AORARCHIVIA

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BABYLON A.D.

 

 

  • BABYLON A.D. (1989)

  • NOTHING SACRED (1992)

 

Etichetta:Arista Reperibilità:scarsa

 

Breve e tormentata: è la storia di questa band. Breve perché copre solo due album, tormentata perché questi due dischi testimoniano qualcosa che si può ben definire un travaglio, quelle eterne domande che ogni band si pone – e arrivano di riflesso a coloro che  ne ascoltano la musica – in maniera più o meno scoperta: chi siamo? dove andiamo? come fanno i Bon Jovi a vendere tanti dischi? Eccetera.

I Babylon A.D. , al principio della loro carriera dovevano essere ossessionati sopratutto dalla terza domanda. Bon Jovi, Def Leppard, Quiet Riot... diciamo, una qualsiasi band di rock melodico da top ten. Questo rovello dovette essere poi risolto, come sovente capita alle questioni che ci appaiono più importanti, con una semplice, liberatoria scrollata di spalle. E i Babylon A.D. smisero di tentare di essere qualcosa e divennero, finalmente, qualcuno. È anche possibile che la natura contraddittoria dei due album risalga a quello che si può interpretare come un cambiamento di leadership. Il primo disco omonimo, difatti, vede praticamente come songwriter unico il cantante Derek Davis, coadiuvato dal grande Jack Ponti. Nel secondo, 'Nothing sacred', il timone passa al chitarrista Danny DeLaRosa. Comunque sia andata, resta il fatto che il principale denominatore comune ai due episodi discografici dei Babylon A.D. risulta la voce di Derek.

La band (i già citati Derek e Danny DeLaRosa, più l’altro chitarrista Ron Freschi, Robb Reid al basso e Jamey Pacheco alla batteria), ottenne il (sospirato) contratto major quattro anni dopo essere nata, in principio si facevano chiamare The Persuaders, poi cambiarono nome in Babylon, solo che c’era già una band con questo moniker, e allora vennero aggiunte le altre due lettere (ma cosa significano? Anno Domini?). L’Arista doveva credere parecchio in loro dato che per registrare il debutto gli lasciò un anno intero e addirittura gli procurò i servigi di sua altezza Jack Ponti, che figura come co-autore di ben cinque canzoni. E qui dovettero cominciare i dubbi amletici. Mettetevi nei panni di una band sconosciuta, con un contratto major in tasca che si ritrova ad avere la possibilità di lavorare con un songwriter di grande valore: magari lo stile di Jack non è proprio quello della band, ma chi si sognerebbe di rinunciare alla collaborazione di un personaggio tanto prestigioso? Sarebbe come sputare su un vassoio d’argento... Allora, i ragazzi cercano di adattarsi ad un genere che non è il loro. Ma le canzoni di Jack Ponti hanno bisogno, per rifulgere, di tutte quelle cose che invece i Babylon A.D. non vogliono: arrangiamenti sontuosi, ondate di tastiere, produzione lussuosa e sofisticata. Sono fatte per essere placcate di cromo luccicante, non smerigliate con la carta vetrata di grana grossa. Il risultato ottenuto dai Babylon A.D. con questo materiale è comunque buono, ma non riesce mai ad essere superlativo anche se le canzoni hanno tutte le carte per esplodere ai massimi livelli. Derek Davis non è certo Kelly Keeling, ma d’altronde la band non vuole assolutamente essere ciò che l’anno successivo saranno i Baton Rouge. Derek ha un tono acido e acuto che non è congeniale all’anthem e lo stesso suono delle chitarre di Ron Freschi e Danny DeLaRosa è troppo abrasivo ed essenziale per funzionare in un clima da stadio. Il confronto con ciò che altri faranno dopo è meno improprio di quanto sembri, perché quando Jack Ponti potrà mettere a disposizione di una band che segue le sue direttive questo genere di musica, quando potrà produrla in prima persona, il risultato sarà talmente spettacoloso da rasentare il miracolo. E se i Babylon A.D. non riescono a compierlo loro, questo miracolo, è soltanto perché non lo vogliono, non certo perché non ne avrebbero la capacità. Così, su “Hammer swings down”, “Caught up in the crossfire”, “Maryanne”, “The kid goes wild” e “Desperate” finiscono per fare un po’ la figura dei parenti poveri dei Baton Rouge, sempre troppo ruvidi ed essenziali. “The kid goes wild” nelle loro mani diventa un brano selvaggio, puro heavy metal un po’ alla Twisted Sister. “Desperate” la rifaranno anche i Baton Rouge su ‘Lights out on the playground’, e sembra quasi troppo facile dire che la versione cantata da quel mostro di Kelly Keeling è superiore a quella di Derek... In realtà, le due interpretazioni non sono poi tanto distanti, Derek ci aggiunge solo qualche sfumatura Zeppeliniana, Planteggiando sfacciatamente nelle strofe. Nelle canzoni scritte in proprio, la band invece è libera, libera di fare quello che vuole ma sempre con un occhio a quello che sta succedendo su Billboard. “Bang go the bells” attacca con un bel riffone saltellante alla Crüe/Ratt (qualche ombra Y&T?),  Shot o’ love” ha un lungo intro acustico e morbide parti d’atmosfera su cui va a cozzare un bel refrain di metal da spiaggia alla Autograph/Quiet Riot, “Back in Babylon” è come dei Tesla più melodici o dei L.A. Guns meno viziosi, “Sweet temptation” un hard rock’n’roll energetico, scanzonato, superbo e chiude in gloria “Sally danced”, armonica e slide guitar per un hard bluesato da urlo, tra i Tesla e gli Aerosmith.

