Non
si può dire che la puntualità sia la prima dote del webmaster di
questo sito. I dischi “nuovi”, quando si prende la briga di
scriverne, li recensisce magari due o tre anni dopo l’uscita...
Prendiamo quest’album, ad esempio. Dopo averlo ascoltato, anziché
illustrarlo in tutta la sua magnificenza si mise a scrivere il pezzo
che copriva la discografia della band per gli anni che vanno dal
1985 al 1993... ‘Jupiters
Darling’ è arrivato veramente a sorpresa, dopo la bellezza
di undici anni dal loro ultimo disco di studio, ‘Desire
walks on’, quando sembrava che il moniker fosse stato
definitivamente accantonato a favore di carriere soliste tiepide e
portate avanti in maniera saltuaria e poco convinta. Chiuso lo
studio di loro proprietà a Seattle, Nancy diventata madre, pareva
davvero che le sorelle Wilson (complice anche la non più tanto
verde età) si stessero preparando per la pensione nella classica
casetta in Florida. Invece, le ragazze rifondano la band (che oggi
vede assieme alle sorelle Wilson, Craig Bartock alle chitarre,
Darian Sahanaja alle tastiere, Ben Smith dietro i tamburi e
l’ormai fedelissimo ex Alice In Chains Mike Inez al basso),
registrano un disco e prendono a scorrazzare per gli States con un
tour praticamente interminabile. Cristo, vorrei averla io
l’energia di queste due signore ormai over 50... Ma ‘Jupiters Darling’, com’è? Un lavoro per fans sfegatati come il sottoscritto o qualcosa di fruibile in senso più generale? A me, sembra semplicemente un gran disco. Lontano dall’AOR ottantiano, molto vicino – almeno nell’atmosfera – a quanto fatto negli anni 70, ai tempi di ‘Dog and Butterfly’ e ‘Little queen’: non a caso compare nell’HARD BLUES DEPARTMENT. Hard rock dalla forte impronta zeppeliniana, ricco di intermezzi acustici ma elettrico in una maniera veemente e convinta, e questo è davvero sorprendente dopo i Lovemongers ed i live unplunged. Quattordici canzoni prodotte e registrate in proprio, (perché neppure agli Heart le majors americane offrono ormai uno straccio di contratto) con professionalità e competenza. E poi, la ciliegina sulla torta, anzi le ciliegine, perché le voci di Ann e Nancy sono sempre, miracolosamente integre, il tempo non ha scalfito neanche un po’ quelle ugole magnifiche, ricca e fascinosa quella di Ann, acuta e fragile quella di Nancy. Stupisce la freschezza del songwriting, la bellezza delle melodie, la raffinatezza degli arrangiamenti, la compattezza del disco, sedici canzoni ma meno di un’ora di durata, si entra al ritmo di “Make me”, come un invito perentorio fatto dalla voce di Ann: Make me high / make me low / Make it stop / Or come on / Let the damn thing go... un grande rock zeppeliniano che sboccia dopo un intro acustico, sognante, un po’ blues un po’ folk, quel refrain dal flavour inconfondibile; l’atmosfera si fa più elettrica su “Oldest story in the world”, un altro ritornello squisito che si adagia su un riff funk abrasivo come carta vetrata. Nancy prende il microfono per “Thing”, il primo folk acustico (ma una slide elettrica lo percorre in sottofondo come una trama di luce metallica), Ann torna su “Perfect Goodbye”, una bella melodia elettrica dall’atmosfera intensamente settantiana, “Enough” è una ballad robusta, piena di riverberi ed echi, un po’ misteriosa, “Move on” sono i tempi nuovi nell’interpretazione delle sorelle Wilson, chitarre a manetta, riffone spezzato, ma la melodia si incunea in maniera vincente anche fra questi muri elettrici e si fa perdonare anche la voce leggermente filtrata. Nancy canta un altro delizioso folk acustico (qualche sfumatura country?), “I need the rain”, poi Ann entra sul riff singhiozzante e cadenzato di “I give up” per regalarci l’ennesimo refrain memorabile (che bello quel bridge così funk). “Vainglorious” percorre le rotte più pesanti del dirigibile di Jimmy Page, “No other love” è