywire, McQueen Street, Southgang, Outlaw Blood sono solo una minima parte dei nomi iscritti senza troppe incertezze dai critici nella lista delle comparse in una scena che sembrava degna di accogliere soltanto protagonisti assoluti. Ma adesso, dopo tanti anni, alla musica di queste bands possiamo avvicinarci con molta più lucidità: l’ubriacatura è finita, ed a riesaminare i gruppi considerati a torto o a ragione “minori” (le virgolette sono più che mai d’obbligo) non deve muoverci la speranza di scovare l’ennesima lost gem né la necessità di cercare conferme negative alla prima impressione – magari rigirando sadicamente il coltello nella piaga – e neppure l’impulso iconoclasta di abbattere l’edificio delle opinioni consolidate ma piuttosto la necessità di collocare quei monicker nella dimensione più corretta. Oggi che non siamo più distratti da una valanga di novità autentiche, sopratutto di capolavori epocali, possiamo dedicarci con calma a ciò che un tempo era stato accantonato dopo un ascolto frettoloso.

Prendiamo questi Outlaw Blood. Meritavano di essere liquidati in una recensione di un paio di righe, come fece a suo tempo un noto magazine nazionale? Sulla carta, già la produzione ed il consistente contributo al songwriting di un pezzo grosso come Jeff Paris avrebbe dovuto far rizzare le orecchie. Quando poi andiamo a leggere la formazione e scopriamo che questa è stata la prima band di Marti Fredericksen, che avrebbe successivamente conquistato onori e gloria (meritati) prima con i Brother Cane poi come songwriter lavorando – tra gli altri – per gli Aerosmith, il sospetto che qualcosa possa esserci sfuggito prende sempre più sinistramente corpo...

Come accade spesso per le bands minori, degli Outlaw Blood si sa poco o nulla, dove e perché sono nati, i cambi di line up eccetera. Solo un altro gruppo di ragazzoni in cerca di gloria nella dorata Los Angeles di fine anni 80, e può bastarci. Quello che conta è la musica, la musica che esce dal CD (della loro qualità come live act non può chiaramente fregarci più di tanto). Notiamo solo, en passant, che questo disco usciva per la Atlantic, o meglio, per la filiale rock dell’etichetta, la ATCO, che in quegli anni sembrava non avere altra politica che mettere sotto contratto il maggior numero possibile di hard rock bands, far loro registrare un album e poi licenziarle. Le canzoni sono undici, sei portano anche la firma di Jeff Paris, ed una di queste, “Last act”, Jeff se la reinciderà in proprio sul suo penultimo disco solista, ‘Smack’, le altre sono scritte da Marti Fredericksen (che si occupava della chitarra ritmica) e dal cantante Marc McCoy (ma Marti gli toglie il microfono su due canzoni). Il resto della band era composto da Rich Harchol (chitarra solista), Larry Aberman (batteria) e Nick Parise (basso). Di tastiere e produzione si occupava Jeff Paris, e la sua influenza negli arrangiamenti è palese anche sulle canzoni che non portano la sua firma. “Tower of love” apre il disco con un piacevole innesto Cinderella – Def Leppard, ma “Body and soul” è puro Jeff Paris sound appena sporcato di blues, mentre “Last act” è un grande blues anthem condotto da una slide serpeggiante (la versione che Jeff registrerà per ‘Smack’ risulterà più scarna ed elettrica, l’arrangiamento un po’ più essenziale), e “Sink my teeth” un altro bell’hard bluesato, più diretto, in bilico tra Jetboy e Faster Pussycat. “Every day I die” è la power ballad, in cui le atmosfere care a Jeff Paris sono stemperate in un’atmosfera che ricorda di nuovo i Cinderella, mentre “Soul revival” chiama in causa i Tesla, o almeno una loro ipotetica versione più melodica e cromata. “I’m n shock” è cantata da Marti Frederiksen, che ha una voce decisamente rauca e potente (mentre McCoy è una specie di incrocio tra Jamie St.James, Joe Leste e Phil Lewis: si esprime con un timbro accattivante e vizioso ma manca un po’ di volume): canzone bella tosta e cadenzata, mi fa venire in mente tante bands: Motley Crue, Bang Tango, Cult, Beggars & Thieves... Marti torna anche su “Slave to love”, nettamente Tesla, quelli più root, con una slide a guidare le danze ed il piano a rifinire. “Red, hot ’n’ blue” e “Fall thru the cracks” sono figlie illegittime dei Bang Tango meno funky, più sensuale e notturna la prima, più glam e anthemica la seconda. “Hollywood Babylon” è il sigillo finale, veloce e potente. In conclusione: non solo gli Outlaw Blood non sbandano (e con la mano ferma di Jeff Paris a guidarli, supporlo era quanto meno azzardato) ma mettono a segno un colpo dietro l’altro con classe, competenza ed eleganza. Difettano un po’ di personalità, questo è innegabile, ma il songwriting – pur restando in territori familiari – è di altissimo livello. Basta tutto questo a fare del loro unico album una lost gem? Per me, sì. Ma, per carità, non facciamolo sapere in giro. Su ebay, questo disco tanto stupidamente snobbato dai cultori dell’hard ottantiano di ieri e di oggi si può trovare senza problemi in vendita a uno o due dollari. A buon intenditor...

