AORARCHIVIA

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ONLY CHILD

 

 

  • ONLY CHILD (1988)

Etichetta:Rampage Reperibilità:in commercio

 

Riassumere la lunga carriera di Paul Sabu non è cosa da poco. Il figlio della star hollywoodiana Sabu (l'indiano mingherlino di innumerevoli film degli anni '50) dai primi anni '80 ad oggi ha firmato un numero considerevole di album, anche se la sua attività primaria resta quella di produttore/ingegnere del suono, sopratutto in campo hard rock ( Silent Rage, Tattoo Rodeo, Little America, Alexa, Glass Tiger, Precious Metal, ecc.) ma senza disdegnare la scena pop ( ha lavorato anche con Robbie Nevil, Madonna, Sheena Easton, David Bowie e tanti altri). Tutta la sua carriera di musicista si è poi svolta in ambito indipendente, con le conseguenze nefaste che una tale scelta ha sul numero di persone raggiungibili dalla propria musica. Sulla reale convinzione di Sabu nel perseguire la carriera di rockstar si può dunque nutrire qualche legittimo dubbio; un vero peccato, perché il nostro aveva tutto quello che occorreva per sfondare nei favolosi anni '80: la presenza fisica, ed una voce straordinaria che ne faceva un David Coverdale più rauco e sanguigno.

Tra i suoi album, scelgo quello più AOR, il primo del progetto Only Child, band di cui Sabu era produttore, cantante e chitarrista (l'altro disco aoeregiante di Sabu è il secondo che incise, con il monicker Kid Glove, nel 1984, piacevole ma irrimediabilmente datato nei suoni e nello stile, un album che fu stampato in forse cinque copie e della cui reale esistenza per parecchio tempo si arrivò addirittura a dubitare). ‘Only Child’ viene pubblicato nel 1988, in piena bagarre AOR, e se Sabu c'avesse veramente creduto non l'avrebbe fatto uscire per la Rampage, una minuscola sotto-etichetta indipendente che mise il disco fuori catalogo pochissimo tempo dopo la sua uscita (è disponibile come ristampa integrale già da un paio d'anni; nel 1995 la defunta Long Island ne ristampò una parte assieme a tutto l'album dei Kid Glove).

'Only Child' rappresenta assieme al suo predecessore - il più massiccio e purpeliano 'Heartbreaker' - il top compositivo di Sabu, che non riuscirà più a ripetersi a questi livelli negli album successivi pur continuando a sfornare buon heavy rock americano nobilitato comunque dalla sua grandissima voce. Su quest'album domina l'hard melodico e anthemico, una sequenza ininterrotta di potenziali hit. "Always" è una deliziosa ballad, "I remember the night" alterna fisicità ed un suadente feeling notturno; "Just ask", "Rebel eyes","Shot heard around the world" sono grandissimi anthem. Né Sabu rinuncia agli assalti frontali, che si intitolano "Love to the limit" e "Scream until you like it", quest'ultima scritta in origine per i Wasp e qui abbondantemente riarrangiata.

Come già detto, le prove successive del nostro non si porranno su questi livelli, e Sabu - dopo questa parentesi AOR - tornerà all'hard rock massiccio che evidentemente considera terreno molto più adatto alla sua ugola d'acciaio.

 

 

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GARY MOORE

 

 

  • RUN FOR COVER (1985)

Etichetta:Virgin Reperibilità:in commercio

 

Facciamo un bel salto indietro nel tempo, stavolta. L'album in questione è uscito, difatti, nel 1985. E che album, signori miei...

Gary Moore veniva da una quantità di esperienze diverse, la più nota delle quali era la collaborazione con i Thin Lizzy. Dopo aver tentato senza successo la carta del pop con i G-Force, Gary Moore rivolse le proprie attenzioni oltre atlantico, verso il mercato nordamericano che a quell'epoca (giorni felici...) impazziva per l'AOR. Così assembla un team stellare di produttori e ingegneri del suono (Mike Stone, Andy Jones, Beau Hill, Peter Collins) e si butta a capofitto nell'hard melodico, mettendo in mostra una lucidità compositiva straordinaria e sicuramente insospettabile per chi aveva seguito la sua carriera fino a quel momento. Pur essendo dotato di una voce nient'affatto disprezzabile, non esita a passare il ruolo di vocalist a Glenn Hughes su tre canzoni, segno evidente della volontà di ottenere il massimo per un disco che doveva essere il suo passaporto per il ricco mercato americano.

