RECENSIONI IN BREVE
AORARCHIVIA |
ZIA LINDBERG "Zaniness" |
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Della carriera di Zia Lindberg
non so praticamente niente: è sempre attiva come cantante,
potete verificarlo sulla sua pagina Facebook, ma a parte questo…
Una cosa però posso dirvela: è la miglior voce rock femminile
svedese che abbia mai sentito: nitida ma con un bel velo rauco e
appena una punta acida, potente eppure delicata, ricca di
sfumature. Il paragone con l’ugola di Alannah Myles è
inevitabile, anche se Zia ha una voce senz’altro più pulita. Il
suo unico (credo…) album uscì nel 1993, con quindici canzoni tra
originali e cover: aveva una decisa impronta funky ma restava
sempre nei territori nel rock melodico, variando l’approccio e
le atmosfere con grande efficacia grazie anche ad una produzione
accurata e ben bilanciata. Il top? Forse “I
Want You”, uno slow torrido e sexy nelle strofe che si
infiamma nel refrain, oppure “Enough”,
in cui si fondono funky, r&b e AOR, ma ‘Zaniness’
è da godere nel suo insieme dal principio alla fine.
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Onecd - 1993 |
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BLACK SWAN "Generation Mind" |
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Brusco calo di ispirazione per
i Black Swan. Due anni fa, ‘Shake
The World’ fu un esordio davvero buono, ma
questo ‘Generation Mind’ suona
troppo spesso piatto e noioso, è un incessante pestare sodo
praticamente dal principio alla fine, con Robin Mc Cauley che
urla come un dannato e Reb Beach che ricicla senza fantasia
qualche architettura Winger oppure spara riffoni heavy metal
vecchi di quarant’anni. Belle le cadenze gravi e il refrain
suadente della power ballad “How Do You
Feel” e l’atmosfera scanzonata e molto Winger di “See
You Cry”, il resto brilla raramente, più spesso scivola
invece in una monotonia fracassona che da un disco pilotato
dalla chitarra di Reb Beach non ci aspetteremmo di certo. |
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Frontiers - 2022 |
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DOROTHY "Gifts from the Holy Ghost" |
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Nuovo album per questi
validissimi esponenti del modern melodic, guidati dalla bella
voce, nello stesso tempo limpida e tagliente, di Dorothy Martin.
‘Gifts From The Holy Ghost’ è un
album senza sorprese né emergenze, fa qualche concessione al
rock più classico (le strofe di “A
Beautiful Life” hanno un buon sapore di metal
californiano, la title track è un gradevole esercizio di sound
anni ’70, “Touched By Fire” spara
un bel funk zeppeliniano) ma giostra prevalentemente attorno al
sound più in voga: “Rest In Peace”
e “Top Of The World” sono
anthemiche, arena rock ambientati nel nuovo millennio, “Hurricane”
trasla il power pop nel ventunesimo secolo, “Black
Sheep” aggiorna il rock diretto di Joan Jett, “Close
To Me Always” è una power ballad grave nelle strofe e più
solare nel refrain. Un buon album, in definitiva, che gli amanti
del new breed non dovrebbero farsi mancare.