una ballad con gran spiegamento d’archi (magari un pelo troppo pomposa?), ma “Led to one” torna sulla rotta zeppeliniana, quella più suadente e bucolica (mai sentito Nancy planteggiare così sfacciatamente...). “Down the Nile”: Dio mio, che blues... lento, fangoso, solo Ann sa cantare in modo così raffinatamente sensuale, ti sembra quasi di sentire il suo alito che ti solletica le orecchie, scendi il fiume con me, baby... La voce di Nancy ci riporta sulla terra con “I’m fine”, di nuovo un funk graffiante che si scioglie nel refrain in una splendente linea melodica. “Fallen ones” è ancora un gran riff zeppeliniano su cui va a posarsi un magnifico refrain e poi un’altra grande ballad, “Lost angel”, accorata, ricamata di chiaroscuri, un crescendo emozionante in cui viene incastonato l’ennesimo tributo al dirigibile sotto forma di un bridge variopinto. “Hello moonglow”: Nancy canta una melodia semplice solo in apparenza, le voci delle sorelle si intrecciano, si fondono, quasi un canto a cappella, tutto molto classico, tradizionale e il disco è finito, è la track numero sedici, niente brani nascosti, regali dell’ultimo momento, pazienza, magari sarà per la prossima, Dio voglia che una prossima volta ci sia, perché del rock degli Heart non ne avremo mai a sufficienza.
Il periodo storico che va dal 1981
al 1993 rappresenta per il nostro genere l’Età dell’Oro. L’AOR
era il rock che andava per la maggiore, occupava stabilmente i primi
posti della classifica di Billboard e le etichette discografiche
grandi e piccole lo sostenevano amorevolmente, certe di poter avere
un rientro economico anche nel caso di esordienti allo sbaraglio
gettati nella fossa dei leoni senza il cuscinetto protettivo di una
promozione adeguata. Ogni settimana, ondate di album alluvionavano i
negozi, cento bands si formavano ed altrettante si scioglievano,
negli studi di registrazione si lavorava a ciclo continuo incidendo
dischi su dischi. Erano tanti, forse erano addirittura troppi
(quanti sono stati pubblicati a distanza di anni ed anni, quanti
aspettano ancora di vedere la luce?). I criteri di valutazione del
prodotto si erano talmente raffinati, era tale la qualità media
delle produzioni discografiche che si faceva oggettivamente fatica
ad apprezzare bands che non sfornavano l’ennesimo lavoro da dieci
e lode ma solo uno da nove o magari sette e mezzo. Il grande
pubblico poteva permettersi di accantonare act come Survivor, Quiet
Riot o White Lion senz’altra giustificazione che dedicarsi alla next big thing sbandierata dalla major di turno come ineguagliabile
ed inarrivabile. In questo contesto, è chiaro che certe realtà
siano passate completamente inosservate e che i loro dischi abbiano
ricevuto consensi solo miti da parte di recensori storditi e/o
distratti. Wild Horses, Haywire, McQueen Street, Southgang, Outlaw
Blood sono solo una minima parte dei nomi iscritti senza troppe
incertezze dai critici nella lista delle comparse in una scena che
sembrava degna di accogliere soltanto protagonisti assoluti. Ma
adesso, dopo tanti anni, alla musica di queste bands possiamo
avvicinarci con molta più lucidità: l’ubriacatura è finita, ed
a riesaminare i gruppi considerati a torto o a ragione “minori”
(le virgolette sono più che mai d’obbligo) non deve muoverci la
speranza di scovare l’ennesima lost
gem né la necessità di cercare conferme negative alla prima
impressione – magari rigirando sadicamente il coltello nella piaga
– e neppure l’impulso iconoclasta di abbattere l’edificio
delle opinioni consolidate ma piuttosto la necessità di collocare
quei monicker nella dimensione più corretta. Oggi che non siamo più
distratti da una valanga di novità autentiche, sopratutto di
capolavori epocali, possiamo dedicarci con calma a ciò che un tempo
era stato accantonato dopo un ascolto frettoloso. Prendiamo questi Outlaw Blood.