E non si può cominciare a parlare di questo disco senza menzionare subito "Empty rooms", una delle poche ballads che possono realmente reggere il confronto con quelle di Journey e Bad English, una canzone semplicemente stratosferica, lineare, essenziale, fatta di poche note messe esattamente lì dove servono ed un testo scarno, diretto, che colpisce dritto al cuore. Ed è l'unico pezzo lento di un album per il resto decisamente dinamico, a tratti addirittura aggressivo ( la title track, "Out in the fields" ) che anticipa l'atmosfera guerriera dei due dischi successivi, 'Wild frontier' (eccezionale) e 'After the war'(fotocopia non del tutto riuscita del precedente), fieramente hard rock.

Scartiamo "Military man", piece a là Thin Lizzy scritta a quattro mani con Phil Lynot che la canta e incide le parti di basso, assolutamente fuori contesto (non esprimo giudizi di valore su questa song: i Thin Lizzy non mi hanno mai detto molto, né ho mai capito i motivi della loro popolarità sopratutto in ambito di critica; probabilmente faceva premio la naturale simpatia dello sfortunato Phil Lynot sull'effettivo valore della loro proposta musicale), e saltiamo a "Reach for the sky", raffinato hard melodico intonato da Glenn Hughes. Chi spreca peana per i nuovi dischi del'ex-bassista dei Deep Purple, dovrebbe rinfrescarsi la memoria andando a risentire ciò di cui era capace su quest'album o su ‘Seventh Star’ dei Black Sabbath: oggi il povero Glenn è diventato quasi un sosia di Vince Neil, la sua voce s'è ridotta ad un gracchiare acido, legnoso, acuto in maniera quasi fastidiosa, una specie di Stevie Wonder rugginoso e un po' patetico nella sua insistenza su toni funkeggianti. Qui la voce del nostro è aggressiva, potente, ricca di colore e sfumature, realmente in grado di fare la differenza, duttile al punto da poter passare con assoluta disinvoltura dallo spettacoloso anthem "Nothing to loose" al divertente boogie alla AC/DC "All messed up". Gary Moore torna al microfono per la melodica "Once in a lifetime" ed il soft - anche troppo - AOR di "Listen to your heartbeat".

Dopo i due dischi già citati, Gary Moore si convertirà al blues con album apprezzabili ma decisamente lontani dai vecchi lidi AOR.

 

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ALDO NOVA

 

 

  • BLOOD ON THE BRICKS (1991)

Etichetta:Jambco/Polygram

Ristampa:Cherry Red

Reperibilità:in commercio

 

Per i fan di vecchia data dell'AOR, Aldo Nova non è certo uno sconosciuto, e men che mai un nome minore. É uno di quelli della prima, storica ondata che contribuì a instaurare la dittatura del melodic rock negli USA. In quel mitico 1982, accanto a Journey, Foreigner, Boston, Toto, Bryan Adams, c'era anche il nostro oriundo (vero nome, Aldo Caporuscio), che con il suo primo, omonimo album, fece addirittura il disco di platino, guadagnandosi la stima di critica e fans e sorgendo come una stella di prima grandezza nel nuovo firmamento musicale di quel genere che poi sarebbe stato chiamato Adult Oriented Rock. La replica dell'anno successivo, 'Subject', non fece che confermare le qualità del nostro, ottimo polistrumentista ed eccellente songwriter. Nell' '85 andò in porto il terzo disco, lo straordinario e sottovalutato 'Twitch'. E poi il silenzio. Il mezzo fiasco di 'Twitch' e una lunga serie di problemi contrattuali con la CBS, sua label dell'epoca, lo tennero lontano dalla ribalta. Continuò un po' in sordina la carriera di session man e produttore (ha lavorato con Lita Ford, Bon Jovy, Drive She Said, Michael Bolton, Blue Oyster Cult e molti altri), scendendo giù giù la china fino a toccare il fondo suonando nella backing band di Cyndi Lauper (ma se la ricorda poi qualcuno, Cyndi Lauper? A beneficio dei più giovani, ricordo che era una tizia che pareva avere come unico scopo nella vita quello di scopiazzare le canzoni ed il look di Madonna; già alla fine degli anni '80 era diventata solo un ricordo o una curiosità enciclopedica).