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Roc Nation - 2022 |
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LIPS TURN BLUE "Lips Turn Blue" |
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Le vicende che hanno spinto
Don Mancuso a cambiare il moniker della propria band, passando
da D Drive a Lips Turn Blue sono così lunghe e intricate che non
mi azzardo a ricapitolarle, e vi rimando piuttosto al sito della
band (www.lipsturnblue.com) se vi interessa approfondirle. Dei D Drive di ‘3
D’ vi riferii, e molto favorevolmente, tempo fa (seguite il
link per un ripasso), di questa nuova incarnazione della band
pure non si può dire che bene. Il povero Phil Naro fa qui la sua
ultima apparizione al microfono, e l’ex pard di Mancuso nei
Black Sheep (Lou Gramm, naturalmente) è ospite su due canzoni
(prima in duetto con Naro e poi da solo). I punti di contatto
con i D Drive non sono molti (direi che sono addirittura quasi
nulli), ma ‘Lips Turn Blue’ resta un ottimo album, dal sound
molto vario: passa con scioltezza dal melodic funk (“Just Push”)
a un rock robusto e molto britannico (“Hey Bulldog”, “Blood
Moon” e “Miles”), dall’hard melodico in stile primi anni ’80 (le
trame geometriche di “Build My Castle”) a una cover dei Black
Sheep (“Chain On Me”). A volte le soluzioni melodiche rimandano
agli Harlan Cage (“No Need For You To Call”, “Life's Crazy
Ride”, “A Little Outside”), abbondano le ballad (tutte
eccellenti), ma il top mi pare stia in “Sit Up”, con i suoi riff
taglienti e scoppiettanti, il ritmo agile, insospettabilmente
anthemica, un arena rock con bei tocchi di originalità. |
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Made In Germany - 2022 |
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PALACE "One 4 The Road" |
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Se i due ultimi lavori di
Michael Palace mi hanno entusiasmato (‘Binary
Music’ e ‘Rock and Roll Radio’,
quest’ultimo lo recensii a suo tempo su Classix Metal), questo ‘One
4 The Road’ mi ha lasciato un po’ deluso.
Il songwriting sembra essere circoscritto agli universi di
Unruly Child, Def Leppard e Journey, tralasciando tutte quelle
contaminazioni con l’r&b che avevano nobilitato gli album
precedenti, e adottando una produzione meno creativa. Anche il
songwriting risulta più piatto, mancano in notevole misura la
vivacità e la verve che caratterizzavano le sue release
precedenti. Ma il
buono non manca di certo: i raffinati impasti vocali e le
deliziose soluzioni melodiche di “Fifteen
Minutes”, i chiaroscuri di “Time
Crisis” e la bella vena Journey sulla ritmica svelta di “Facing
The Music”. Non mi piace la modernità alla Shinedown di “Living
The Life” e “Loneliest Night”
è impostata sul sound svedese attuale, risultando a tratti
monotona. Insomma, il confronto con quanto fatto prima mortifica
un po’ ‘One 4 The Road’, ma
considerato solo per se stesso, il nuovo Palace è comunque un
buon disco. |
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Frontiers - 2022 |
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WAKEFIELD "Wakefield" |
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Niente di notevole da
segnalare in questa unica (ritengo) testimonianza discografica
dei Wakefield, band americana che pubblicò il suo album
autointitolato nel 1985. “Don’t Throw Your
Heart Away” e “You’re Gonna Find
Out” inseguono senza grande distinzione i Loverboy, “Hard
Nights” ha bei chiaroscuri nelle strofe ma si sgonfia nel
refrain, “It’s a Beautiful Day”
(incantata e solare) fa un po’ Zebra, “Animals”
è uno strano brano pop dal ritmo scemo e molto inglese, senza
neanche una nota di chitarra, “Tara”
ha una buona cifra melodica ma è afflitta da un arrangiamento
monotono. Il meglio sta nel mid tempo bluesy “I
Want You” e nei due metal californiani, “One
of a Kind Lady” (dinamica) e “Living
Dangerously” (molto Quiet Riot): niente, comunque, che
possa salvare i Wakefield dall’oblio in cui finiscono le
produzioni dignitose e nulla più.