Meritavano di essere liquidati in una recensione di un paio di
righe, come fece a suo tempo un noto magazine nazionale? Sulla
carta, già la produzione ed il consistente contributo al
songwriting di un pezzo grosso come Jeff Paris avrebbe dovuto far
rizzare le orecchie. Quando poi andiamo a leggere la formazione e
scopriamo che questa è stata la prima band di Marti Fredericksen,
che avrebbe successivamente conquistato onori e gloria (meritati)
prima con i Brother Cane poi come songwriter lavorando – tra gli
altri – per gli Aerosmith, il sospetto che qualcosa possa esserci
sfuggito prende sempre più sinistramente corpo... Come accade spesso per le bands
minori, degli Outlaw Blood si sa poco o nulla, dove e perché sono
nati, i cambi di line up eccetera. Solo un altro gruppo di ragazzoni
in cerca di gloria nella dorata Los Angeles di fine anni 80, e può
bastarci. Quello che conta è la musica, la musica che esce dal CD
(della loro qualità come live act non può chiaramente fregarci più
di tanto). Notiamo solo, en passant, che questo disco usciva per la Atlantic, o meglio, per
la filiale rock dell’etichetta, la ATCO, che in quegli anni
sembrava non avere altra politica che mettere sotto contratto il
maggior numero possibile di hard rock bands, far loro registrare un album e poi licenziarle. Le canzoni sono undici, sei portano
anche la firma di Jeff Paris, ed una di queste, “Last
act”, Jeff se la reinciderà in proprio sul suo penultimo
disco solista, ‘Smack’, le altre
sono scritte da Marti Fredericksen (che si occupava della chitarra
ritmica) e dal cantante Marc McCoy (ma Marti gli toglie il microfono
su due canzoni). Il resto della band era composto da Rich Harchol
(chitarra solista), Larry Aberman (batteria) e Nick Parise (basso).
Di tastiere e produzione si occupava Jeff Paris, e la sua influenza
negli arrangiamenti è palese anche sulle canzoni che non portano la
sua firma. “Tower of love” apre il
disco con un piacevole innesto Cinderella – Def Leppard, ma “Body
and soul” è puro Jeff Paris sound appena sporcato di
blues, mentre “Last act” è un
grande blues anthem condotto da una slide serpeggiante (la versione
che Jeff registrerà per ‘Smack’
risulterà più scarna ed elettrica, l’arrangiamento un po’ più
essenziale), e “Sink my teeth” un
altro bell’hard bluesato, più diretto, in bilico tra Jetboy e
Faster Pussycat. “Every day I die”
è la power ballad, in cui le atmosfere care a Jeff Paris sono
stemperate in un’atmosfera che ricorda di nuovo i Cinderella,
mentre “Soul revival” chiama in
causa i Tesla, o almeno una loro ipotetica versione più melodica e
cromata. “I’m n shock” è cantata
da Marti Frederiksen, che ha una voce decisamente rauca e potente
(mentre McCoy è una specie di incrocio tra Jamie St.James, Joe
Leste e Phil Lewis: si esprime con un timbro accattivante e vizioso
ma manca un po’ di volume): canzone bella tosta e cadenzata, mi fa
venire in mente tante bands: Motley Crue, Bang Tango, Cult, Beggars
& Thieves... Marti torna anche su “Slave
to love”, nettamente Tesla, quelli più root, con una slide
a guidare le danze ed il piano a rifinire. “Red,
hot ’n’ blue” e “Fall thru the
cracks” sono figlie illegittime dei Bang Tango meno funky,
più sensuale e notturna la prima, più glam e anthemica la seconda.
“Hollywood Babylon” è il sigillo
finale, veloce e potente. In conclusione: non solo gli Outlaw Blood
non sbandano (e con la mano ferma di Jeff Paris a guidarli, supporlo
era quanto meno azzardato) ma mettono a segno un colpo dietro
l’altro con classe, competenza ed eleganza. Difettano un po’ di
personalità, questo è innegabile, ma il songwriting – pur
restando in territori familiari – è di altissimo livello. Basta
tutto questo a fare del loro unico album una lost
gem? Per me, sì. Ma, per carità, non facciamolo sapere in
giro. Su ebay, questo disco tanto stupidamente snobbato dai cultori
dell’hard ottantiano di ieri e di oggi si può trovare senza
problemi in vendita a uno o due dollari. A buon intenditor...