Passano tre anni, ed i Babylon A.D. ricompaiono, come anticipato, con un disco che si muove su coordinate abbastanza diverse rispetto all’esordio. La produzione passa da Simon Hanhart a Tom Werman, il metal californiano viene messo praticamente da parte, e dalla penna di Danny DeLaRosa vengono fuori canzoni che richiamano piuttosto lo street rock (sopratutto sul versante L. A. Guns), e l’hard blues Aerosmithiano. Quel senso di indecisione che pervadeva a volte il primo album svanisce, l’impressione che la band indossasse abiti che non le appartenevano è confermata dalla fluidità di composizioni che evidentemente rappresentano molto meglio del vecchio materiale ciò che i Babylon A. D. volevano veramente fare. La collaborazione con Jack Ponti si limita alla sola “Psychedelic sex reaction”, già fatta dai China Rain, interpretata dalla band con un piglio deciso che ne smorza la carica anthemica ma la innerva di nitroglicerina... Se “Sacrifice your love” e “Slave your body” sono pura materia Ratt ma reinterpretata in una chiave più acida e abrasiva, “Down the river of no return” stupisce per l’atmosfera sospesa e incantata, quasi un omaggio ai Led Zeppelin più fascinosi, mentre “Dream Train” apre con il suono cigolante di un banjo una magistrale stesura Aerosmithiana (con un arrangiamento più sofisticato e qualche chilo di chitarre elettriche in meno sarebbe stata degna di figurare su ‘Four winds’ dei Tangier). Molto più rough  si rivelano “Take the dog off the chain” e “Bad blood”, dove impera l’estetica dello street metal, “Blind Ambition” è uno stratosferico hard’n’roll rifinito dal piano boogie (tutte le parti di tastiere sono suonate da C.J. Vanston), “So savage the heart” rimanda un po’ agli episodi meno violenti dei Lynch Mob, “Pray for the wicked” recupera in parte la carica anthemica del class e “Redemption” contrappone un testo durissimo ad un tessuto melodico a tratti quasi sognante.

Dopo un tour assieme a Roxy Blue e Wildside, dei Babylon A. D. si persero le tracce fino al 1998, con la pubblicazione di un live, mentre da poco è uscito 'In the beginning' una raccolta di demo, dodici canzoni che risalgono al periodo precedente l'esordio  (non chiedetemi a chi o a cosa servano dischi del genere, perché francamente non saprei spiegarlo: voglio solo far notare - ma sembra quasi lapalissiano... - che se queste canzoni fossero state davvero buone, non sarebbero state buttate via). 