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Top Shelf Records - 1985 |
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AORARCHIVIA |
NO
SHAME "Good Girls Don't Last" |
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Cosa diavolo avrà mai visto o
sentito di buono Ric Browde (che ha prodotto album per Ted
Nugent, Poison, Faster Pussycat e tanti altri act di notevole
valore) in queste quattro tizie, lo sa soltanto lui. Pescate in
qualche pub di Londra, Browde se le portò negli Stati Uniti, gli
procurò un contratto nientemeno che con la CBS e produsse il
loro primo e unico
(ovviamente) album,
fatto di dieci canzoni impostate su un metal californiano banale
e spaventosamente ordinario. L’unica nota lieta veniva dalla
cantante, Jacqui Lynn, dotata di una voce ultrasexy da telefono
erotico o doppiatrice di film porno, ma senza eccessi ridicoli
stile gatta in calore, però le sue vocals non bastavano a
salvare un disco in cui mancava l’ingrediente fondamentale: le
canzoni. Forse Browde sperava di cavalcare l’onda (mai diventata
uno tsunami, comunque) delle rock band all female, ma
puntando su queste suddite di sua maestà britannica scommise su
un brocco che anche dopato come una zucca non sarebbe mai
riuscito ad arrivare anche solo tra i piazzati. |
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CBS - 1989 |
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ZAHALAN "Zahalan" |
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Uscito nel 1990 in Canada,
questo ultimo album di Mary Lu Zahalan era pura delizia per gli
amanti del pop rock e dell’AOR sofisticato, propulsi da una
produzione di qualità stellare. La bella voce chiara di Mary Lu
illuminava nove track scritte da songwriter prestigiosi e
suonate da session men rinomati (Michael Landau e David Tyson
bastano?): “I Can’t Forget About You”
era un tipico pop rock mid 80s, la luminosa “Fallen
Angel” procedeva a un ritmo galoppante abbordando il
funky danzereccio ma con un refrain da arena rock; le ballad si
intitolavano “A Long Way From Loneliness”
(d’atmosfera, raffinata e notturna), “Letting
Go” (superba col suo crescendo gentile) e “It
Must Have Been Your Heart”. L’AOR squisito di “Soulstar”
veniva modulato attraverso un basso pulsante e chitarre limpide,
quello di “While We’re Still Young”
possedeva un refrain avvincente, “Don’t
Come To Me” viaggiava su una chitarrona ruggente in un
clima fascinoso alla John Parr. Pare sia stato ristampato nel
2016, comunque i CD sono rari e molto, troppo cari, però gli
.mp3 sono in vendita al solito prezzo stracciato su Amazon. Non
fatevelo mancare.
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Justin Entertainment Inc. -
1990 |
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CHEZ KANE "Powerzone" |
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Il primo album di Chez Kane lo
recensii a suo tempo su Classix Metal e, senza esagerare, questo
appena uscito ‘Powerzone’ è del
tutto identico al suo predecessore. Come due anni fa, Danny
Rexon suona tutti gli strumenti e compone canzoni che per la
massima parte si ispirano agli H.E.A.T d’antan e fanno saltuarie
puntate in direzione Bon Jovi (“Children
of Tomorrow Gone”) e Danger Danger (“Nationwide”).
Con questo non voglio dire che ‘Powerzone’
sia una ciofeca, solo che ci vuole un orecchio davvero fino per
distinguerlo dal disco precedente… Mi piacciono soprattutto “Rock
You Up”, che mette assieme Def Leppard e il Bryan Adams
di “Somebody”, e le strofe rocknrollistiche di “I’m
Ready (For Your Love)”, ma ‘Powerzone’
risulta un album piacevole dal principio alla fine, su cui chi ha apprezzato
‘Chez Kane’ può investire in
sicurezza. |
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Frontiers - 2022 |
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THE ROADS "Simple Man" |
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Dietro questo nuovo moniker si
celano Gary Pihl (Boston, Sammy Hagar) e Mick Devine (Seven).