Nella recensione dell’unico,
magnifico disco dei Cold Sweat, sottolineavo il ruolo che il
benevolo sguardo della dea bendata ha nelle sorti delle rock
bands, enunciando il principio che la fortuna (altrimenti detta
“mazzo”) conta per una percentuale rilevante e addirittura
prevalente nella scalata al successo. Ma, certe volte, non è
soltanto questione di sedere. C’entra anche il momento giusto:
cogliere l’attimo fuggente, l’istante magico, irripetibile.
Arrivare prima o dopo non serve: bisogna esserci proprio in quel
momento. Altrimenti... I Jetboy sono un esempio lampante
di ciò che può accadere quando non si può o non si sa cogliere
quel momento fatale. Oggi ben pochi si ricordano di loro, ma
furono gli autentici prime
movers della scena street metal. Cominciarono ad esibirsi fin
dal 1984, diventando in breve un’attrazione fissa nei club di
Los Angeles, dove future superstars come Poison, Guns N’Roses ed
L.A.Guns dovevano adattarsi a fargli da supporter. Nel 1986,
finalmente l’Elektra si accorse di loro e li mise sotto
contratto, e cominciò la via crucis. Registrarono l’esordio,
‘Feel the shake’, sotto la guida
del grande Tom Allom, il disco doveva uscire nel gennaio del 1988,
ma a dicembre del 1987, la Elektra (forse perché non soddisfatta
del disco, forse per qualche assurdo calcolo da calciomercato del
tipo: dobbiamo sfoltire un po’ la rosa) licenziò la band. Si
fece subito avanti la WEA (quello dei Jetboy era un nome pesante,
non dimentichiamolo), che voleva prenderli nella propria scuderia,
ma anche registrare da capo il disco. Giustamente, la band si
oppose, di tempo se ne stava sprecando già abbastanza, ma la WEA
fu irremovibile, ed alla fine i Jetboy firmarono per la MCA, che
rilevò il master di ‘Feel the shake’
dalla Elektra e lo rimixò, pubblicandolo nell’ottobre del 1988.
Bene, erano passati la bellezza di dieci mesi dall’annuncio, il
primo treno dello street metal era già partito e loro non erano a
bordo. La Elektra, a suo tempo, s’era fatta in quattro per
promuoverli, ma il maledetto disco, dov’era? Il polverone alzato
attorno a loro non aveva basi, tutti parlavano dei Jetboy, ma non
c’era materiale sonoro da dare in pasto al pubblico, e quando
questo finalmente arrivò, tutto l’interesse era galvanizzato da
Guns N’Roses, L.A.Guns e Faster Pussycat. Per somma ironia, i
Jetboy fecero la figura degli ultimi arrivati, di quelli che
s’erano accodati al carrozzone dei vincenti... Registrarono
questo ‘Damned nation’ nel 1990,
vivacchiando fino a che si sciolsero l’anno successivo fra
l’indifferenza generale. Che meritassero molta più
attenzione di quanta gliene venne rivolta è provato da due dischi
fenomenali, completati di recente da ben quattro raccolte di demo
ed alternate takes pubblicate fra il 1998 ed il 2001 dalla Perris e
dalla Deadline. Il primo album era un superbo trattato di street
rock urbano, largamente debitore dello spirito degli Hanoi Rocks,
e non certo a caso, dato che il bassista dei Jetboy era un certo
Sam Yaffa... Pare addirittura che la ristampa integrale della
discografia della band finlandese ed i primi lavori post - Hanoi
di Michael Monroe, Nasty Suicide (gli scarsi Cheap & Nasty) e
Andy McCoy siano stati patrocinati proprio dal manager dei Jetboy.