Di tutti i componenti della band, solo Derek Davis e Jamey Pacheco sono rimasti nel music business, con un gruppo blues (Derek Davis And The American Blues Box) che ad oggi ha però pubblicato solo un EP.

 

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ROXANNE

 

 

  • ROXANNE (1988)

Etichetta:Scotti Bros. Reperibilità:scarsa

 

I Roxanne sono stati una delle grandi promesse mancate. Il buzz attorno a loro, per un po’, fu pesante, ma tutto si risolse nella proverbiale bolla di sapone. Il disco vendette pochissimo e la band venne licenziata a tempo di record, sfasciandosi senza lasciare tracce.

Meritavano di finire così presto e così male? Direi proprio di no. Forse non erano quei fuoriclasse che i discografici volevano farci credere, ma avevano i loro numeri, sopratutto nella voce del singer Jamie Brown (provate ad immaginare un Derek Davis – il cantante dei Babylon A.D. – più pulito e dai toni vagamente negroidi). Il peccato più grave di cui si macchiarono fu sicuramente il cerchiobottismo. Erano partiti con un sound orientato verso gli anni 70, e le prime voci su di loro ne facevano quasi dei Salty Dog ante litteram, ma con un debole per i vecchi Aerosmith. Per strada, le cose cambiarono al punto che il loro primo ed unico album risulta un mosaico di influenze diverse e non amalgamate tra passato e presente. Questa mancanza di omogeneità nel materiale, la consapevolezza di una scelta poco felice delle canzoni che compongono l’album, portò la loro etichetta, la Scotti Bros., a proporne due edizioni differenti tra USA e Giappone, variando non solo la scaletta, ma anche i pezzi (due canzoni vengono sostituite per l’edizione giapponese distribuita dalla Pony Canyon) e addirittura il titolo (‘Roxanne’ per gli Stati Uniti e l’Europa, ‘Burning through the night’ in Giappone). Io ho l’edizione distribuita nel nostro paese dalla CGD, e conforme a quella americana, e naturalmente posso fare solo speculazioni su quella nipponica.

Apre l’album “Nothing to loose”, con un bell’intro languido, notturno, Zeppeliniano che esplode in un clima da anthem tra il metal californiano ed i vecchi Aerosmith, mantenendo comunque una certa, piacevole impronta anni 70, grazie anche alla produzione tagliente ed essenziale di Geoff Workman. Un’ottima scelta per cominciare, ma la prosecuzione è, quanto meno, infelice, dato che “Over you” è un heavy metal dal clima pesante, quasi lugubre, ricorda un po’ i Tesla più metallici, ma non c’entra davvero nulla con quanto ascoltato prima, e va ancora peggio con “Coming for you”, che replica la stessa ricetta in maniera un po’ più dinamica, rivelandosi comunque per una rimasticatura di cose già sentite mille volte, con un suono troppo crudo e scarno: una brutta canzone, e nient’altro. Ma da qui in poi c’è un giro a centottanta gradi, la band lascia perdere l’heavy metal più classico e torna all’hard rock di matrice settantiana, derivando lentamente verso un clima sempre più glam e scanzonato. “Not the same” è una sensibile ballad elettroacustica, un po’ root, che si impenna nel finale, quando entrano le chitarre elettriche e qualche lampo di tastiere. “Do it all” è una sfrigolante stesura Zeppeliniana, serrata, tutta voce/chitarra, “Can’t stop thinking” è un’altra power ballad, rispuntano i Tesla, stavolta quelli più folk e ruspanti, magnifico il refrain. Su “Stay with me” tira aria di vecchi Aerosmith, un ritornello di nuovo vincente con piccanti sfumature glam. “Sweet Maria” è il top, con una base di puro metal californiano su cui imperversa un coro favolosamente sleaze, ma anche “Cherry Bay” è grande metal da spiaggia, scanzonato e martellante, con un bell’assolo rock‘n’roll. Conclude la cover divertita e divertente del classico funky dei Wild Cherry “Play that funky music”, a cui la band riesce a dare uno stuzzicante smalto metallico.