Con l’ausilio di musicisti più o meno noti della scena AOR
(Lawrence Gowan, Paul Taylor, Josh Devine, Tracy Ferrie) hanno
messo assieme dodici canzoni in puro stile anni ’80 che
(complice anche la vocalità di Devine, quasi un clone di Lou
Gramm) richiamano alla memoria soprattutto i Foreigner, ma anche
(ovviamente) i Boston e, a tratti, gli Harlan Cage. Anche se non
fa gridare al miracolo, il songwriting è di buona fattura e
convince non solo chi dei Foreigner è un fan sfegatato. Il top
sta nel melange tra le keys esotiche, il riff funky ed il
refrain leggiadro di “Just Not the Same”,
e nelle suggestioni r&b di “Avalanche”,
ma ‘Simple Man’ è nel suo complesso
un album validissimo. |
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Escape Music - 2022 |
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STREETLORE "Streetlore" |
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Questa nuova band raccolta
attorno al tastierista Lorenzo Nava conta su una vera e propria
legione di ospiti italiani e stranieri (prevalentemente davanti
al microfono) e ci offre un rock melodico orientato allo svedese
moderno (W.E.T., H.E.A.T, Work of Art), assemblato con gusto e
grande professionalità. Ovviamente, i vari cantanti
caratterizzano a modo loro le canzoni, e se Terry Brock risulta
– come quasi sempre gli capita – tecnicamente impeccabile ma
anonimo in maniera agghiacciante su “Crossroad”,
Sue Willet dei Dante Fox (a quando un nuovo album?) risplende
nella power ballad “Shadows And Lies”,
mentre Josh Zighetti e Mario Percudani si calano benissimo nelle
atmosfere Journey di “Weaker Than Before”.
Un esordio di pregevole fattura. |
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Art of Melody Music - 2022 |
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AORARCHIVIA |
SABU "Banshee" |
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Era dal 1998 che Paul Sabu non
pubblicava qualcosa con questo moniker e il nuovo ‘Banshee’
- in cui il Nostro si fa assistere da Barry Sparks, già con lui
nei Corporate Control - resta nella scia di ‘Sabu’
e ‘Between The Light’: niente
ballad, elettricità a manetta e un clima anthemico che percorre
l’album praticamente dal principio alla fine, un hard rock
melodico e spesso dai toni metallici che porta inconfondibile
l’impronta dal nostro jungle boy, arrangiato sempre con
efficacia e, nonostante il notevole vigore, quasi mai si
priva dell'apporto delle tastiere. Rispetto a quanto abbiamo
ascoltato sul disco dei Corporate Control, la voce di Paul ha
avuto un netto miglioramento e ‘Banshee’
spicca fra le uscite nell’ambito del più classico rock melodico
di osservanza ottantiana nel 2022 appena concluso.
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Frontiers - 2022 |
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STEVE AUGERI "Seven Ways ‘Til Sunday" |
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Alla tenera età di 63 anni,
Steve Augeri fa il suo esordio da solista con una validissima
backing band formata dagli ex Valentine e Open Skyz Adam Holland
(chitarre), Gerard Zappa (basso) e Craig Pullman (tastiere). La
matrice a cui si ispira prevalentemente ‘Seven
Ways 'Til Sunday’ è quella dell’ultima band del Nostro, i
Journey, le digressioni da quel suono sono poche (“If
You Want (Mercy Mix)” che impasta Bryan Adams ai Tall
Stories, il riffone zeppeliniano di “Desert
Moon”) e le ballad orchestrali, con una base
tastieristica, prevalgono nettamente sui brani più rock, ma la
fattura del prodotto è sempre eccellente, la produzione
impeccabile, gli arrangiamenti sontuosi e a volte anche
vagamente avventurosi. Il top? Per me, i chiaroscuri AOR che
marezzano “Unanswered Prayers”, ma
‘Seven Ways ‘Til Sunday’ è
praticamente dal principio alla fine un album di cui Steve può
andare fiero. |
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Hit Hat - 2022 |
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LEE AARON "Elevate" |
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‘Elevate’
dà una netta sterzata power pop alla musica di Lee Aaron. Anche
negli album precedenti non mancavano suggestioni di tale specie,
ma ‘Elevate’ si getta a capofitto
in questa dimensione e non sempre con buoni risultati, troppe
canzoni procedono senza scossoni su riff elementari, animate
solo dalle vocals sempre molto vivaci. Le cose migliori le sento
in “The Devil U Know”, (quel suo
riff dondolante e grattante e la melodia che risale
piacevolmente fino agli anni ’60), la title track (chitarre come
degli AC/DC più agili e moderni e un refrain quasi anthemico) e
soprattutto in “Spitfire Woman”,
hard melodico dal passo lento e dotato di un riffing massiccio,
lacerato da un violino minaccioso e inquietante. Tutto il resto,
ripeto, non spicca più di tanto, in sé e in confronto al
materiale analogo registrato da Lee Aaron nel recente passato.