 

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JETBOY

 

 

  • DAMNED NATION (1990)

Etichetta:MCA Reperibilità:scarsa

 

Nella recensione dell’unico, magnifico disco dei Cold Sweat, sottolineavo il ruolo che il benevolo sguardo della dea bendata ha nelle sorti delle rock bands, enunciando il principio che la fortuna (altrimenti detta “mazzo”) conta per una percentuale rilevante e addirittura prevalente nella scalata al successo. Ma, certe volte, non è soltanto questione di sedere. C’entra anche il momento giusto: cogliere l’attimo fuggente, l’istante magico, irripetibile. Arrivare prima o dopo non serve: bisogna esserci proprio in quel momento. Altrimenti...

I Jetboy sono un esempio lampante di ciò che può accadere quando non si può o non si sa cogliere quel momento fatale. Oggi ben pochi si ricordano di loro, ma furono gli autentici prime movers della scena street metal. Cominciarono ad esibirsi fin dal 1984, diventando in breve un’attrazione fissa nei club di Los Angeles, dove future superstars come Poison, Guns N’Roses ed L.A.Guns dovevano adattarsi a fargli da supporter. Nel 1986, finalmente l’Elektra si accorse di loro e li mise sotto contratto, e cominciò la via crucis. Registrarono l’esordio, ‘Feel the shake’, sotto la guida del grande Tom Allom, il disco doveva uscire nel gennaio del 1988, ma a dicembre del 1987, la Elektra (forse perché non soddisfatta del disco, forse per qualche assurdo calcolo da calciomercato del tipo: dobbiamo sfoltire un po’ la rosa) licenziò la band. Si fece subito avanti la WEA (quello dei Jetboy era un nome pesante, non dimentichiamolo), che voleva prenderli nella propria scuderia, ma anche registrare da capo il disco. Giustamente, la band si oppose, di tempo se ne stava sprecando già abbastanza, ma la WEA fu irremovibile, ed alla fine i Jetboy firmarono per la MCA, che rilevò il master di ‘Feel the shake’ dalla Elektra e lo rimixò, pubblicandolo nell’ottobre del 1988. Bene, erano passati la bellezza di dieci mesi dall’annuncio, il primo treno dello street metal era già partito e loro non erano a bordo. La Elektra, a suo tempo, s’era fatta in quattro per promuoverli, ma il maledetto disco, dov’era? Il polverone alzato attorno a loro non aveva basi, tutti parlavano dei Jetboy, ma non c’era materiale sonoro da dare in pasto al pubblico, e quando questo finalmente arrivò, tutto l’interesse era galvanizzato da Guns N’Roses, L.A.Guns e Faster Pussycat. Per somma ironia, i Jetboy fecero la figura degli ultimi arrivati, di quelli che s’erano accodati al carrozzone dei vincenti... Registrarono questo ‘Damned nation’ nel 1990, vivacchiando fino a che si sciolsero l’anno successivo fra l’indifferenza generale.