Cosa sia stato, esattamente, a troncare in maniera prematura la vita dei Roxanne non è facile stabilirlo, ma mi chiedo come sarebbe andato quest’album negli USA senza quelle due brutture intitolate “Over you” e “Coming for you”,  piazzate oltretutto proprio al principio del disco. Che neppure la Scotti Bros. avesse capito cosa non funzionava è testimoniato dal fatto che nell’edizione giapponese questi due pezzi sono sempre in scaletta, e scompaiono invece “Not the same” e “Play that funky music”, sostituite da due canzoni che non ho mai avuto il piacere di ascoltare ma – se tanto mi dà tanto… – suppongo molto più metalliche dei pezzi di cui hanno preso il posto. La questione, forse, era tutta qui: erano una (ottima) band di hard rock ma i discografici vollero a tutti i costi trasformarli in una (pessima) band heavy metal...

 

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BEGGARS & THIEVES

 

 

  • LOOK WHAT YOU CREATE (1996)

  • THE GREY ALBUM (1999)

 

Etichetta:MTM Reperibilità:scarsa

 

Riprendendo il filo lasciato in sospeso qualche anno fa, andiamo a far luce sui due ultimi album dei Beggars & Thieves. E proprio di “far luce” si tratta. Le vicende di questi due dischi sono strettamente legate e tanto complesse e ingarbugliate che ci vorrebbe Sherlock Holmes per chiarirle. Ci sono zone d’ombra che solo la band potrebbe illuminare e tutto quello che possiamo fare è tentare qualche congettura. Proviamo allora a recarci sul luogo del crimine, prendiamo la lente d’ingrandimento, esaminiamo gli indizi e vediamo se riusciamo a trovare il colpevole.

I Beggars & Thieves, dopo il primo, favoloso disco autointitolato, ruppero il contratto con l’Atlantic e ne firmarono uno nuovo con la Epic. La band era ridotta a duo, Louis Merlino e Ron Mancuso, mentre Phil Soussan e Bobby Borg avevano preso altre strade. Registrarono un disco sotto la guida di Jim Vallance che però la Epic decise di non pubblicare per i soliti motivi legati al mutato scenario musicale. Questo dovrebbe essere accaduto nella prima metà degli anni 90. Nel 1996, la MTM rilevò dalla Epic il disco e contemporaneamente, i Beggars & Thieves entrarono nella scuderia della label tedesca. La MTM fece girare un advance tape del disco intitolato ‘What’s’ going on’ che venne recensito sul numero 218 di Metal Shock. Conteneva 12 tracce. Tempo dopo (quanto tempo, non saprei dirvelo), la MTM diffuse un altro advance tape, stavolta intitolato ‘Look what you create’, con 11 canzoni. Nella recensione di Metal Shock non c’è un elenco completo delle tracks, ma figurano sicuramente due titoli che nella lista del nuovo promo non ci sono più, “Red rose parade” e “Gypsies”. Passa altro tempo e la MTM pubblica finalmente il disco, sempre intitolato ‘Look what you create’ e con 11 tracce, ma con una scaletta ancora diversa rispetto all’advance tape con lo stesso titolo. Vengono escluse “Midnight train”, “Don’t call it love” e “Take another piece of my heart” e sostituite con la nuova title track, “Mad dog wine” e “Red rose parade” (che dunque torna in scaletta). Tutti questi pezzi dovrebbero comunque risalire alle sessions del disco registrato sotto la guida di Jim Vallance. Perché non includerli tutti nell’album? Semplice: i Beggars & Thieves stavano nel frattempo registrando un nuovo disco, che uscirà nel 1999, intitolato ‘The grey album’, e le canzoni escluse da ‘Look what you create’ andranno proprio a rimpolpare questo disco. Almeno credo. C’è sicuramente “Don’t call it love”, mentre “Take another piece of my heart” cambia titolo e diviene, più semplicemente, “Piece of my heart”. Ma “Faster” e “Party world”? Queste appartengono sicuramente alle sessions del vecchio album, sono state scritte e prodotte da Vallance, mentre ‘The grey album’ l’avevano scritto e registrato tutto da soli. Potrebbe trattarsi di “Midnight train” e “Gypsies” con un altro titolo? Sembra l’ipotesi più probabile, anche perché la band aveva già cambiato i titoli di diverse canzoni di ‘Look what you create’ tra i due advance tape e la stampa (“Be true to yourself” era diventata “True to yourself”, “Shine the light” era diventata “Shine a light” e così via): restiamo comunque nel campo della più assoluta supposizione. Tirando le somme, possiamo ipotizzare che tutte le canzoni prodotte da Jim Vallance siano state edite, le ultime quattro su ‘The grey album’, oppure che ce ne siano ancora due (“Midnight train” e “Gypsies”) inedite, o addirittura tre, dato che il promo di Metal Shock conteneva 12 tracce e non 11 (ma non disponendo dell’elenco completo delle canzoni dell’advance ‘What’s going on’ potremmo anche ipotizzare un errore della rivista: ovvero, che in realtà sul nastro le canzoni fossero soltanto 11).