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Metalville - 2022 |
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KERRI ANDERSON "Labyrinth" |
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La canadese Kerri Anderson ha
inciso ad oggi (è sempre attiva come cantante nella città di
Edmonton) un solo album, e nient’affatto memorabile. Il problema
di ‘Labyrinth’ non sta tanto nella
sua natura ibrida (“Facciamo un disco di AOR oppure di pop rock
patinato da alta classifica?”: questa dev’essere stata la
domanda a cui discografici, produttore e forse anche Kerri in
persona non sono riusciti a trovare una risposta netta) quanto
nelle atmosfere quasi sempre dolenti/melanconiche in cui vengono
immerse canzoni che hanno il più delle volte una durata
esagerata. “Day by Day” è la perla
del disco, un hard’n’roll sofisticato, elettrico, vivace, fatto
di chitarre secche e potenti contrappuntate dal pianoforte, dove
la voce di Kerri si fa divertita e tagliente, quasi tutto il
resto è impregnato di una mestizia sempre ben servita da
produzione e arrangiamenti di lusso, ma che alla lunga rompe o
annoia, almeno chi dal rock non chiede in esclusiva inviti alla
depressione. |
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Impact Records - 1991 |
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THE WINERY DOGS "III" |
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Pensavamo che i Winery Dogs
fossero ormai storia, invece Richie Kotzen, Billy Sheehan e Mike
Portnoy resuscitano il moniker e si ripresentano con questo ‘III’
che segue la scia dell’ottimo secondo album, ‘Hot
Streak’: l’hard funky scatenato di “Xanadu”,
le suggestioni di black music attraverso “Mad
World”, le architetture un po’ Bad Company di “Pharaoh”
e quelle molto Purple su cui è costruita “Gaslight”
vengono tessute da una chitarra sempre acrobatica e fantasiosa,
tra classico hard rock e suggestioni moderne, shredding e
fraseggi cerebrali, confermando la sostanziale leadership di
Kotzen, che domina la scena con il suo sempre splendido
chitarrismo e ha senza dubbio una parte preponderante nel
songwriting. |
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Three Dog Music - 2023 |
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ROXANNE "Stereo Typical" |
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Ho mancato il loro comeback
del 2018, ma questo nuovissimo ‘Stereo
Typical’ non mi ha fatto rammaricare di essermelo
perduto. Per risentire i vecchi Roxanne, quelli dell’album
omonimo uscito nel 1988 (per chi non lo conoscesse c’è il
link), dobbiamo arrivare al brano numero otto, “Keep
On Keepin’ On”, che ci restituisce una band capace di
rifare gli Aerosmith con ottimo gusto. Anche “Waiting
For Laura” approssima i Roxanne di una volta ma, come buona
parte di ‘Stereo Typical’, è
contaminata dalla attuale fissazione di Jamie Brown e soci: i
Queen. La title track sono i Queen lisciati con la raspa, e
sulla stessa falsariga proseguono “Looks
Like Rain” (ariosa, con l’assolo suonato da Paul Gilbert)
e “Until They Do” (infarcita di
quelle zingarate kitch che furono il trade mark della band di
Freddy Mercury nei suoi anni di gloria). Funziona meglio “Gotta
Live”, col suo riff zeppeliniano e il refrain anthemico,
colorata dai cori femminili e un velo di tastiere, mentre le
ballad chiamano in causa i Beatles (“Only
A Call Away”, “Open Book”)
oppure danno sul moderno depresso (“Without
A Rope”). In sé, ‘Stereo Typical’
non è un brutto disco, ma la distanza da quanto fatto negli anni
80 è tale che non potrei consigliarlo a chi (come il
sottoscritto) trovò irresistibili i Roxanne di “Sweet Maria”,
“Cherry Bay” e quella “Nothing to Loose”
qui reincisa come bonus track. |
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Rat Pak Records - 2023 |