Con ‘Damned nation’, però, la
band decideva di muoversi in una direzione leggermente diversa, più
hardrockeggiante e bluesy, la produzione passava nelle mani della
premiata ditta John Purdell & Duane Baron, il singer Mickey
Finn rinunciava a quella pettinatura alla mohicano che rischiava
sempre di far passare i Jetboy per una punk band e, insomma, i
Jetboy provavano ad uscire da uno steccato che ormai cominciava ad
andargli stretto (anche perché sembrava che i Guns’N’Roses,
di quell’area chiamata “street rock”, fossero ormai i
dominatori assoluti ed imbattibili). Il pulsare del basso di Sam Yaffa apre il disco introducendo “Stomp it (down to the bricks)”, basata su un bel riff di scuola AC/DC su cui Mickey canta un ritornello che riesce ad essere sleaze e anthemico nello stesso tempo. “Moonlight” e “Groove tube” parlano la stessa lingua dei Mötley Crüe, ma con accenti più funky, melodici e glam nella prima, mentre sulla seconda spicca il refrain convulso e punkeggiante. Cambio di scena per “Heavy chevy”, un grande hard blues lento e pesante, cadenzato e notturno. “Too late” è la power ballad di rigore, divisa tra elettrico e acustico con suggestivi echi root, ma “Evil” torna filata in territori blues e rhythm and blues, regalando un refrain irresistibile, mentre “Trouble comes” è un hard secco e melodico dal ritornello scanzonato. “Bullfrog pond” ha un intro country, poi entrano le chitarre slide, un riffone ondeggiante che scivola in un altro riff diretto e a martello disegnando un boogie metallico, ironico e divertito (il coro fa: Andare giù allo stagno delle rane / a fumare buffe erbacce verdi con il figlio del fattore...) spezzato da un assolo (ovviamente) di slide guitar. Ancora un heavy rock pesante e tirato con “Ready to rumble” e si finisce alla grande con “Rock n’ roller”, un grande hard blues aerosmithiano, molto glam, con tanto di fiati e armonica, uno splendido assolo di chitarra slide e Mikey Finn che si produce in una divertente imitazione di Elvis Presley, il rock’n’roller per antonomasia... C’è da mettere in conto anche “Jam”, una trentina di secondi scarsi di slide e armonica che chiudono un album vario, vigoroso e intenso che pochi si presero il disturbo di ascoltare perché in un momento storico in cui non veniva perdonato un attimo di esitazione sulla linea dello start, i Jetboy erano partiti clamorosamente tardi: se era condannato chi perdeva un secondo, che destino poteva attendere chi era rimasto fermo al palo per dieci mesi?
L’uscita di ‘Back
to the rhythm’ arriva inaspettata, perché anche i
Great White parevano, come tanti altri act di non verdissima età,
non più interessati a registrare nuovo materiale. La band ne ha
passate di cotte e di crude: innumerevoli cambi di formazione e
sopratutto quel tragico episodio nel club di West Warwick,
l’incendio e il triste primato delle vittime per un concerto
rock (una vicenda che ha persino ispirato un episodio della
serie di telefilm Law and Order, andato
in onda su RAI 2 non molto tempo fa: e voglio sottolineare la
parola “ispirato”, perché i fatti sono completamente
diversi dalla storia che gli sceneggiatori hanno scritto per la
TV, piena di luoghi comuni sui musicisti dell’hard rock e ben
poco rispettosa della verità e potenzialmente lesiva
dell’immagine di persone che non hanno mai avuto alcuna
responsabilità diretta in ciò che è accaduto, come
l’indagine giudiziaria vera ha appurato oltre qualsiasi
dubbio, e se volete saperne di più, vi offro qui un link).