Le ragioni di tutto questo balletto isterico di canzoni e titoli sono assolutamente oscure, e non mi azzardo a ricamarci sopra. Veniamo invece (finalmente) alla musica.

Look what you create’ è un disco bellissimo e isterico. I Beggars & Thieves decidono di spostare l’asse del proprio sound dall’arena rock del primo album ad un hard bluesato e vagamente Zeppeliniano, almeno in parte. Difatti, la band non rinuncia a darci saggi di quell’hard rock gigantesco che aveva fatto risplendere in maniera accecante ‘Beggars & Thieves’, e propone anche una decisa attualizzazione del proprio suono su una canzone. Il songwriting è semplicemente stellare, al di là del genere specifico, ma si deve sottolineare una scarsa continuità fra gli universi musicali esplorati dalla band: da qui, il carattere “isterico” di una raccolta di canzoni comunque di valore assoluto. Se “Price of mercy”, “Stranger” e “Bittersweet & blue” ripropongono, in una chiave appena più abrasiva, il big sound del primo disco (quelle melodie enormi ed intense, le chitarre e l’Hammond come panneggi dorati...), “Shine a light” si rivela un hard metallico e durissimo, il beat ed il fraseggio del basso sono quasi da techno industrial band, un pezzo agile, spettacolare e turbinoso. “What’s going on” è una splendida ballad settantiana, languida e pacata, smaltata di Hammond e chitarre acustiche, e non si capisce per quale motivo sia stata messa proprio in apertura: da quando si piazza in cima alla scaletta di un disco di hard rock l’unico brano veramente morbido e rilassato di tutto l’album? Gli altri sei pezzi sono esercitazioni strepitose in tema blues. “Mad dog wine” è un country blues acustico, “Red rose parade” e “Mistify” sono hard notturni, insinuanti, sensuali, arricchiti da refrain tempestosi, “Soul confession” un classico mid tempo lento e pesante, “True to yourself” è più scanzonata e dinamica, addirittura con qualche accento southern e chiude la title track, più lenta ed intensa. Un disco nel complesso magistrale e memorabile, anche nel suo saltabeccare da un genere all’altro.