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EVOLUTION EDEN "Sonic Cinema" |
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Niente di strano che questa
band sia così richiesta come gruppo di supporto (hanno aperto
show di Dokken,
Warrant, Y & T, Richie Kotzen, Winger, Stryper, Mr. Big,
Queensrÿche, Ratt, Sebastian Bach, Firehouse, Blue Öyster
Cult, Kix, Winger, The Babys, Lynch Mob, Jack Russell’s Great
White, Ace Freely): la sua musica è talmente trascurabile
che risulta perfetta per intrattenere il pubblico senza che la
main attraction corra il minimo rischio di passare in
secondo piano. Questo ‘Sonic Cinema’
ne è una perfetta campionatura, undici canzoni fatte in
prevalenza di un class metal di grana grossa che si muove tra
Quiet Riot, Bon Jovi e Def Leppard senza distinzione né il
minimo sussulto, con un modesto apporto di tastiere (in
maggioranza sulle ballad), un suono un po’ impastato e un
cantante che a volte fa fatica a mantenere l’intonazione. Una
band dignitosamente mediocre, gli Evolution Eden, buona giusto
per scaldare gli amplificatori prima che i big entrino in scena. |
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Lions Pride Music - 2023 |
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AORARCHIVIA |
PAUL GILBERT "The Dio Album" |
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Se ‘The
Dio Album’ ha un merito, è quello di ricordarci quanto
poco funzionino le versioni strumentali di canzoni nate per
essere interpretate da una voce, indipendentemente dal genere
musicale a cui appartengono, dalle parole del testo e anche
dalla voce che le ha rese più o meno famose. Certo, questi
fedelissimi remake di capisaldi del repertorio di Ronnie James
Dio (“Stand Up And Shout”, “Neon
Knights”, “Starstruck”, “Last
in Line” eccetera) non hanno molte probabilità di finire
nelle compilation per ascensore di centro commerciale a cui di
solito sono destinati tali rifacimenti (selezioni in cui non
manca mai una “Yesterday” in versione lounge e “My Way” in
chiave di jazz molliccio), ma ci passano addosso proprio come
quella musica resa insipida da arrangiamenti zuccherosi o
esangui. Qui la musica è tutt’altro che zuccherosa e di sangue
ce n’è da vendere, ma neppure le indubbie doti di strumentista
che Paul Gilbert mette in campo senza risparmio salveranno ‘The
Dio Album’ dal suo destino: essere dimenticato (a seconda
del formato prescelto) su uno scaffale o in una cartella dopo un
solo ascolto. |
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Music Theories Recordings - 2023 |
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AORARCHIVIA |
FEMME FATALE "One
More for the Road" |
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Questa raccolta dei demo
(registrati fra il 1989 e il ‘90) che avrebbero dovuto comporre
il secondo album dei Femme Fatal testimonia la volontà della
band di Lorraine Lewis di ampliare lo spettro sonoro tutto
sommato piuttosto ristretto del primo disco: su “Don’t
Mean Nothing” e “Lady In Waiting”
suonano come dei Bulletboys più melodici, “Sacred
Bible” e “Stiffed” guardano
in direzione Guns N’ Roses, anche se i prediletti i Ratt tornano a farsi sentire su “I
Know” e “One More for the Road”.
Purtroppo, essendo soltanto dei demo, queste quattordici canzoni
sono afflitte in varia misura da distorsioni e rumoracci che
passano dal tollerabile al quasi insopportabile. Considerato che
il materiale, pur buono, non si può definire superlativo, ‘One
More for the Road’ è riservato ai fan più accaniti di una
band che, pur da annoverare tra quelle minori, un’altra chance
l’avrebbe meritata ampiamente. |
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Fna records- 2016 |
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