Che meritassero molta più attenzione di quanta gliene venne rivolta è provato da due dischi fenomenali, completati di recente da ben quattro raccolte di demo ed alternate takes pubblicate fra il 1998 ed il 2001 dalla Perris e dalla Deadline. Il primo album era un superbo trattato di street rock urbano, largamente debitore dello spirito degli Hanoi Rocks, e non certo a caso, dato che il bassista dei Jetboy era un certo Sam Yaffa... Pare addirittura che la ristampa integrale della discografia della band finlandese ed i primi lavori post - Hanoi di Michael Monroe, Nasty Suicide (gli scarsi Cheap & Nasty) e Andy McCoy siano stati patrocinati proprio dal manager dei Jetboy. Con ‘Damned nation’, però, la band decideva di muoversi in una direzione leggermente diversa, più hardrockeggiante e bluesy, la produzione passava nelle mani della premiata ditta John Purdell & Duane Baron, il singer Mickey Finn rinunciava a quella pettinatura alla mohicano che rischiava sempre di far passare i Jetboy per una punk band e, insomma, i Jetboy provavano ad uscire da uno steccato che ormai cominciava ad andargli stretto (anche perché sembrava che i Guns’N’Roses, di quell’area chiamata “street rock”, fossero ormai i dominatori assoluti ed imbattibili).

Il pulsare del basso di Sam Yaffa apre il disco introducendo “Stomp it (down to the bricks)”, basata su un bel riff di scuola AC/DC su cui Mickey canta un ritornello che riesce ad essere sleaze e anthemico nello stesso tempo. “Moonlight  e “Groove tube” parlano la stessa lingua dei Mötley Crüe, ma con accenti più funky, melodici e glam nella prima, mentre sulla seconda spicca il refrain convulso e punkeggiante. Cambio di scena per “Heavy chevy”, un grande hard blues lento e pesante, cadenzato e notturno. “Too late” è la power ballad di rigore, divisa tra elettrico e acustico con suggestivi echi root, ma “Evil” torna filata in territori blues e rhythm and blues, regalando un refrain irresistibile, mentre “Trouble comes” è un hard secco e melodico dal ritornello scanzonato. “Bullfrog pond” ha un intro country, poi entrano le chitarre slide, un riffone ondeggiante che scivola in un altro riff diretto e a martello disegnando un boogie metallico, ironico e divertito (il coro fa: Andare giù allo stagno delle rane / a fumare buffe erbacce verdi con il figlio del fattore...) spezzato da un assolo (ovviamente) di slide guitar. Ancora un heavy rock pesante e tirato con “Ready to rumble” e si finisce alla grande con “Rock n’ roller”, un grande hard blues aerosmithiano, molto glam, con tanto di fiati e armonica, uno splendido assolo di chitarra slide e Mikey Finn che si produce in una divertente imitazione di Elvis Presley, il rock’n’roller per antonomasia... C’è da mettere in conto anche “Jam”, una trentina di secondi scarsi di slide e armonica che chiudono un album vario, vigoroso e intenso che pochi si presero il disturbo di ascoltare perché in un momento storico in cui non veniva perdonato un attimo di esitazione sulla linea dello start, i Jetboy erano partiti clamorosamente tardi: se era condannato chi perdeva un secondo, che destino poteva attendere chi era rimasto fermo al palo per dieci mesi?

 

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GREAT WHITE

 

 

  • BACK TO THE RHYTHM (2007)

Etichetta:Shrapnel/Frontiers Reperibilità:in commercio

 