Lo squalo bianco non si è però lasciato abbattere dalle
avversità, è tornato in formazione più o meno originale (al
basso c’è sempre Sean McNabb, ma questo ruolo è stato
piuttosto ballerino fin dal principio), e ci regala finalmente
un successore a ‘Can’t get there from
here’, che era uscito nel 1999, la bellezza di nove
anni fa. ‘Can’t...’ era un
ottimo disco, meno aggressivo dello splendente ‘Let
it rock’ (l’album meglio prodotto assieme a ‘Psycho
city’ e con una continuità nel songwriting quasi alla
pari con ‘Once bitten’ e ‘Twice
shy’) ma lontano dalle tentazioni acustiche di ‘Sail
away’, entusiasmante in più di un episodio (
“Rollin’ Stoned”, la strepitosa “Wooden Jesus”, il
blues “Loveless age”, la squisita ballad “Sister Mary”).
E’ vero che la produzione di Jack Blades dava qua e là un
certo smalto alla Night Ranger al suono e che c’era un
indeciso tentativo di fare i moderni con la orrenda
“Psychedelic hurricane” (la quale faceva quasi il paio con
la però molto più gradevole “My world” che apriva ‘Let
it rock’, ed entrambe portavano il sigillo – come
coproduttore o autore – di un sempre più impenetrabile Don
Dokken) ma l’identità della band rimaneva comunque ben salda.
Su ‘Back to the rhythm’ dietro
il banco del mixer torna a sedere Michael Lardie (sempre da
solo, senza l’ormai perduto Alan Niven), mentre Jack Blades
limita il proprio apporto al songwriting. Rispetto a ‘Can’t...’,
il nuovo album risulta un po’ più elettrico ed anche stavolta
le strizzate d’occhio al rock contemporaneo si limitano ad una
sola canzone. La qualità audio, nei primi tre o quattro pezzi
non è gran ché ma migliora via via che il disco procede.
Qualcuno l’ha definita da “demo di lusso”, a me pare
piuttosto che vengano penalizzate sopratutto le timbriche delle
chitarre, questi dischi registrati in economia nell’era del
digitale hanno un suono strano: fruscio inesistente ed un sound
quasi “appannato”, opaco, limaccioso. Non so se la band
abbia pagato l’incisione di tasca propria, comunque sia andata
si poteva fare di meglio e di più per la resa fonica, ma… Con ‘Back
to the rhythm’ pare quasi che i Great White abbiano
voluto fare un riassunto della loro carriera, esprimendosi lungo
tutto lo spettro del loro sound di ieri e dell’altro ieri, dal
rock blues metallizzato era ‘Once bitten’
(la title track e “Still hungry”,
la prima un po’ cupa, la seconda più martellante e in linea
con gli stilemi del metal californiano), a quei blues levigati
divisi tra piano e chitarra ( “Was it
the night”, con un coro che però ricalca fin troppo
quello di “Maybe someday”, da ‘Psycho
city’), dall’hard rock zeppeliniano (“Take
me down”, con un riff che rotola lento e imponente) al
boogie (“Standin’ on the edge”,
contemporaneamente ruvido e melodico). “Neighborhood”
è un hard blueseggiante, secco e lugubre che mi dice veramente
poco, “Cold world” è impostata
su un riff minimale, ha un assolo pieno di dissonanze, è un
altro tentativo di trapiantare le loro atmosfere nel tessuto
glaciale di certo rock contemporaneo: non spiacevole in
assoluto, ma il frutto di questo innesto resta comunque poco
digeribile. Le ballad sono ben cinque, con la sola “Here
goes my head again” decisamente sul power, le altre più
morbide ma sempre grandissime, da “Play
on”, con un bell’impasto di chitarre acustiche,
elettriche e tastiere, a “I’m alive”,
più umbratile, da “How far is heaven”,
leggiadra e intensa, con un bellissimo assolo di Mark Kendall,
al sigillo finale, “Just yesterday”,
semplice e
struggente. Per la band i tempi del good
time rock’n’roll sembrano passati, le atmosfere di ‘Back
to the rhythm’ sono tutt’altro che festanti e
spensierate, saranno le brutte avventure, sarà l’età
(leggete il testo di “Just yesterday”),
ma la band – stavolta, almeno – ha deciso di disertare i
party, dandoci un disco introverso e malinconico. Non mi pare il
biglietto migliore per entrare nel mondo dei Great White,
quest’album, che vedo come un lavoro – anche in virtù della
non esaltante qualità audio – rigorosamente only for
fans.
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