Per quanto riguarda invece ‘The grey album’, dobbiamo fare una distinzione abbastanza netta fra il materiale di fresca registrazione e quello risalente alle sessions precedenti. Le quattro canzoni prodotte e scritte con Vallance risultano ovviamente in linea con il materiale di ‘Look what you create’, ma caratterizzate dalla mancanza di qualunque influenza blues. “Don’t call it love” ha il solito refrain di ampio respiro stemperato in un’atmosfera quasi glam, e ‘Faster’ procede sulla stessa falsariga, ma con un arrangiamento più heavy; “Party world” è fenomenale, come dei Led Zeppelin in versione glam, mentre “Piece of my heart” affonda di più negli anni 70, con tanto di sax a rifinire. Quattro splendide canzoni. Ma il resto? La qualità audio si mantiene fortunatamente elevata, il suono è soltanto più asciutto. I Beggars & Thieves si muovono in un sostanziale rispetto del proprio sound, ma con influenze grunge che si fanno via via più forti una canzone dopo l’altra. “Cost you nothing to love” ha sempre un’anima settantiana, “Complicate it” replica l’atmosfera ma con una dinamica base funky, “The closer” è una power ballad nelle migliori tradizioni della band, su “Done” e “Beady eyes” ritroviamo la stessa formula di “Cost you nothing to love” ulteriormente sporcata di grunge, “XL” vira di nuovo verso i 70 e chiude “In-between”, la cosa più grunge del disco. La mia impressione è che a tratti il songwriting sia meno efficace, oppure sono le nuove influenze – mai troppo calcate, comunque, almeno fino ad  “In-between”– che rendono le canzoni di fresca composizione meno apprezzabili, almeno al sottoscritto, che il grunge non è mai riuscito a sopportarlo.

La storia dei Beggars & Thieves, purtroppo, finisce qui, con quest’album grigio di titolo e (in parte) di fatto.

 

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LITTLE ANGELS

 

 

  • YOUNG GODS (1991)

Etichetta:Polydor Reperibilità:scarsa

 

 

Pochi gruppi inglesi sono stati beffeggiati e vituperati fuori dai patri confini più dei Little Angels. Perché? E chi lo sa! Forse erano troppo bravi, o ebbero troppo successo in casa loro. L’accusa più ricorrente che gli veniva rivolta era quella di essere dei gran raccomandati. Tutti i posti di support band nei tour più importanti se li beccavano loro ed i magazines britannici si sperticavano in lodi. Se questo poi bastava a farne dei raccomandati... Venivano lodati, certo, ma le lodi erano strameritate. Li spedivano ad aprire i concerti dei big perché sapevano il fatto loro (e chi potevano mandare gli inglesi ad aprire per i Bon Jovi o i Tesla che non apparisse più o meno ridicolo, poi? I Quireboys, forse?). E le raccomandazioni non sono mai servite a vendere i dischi, e i Little Angels con il loro terzo ed ultimo album, ‘Jam’, arrivarono al numero uno delle classifiche inglesi. Ecco, forse il problema era proprio questo: i Little Angels erano inglesi. Facevano un hard rock melodico dal forte retrogusto americano eppure inglese nell’anima, la prima, autentica, originale risposta allo strapotere yankee in questo settore da parte del sempre più negletto rock britannico dopo gli Waysted di ‘Save your prayers’ (1986) e non contando i Notorius di Sean Harris e Robin George, dato che la reperibilità del loro unico disco fu più teorica che reale. E i sudditi di sua maestà britannica risposero bene a questa proposta. Purtroppo, il resto del mondo non fece altrettanto. I Little Angels rimasero fino al loro inspiegabile, assurdo scioglimento un fenomeno locale, veramente poco amato fuori dalle Isole di Albione. Di nuovo: perché? Specialmente in Europa, dove tutti sono sempre così attenti a quello che succede nelle classifiche britanniche, la faccenda era davvero curiosa, e l’avversione di gran parte della stampa specializzata (quella non specializzata faceva semplicemente finta che non esistessero: per le riviste di tendenza, all’epoca, esistevano solo merdine tipo Happy Mondays o Stone Roses) francamente inspiegabile. Forse la colpa – indiretta, naturalmente – era dei Thunder. In Europa, tutti sbrodolavano per i Thunder. I Thunder erano quelli bravi, buoni, belli, sinceri. I Thunder erano i veri rockers cazzuti di Britannia, quelli che si meritavano il supporto, la simpatia, le raccomandazioni e non ne avevano a sufficienza per colpa di questi ragazzini che gli rubavano i posti d’oro nei tour da supporter per pezzi grossi come Van Halen e Bon Jovi. I Thunder erano onesti e genuini, erano il DOC del british rock, tutti birra e pub e chitarrone anni 70; i Little Angels, invece, avevano le tastiere, la melodia, le produzioni sofisticate e quindi erano degli schifosi venduti... Non ridete, perché ai bei-tempi-che-furono, quando il giornalismo musicale in campo hard rock era dominato da schiere di gente cresciuta ad AC/DC, Deep Purple e Motorhead, questo genere di ragionamenti teneva banco, e finita la recensione dei Jane’s Addiction o dei Soundgarden, tutti questi signori tiravano fuori la loro brava cassettina dei Saxon o degli Iron Maiden e giù con l’headbanging... 