L’uscita di ‘Back to the rhythm’ arriva inaspettata, perché anche i Great White parevano, come tanti altri act di non verdissima età, non più interessati a registrare nuovo materiale. La band ne ha passate di cotte e di crude: innumerevoli cambi di formazione e sopratutto quel tragico episodio nel club di West Warwick, l’incendio e il triste primato delle vittime per un concerto rock (una vicenda che ha persino ispirato un episodio della serie di telefilm Law and Order,  andato in onda su RAI 2 non molto tempo fa: e voglio sottolineare la parola “ispirato”, perché i fatti sono completamente diversi dalla storia che gli sceneggiatori hanno scritto per la TV, piena di luoghi comuni sui musicisti dell’hard rock e ben poco rispettosa della verità e potenzialmente lesiva dell’immagine di persone che non hanno mai avuto alcuna responsabilità diretta in ciò che è accaduto, come l’indagine giudiziaria vera ha appurato oltre qualsiasi dubbio, e se volete saperne di più, vi offro qui un  link). Lo squalo bianco non si è però lasciato abbattere dalle avversità, è tornato in formazione più o meno originale (al basso c’è sempre Sean McNabb, ma questo ruolo è stato piuttosto ballerino fin dal principio), e ci regala finalmente un successore a ‘Can’t get there from here’, che era uscito nel 1999, la bellezza di nove anni fa. ‘Can’t...’ era un ottimo disco, meno aggressivo dello splendente ‘Let it rock’ (l’album meglio prodotto assieme a ‘Psycho city’ e con una continuità nel songwriting quasi alla pari con ‘Once bitten’ e ‘Twice shy’) ma lontano dalle tentazioni acustiche di ‘Sail away’, entusiasmante in più di un episodio ( “Rollin’ Stoned”, la strepitosa “Wooden Jesus”, il blues “Loveless age”, la squisita ballad “Sister Mary”). E’ vero che la produzione di Jack Blades dava qua e là un certo smalto alla Night Ranger al suono e che c’era un indeciso tentativo di fare i moderni con la orrenda “Psychedelic hurricane” (la quale faceva quasi il paio con la però molto più gradevole “My world” che apriva ‘Let it rock’, ed entrambe portavano il sigillo – come coproduttore o autore – di un sempre più impenetrabile Don Dokken) ma l’identità della band rimaneva comunque ben salda. Su ‘Back to the rhythm’ dietro il banco del mixer torna a sedere Michael Lardie (sempre da solo, senza l’ormai perduto Alan Niven), mentre Jack Blades limita il proprio apporto al songwriting.

Rispetto a ‘Can’t...’, il nuovo album risulta un po’ più elettrico ed anche stavolta le strizzate d’occhio al rock contemporaneo si limitano ad una sola canzone. La qualità audio, nei primi tre o quattro pezzi non è gran ché ma migliora via via che il disco procede. Qualcuno l’ha definita da “demo di lusso”, a me pare piuttosto che vengano penalizzate sopratutto le timbriche delle chitarre, questi dischi registrati in economia nell’era del digitale hanno un suono strano: fruscio inesistente ed un sound quasi “appannato”, opaco, limaccioso. Non so se la band abbia pagato l’incisione di tasca propria, comunque sia andata si poteva fare di meglio e di più per la resa fonica, ma…

Con ‘Back to the rhythm’ pare quasi che i Great White abbiano voluto fare un riassunto della loro carriera, esprimendosi lungo tutto lo spettro del loro sound di ieri e dell’altro ieri, dal rock blues metallizzato era ‘Once bitten’ (la title track e “Still hungry”, la prima un po’ cupa, la seconda più martellante e in linea con gli stilemi del metal californiano), a quei blues levigati divisi tra piano e chitarra ( “Was it the night”, con un coro che però ricalca fin troppo quello di “Maybe someday”, da ‘Psycho city’), dall’hard rock zeppeliniano (“Take me down”, con un riff che rotola lento e imponente) al boogie (“Standin’ on the edge”, contemporaneamente ruvido e melodico). “Neighborhood” è un hard blueseggiante, secco e lugubre che mi dice veramente poco, “Cold world” è impostata su un riff minimale, ha un assolo pieno di dissonanze, è un altro tentativo di trapiantare le loro atmosfere nel tessuto glaciale di certo rock contemporaneo: non spiacevole in assoluto, ma il frutto di questo innesto resta comunque poco digeribile. Le ballad sono ben cinque, con la sola “Here goes my head again” decisamente sul power, le altre più morbide ma sempre grandissime, da “Play on”, con un bell’impasto di chitarre acustiche, elettriche e tastiere, a “I’m alive”, più umbratile, da “How far is heaven”, leggiadra e intensa, con un bellissimo assolo di Mark Kendall, al sigillo finale, “Just yesterday”, semplice  e struggente.

Per la band i tempi del good time rock’n’roll sembrano passati, le atmosfere di ‘Back to the rhythm’ sono tutt’altro che festanti e spensierate, saranno le brutte avventure, sarà l’età (leggete il testo di “Just yesterday”), ma la band – stavolta, almeno – ha deciso di disertare i party, dandoci un disco introverso e malinconico. Non mi pare il biglietto migliore per entrare nel mondo dei Great White, quest’album, che vedo come un lavoro – anche in virtù della non esaltante qualità audio –  rigorosamente only for fans.