Questo problema di farsi accettare anche sul vecchio continente rimase irrisolto, nonostante diversi tour come supporter sul suolo europeo ed una promozione da parte della Polydor che ad un certo punto ebbe un culmine d’intensità furibonda e quasi rabbiosa, mentre negli Stati Uniti le cose andarono, se possibile, ancora peggio (ma anche negli USA non si lesinarono sforzi per farli conoscere: li mandarono in tour con i popolarissimi – all’epoca – White Lion). Insomma: tutto bene a casa e tutto male all’estero, al punto che una ormai esasperata Polydor pare fosse seriamente intenzionata a licenziarli, nonostante il numero uno di ‘Jam’. Ma la band batté sul tempo la propria label, annunciando nel 1994 uno scioglimento (mai motivato) che aveva comunque del pazzesco, considerati i favori riscossi in patria (il tour di addio fu una sequela di sold out che si concluse in gloria addirittura alla Royal Albert Hall). Se pure la Polydor li avesse scaricati, non c’è dubbio che un’altra label, forse anche una major, li avrebbe accolti a braccia aperte. E allora? Mistero. E un mistero ancora più misterioso se si considera che diversi membri della band svanirono nel nulla o finirono ai margini del music business, in particolare il singer Toby Jepson, che avviò una stentatissima carriera solista costellata di frequenti black out  (si è rifatto vivo da poco nel Regno Unito andando a fare da supporto proprio ai Thunder). 

In mezzo a questa sequela di stranezze e incongruità, stanno i dischi: tre magnifici, superbi dischi. Varrebbe la pena di passarli tutti al setaccio, ho scelto ‘Young gods’ perché dei tre è quello che probabilmente preferisco, forse il più equilibrato, ‘Don’t prey for me’ risultava un po’ più irruente, ‘Jam’ più rilassato e con arrangiamenti meno densi e avventurosi. 

La ricetta dei Little Angels era, a suo modo, molto semplice, e partiva dal concetto della completa saturazione dei due canali stereo: sovrincisioni a tonnellate, parti su parti di chitarre e tastiere... Ogni canzone era un vero e proprio tsunami che si abbatteva sull’ascoltatore lasciandolo senza fiato. Il suono era sempre brillante, colorato, dinamico. Il songwriting era una sintesi miracolosa del più classico rock inglese dai Beatles in giù con quello americano che andava per la maggiore (se proprio dobbiamo fare nomi, diciamo Bon Jovi), il tutto abilmente smaltato di rhythm and blues: il risultato finale di questo melange era talmente compatto e coerente con se stesso da generare un sound che se non si poteva definire originale al cento per cento era sicuramente la cosa più fresca ed eccitante venuta fuori dalle isole britanniche dai tempi di ‘Pyromania’ dei Def Leppard. 

Young gods’ era salomonicamente prodotto da Jimbo Burton (americano) e A.J. Paul (inglese) e se a loro va il giusto plauso per questo sound contemporaneamente caldo e cromato non si può non tributare un omaggio altrettanto sacrosanto a Steve Thompson e Michael Barbiero, che si sobbarcarono il compito (immagino) improbo di mixare tutta questa caterva di roba, e riuscirono ad ottenere un nitore spettacolare pur nel sovrapporsi travolgente degli innumerevoli piani sonori. Apre “Back door man”: un breve canto a cappella, l’organo ed una rullata militareggiante fanno da preludio ad una stesura anthemica e sinuosa, impreziosita da una breve coda d’archi, mentre “Boneyard” è più dura e martellante, spezzata da un bridge funk. Un intro acustico tra i Beatles e la cowboy song ci porta dentro la title track, ancora una cavalcata, con una bella chitarra slide e note di piano che cadono come pioggia sul coro. “I ain’t gonna cry” è una power ballad dove atmosfere alla Bon Jovi vengono sapientemente temperate da un morbido flavour britannico, “The wildside of life” è un hard rhythm & blues da saloon, veloce, scatenato, gli ottoni ed il piano impazzano; virata verso gli anni 70 con “Product of working class”, dominata dal dialogo tra hammond e chitarra in cui vanno ad incunearsi i fiati. Più scanzonata “That’s my kinda life”, caratterizzata da un coro dove intervengono piano e banjo, un assolo country blues, l’hammond, gli intrecci vocali... “Juvenile offender” è quasi una power ballad, i Beatles passati attraverso il filtro del rock americano, con un bridge solenne e drammatico, “Love is a gun” scorre veloce sotto un piano martellante, un hard rhythm & blues dal tempo boogie condito di bridge e assolo vulcanici e metallici. Una chitarra pulsante apre “Sweet love sedation” che si sviluppa in un clima insinuante e notturno risolvendosi in un coro prima tutto blues e ottoni poi dominato di nuovo da quella chitarra che pulsa e sfarfalla sotto un ritornello diretto e incalzante. “Smoke in my eyes” la conducono un giro di chitarra molto anni 70 e l’Hammond mentre “Natural born fighter” è un anthem bluesato e ruggente contraddistinto da una frase vibrante di synth con un finale accelerato e rock’n’roll che si perde in un rumore bianco di keys e chitarre. Chiude “Feels like the world has come undone”, una ballad per voce e piano prima che irrompa tutta la band e la solita sezione fiati (veri, non campionati), sviluppando il tema melodico della canzone in maniera orchestrale e quasi pomposa.

Avrete notato che non ho espresso giudizi di valore particolare su nessuna canzone: questo perché non c’è scheggia di questo disco che sia inferiore alle altre, ogni pezzo ha le sue particolarità, gli arrangiamenti non si ripetono mai allo stesso modo, in ciascuna canzone potete trovare invenzioni, sorprese, una fantasia sbrigliata che non degenera mai in gioco fine a se stesso. ‘Young gods’ (allo stesso modo dei due dischi che lo precedono e lo seguono) è uno di quei rari album in cui ogni ascolto può dischiudere nuove prospettive, e questo senza mai perdersi in meandri contorti e cerebrali: un’opera spumeggiante e piena di una vitalità apparentemente inesauribile che suona “nuova” ogni volta che si riascolta. Se un difetto proprio vogliamo trovarlo, diciamo che la band avrebbe fatto un gran bene a stampare le lyrics nel booklet, perché Toby Jepson, pur essendo un grandissimo singer, non è proprio facilissimo da decifrare (e questo è il motivo per cui mi ritrovo più spesso a risentire ‘Jam’ piuttosto che ‘Young gods  o ‘Don’t prey for me’: è l’unico con i testi delle canzoni tutti scritti in bell’ordine). 

Il ricordo di questa band è tutt’altro che sbiadito, e la sua lezione non è andata affatto perduta: basta ascoltare l’ultimo album dei Manic Street Preachers per rendersene conto. Resta il rammarico per una storia finita così presto e per un discorso musicale che meritava di essere apprezzato molto più di quanto lo sia effettivamente stato da un pubblico che si dimostrò sordo ad una proposta che aveva il solo difetto di essere non abbastanza piatta e scontata per le legioni di AOR fans pronte a sbavare per l’ennesimo clone dei Def Leppard o dei Journey gettato nella mischia dalla major di turno.