Nel 1991, eccolo ricomparire per una nuova avventura solista che nasce sotto l'egida di Jon Bon Jovy, con cui aveva suonato nella colonna sonora di "Young guns II" l'anno precedente, che produce con lui il nuovo disco, collabora alla stesura delle canzoni e pubblica il lavoro per la sua etichetta, la Jambco.

'Blood on the bricks' conserva ben poco del vecchio sound di Aldo Nova, anche le aperture tecnologiche di 'Twitch' vengono rinnegate a favore di un hard melodico che segue con buona ispirazione ma scarsa originalità il sentiero tracciato da Bon Jovy, probabilmente una scelta calcolata per reinserirsi in un mercato che lasciava poche chance alle interpretazioni più originali dell'AOR e su cui il nostro si riaffacciava quasi da debuttante (erano passati la bellezza di sei anni da 'Twitch' ). "Someday" e "Hey, Ronnie" non avrebbero certo sfigurato su 'New Jersey' , ma fa comunque un certo effetto sentire Aldo che fa il verso a Bon Jovy su queste per altro graziose power ballads... "Young Love" vira in direzioni Bryanadamsiane: niente di strano, visto che la coppia Nova/Bon Jovy diventa qui un terzetto, ed il terzo si chiama Jim Vallance. Molto meglio il commercial-funky "This ain't love", il ritmo convulso, scandito dai fiati, della title track, la melodia quasi pop di "Bang Bang" e sopratutto "Medicine Man", un hard melodico bluesato, con una più che discreta vena anthemica ed un arrangiamento memore - almeno nello spirito - di più avventurosi episodi del passato.

L'assistenza del 'padrino' Bon Jovy non bastò comunque a salvare 'Blood on the bricks' da un altro mezzo  fiasco. Forse Aldo Nova s'era ormai bruciato presso il grande pubblico, forse la concorrenza di altri act più giovani e meglio attrezzati nell'immagine tolse visibilità al ritorno del nostro, forse il neonato grunge finì per tagliargli le gambe. Che la Jambco in questo disco ci credesse è testimoniato dalla sua lunga permanenza nei forati, indiscutibile prova di una stampa avvenuta in numero massiccio di copie.

Deluso e sfiduciato, Aldo Nova passò più o meno definitivamente dall'altra parte della barricata (la pubblicazione di un album strumentale, nel 1996, non testimonia certo il desiderio di riaffacciarsi alla ribalta) entrando nel team di Celine Dion, con cui collabora tutt'ora. Un grande talento perduto alla causa dell'AOR.

 

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FIFTH ANGEL

 

 

 

  • FIFTH ANGEL (1986 / 1988)

  • TIME WILL TELL (1989)

Etichetta:Epic/CBS Reperibilità:in commercio

 

Recentissimamente ristampati, i Fifth Angel appartengono al nostro genere solo a metà, ma sono anche un’ottima scusa per parlare ancora dell’heavy metal americano e dello stato di crisi in cui venne a trovarsi a metà anni 80, come ho già ampiamente raccontato nella recensione dei Rough Cutt. Contrariamente a questi ultimi, i Fifth Angel partirono senza fare compromessi di sorta con la scena melodic metal, ed il loro primo, omonimo album (che comprendeva le quattro canzoni dell’EP autoprodotto dalla band più cinque nuove composizioni - il tutto prodotto da Terry Date - pubblicato dalla Shrapnel nel 1986, poi rimixato e ripubblicato dalla Epic un paio d’anni dopo) è senza mezzi termini un capolavoro del power metal USA, con precisi riferimenti a Manowar, Dio e Virgin Steele, ma diluiti in un contesto meno retorico, più elettrico, senza richiami medievaleggianti e testi spiccatamente fantasy. Ted Pilot, il cantante, si esprimeva come un Ronnie James Dio più giovane e incazzato, il solista James Byrd era un chitarrista impetuoso e torrenziale, Ed Archer un ritmico dal riffing devastante, la batteria pilotata da Ken Mary (successivamente con Alice Cooper e gli House Of Lords) sprigionava un ciclone di potenza metallica inarrestabile (le parti di basso sulle nuove canzoni furono suonate da Randy Hansen dato che l’originario bassista Kenny Kay aveva lasciato la band ancora prima che i ragazzi firmassero per la label di Mike Varney). I patiti dell’epic metal più canonico potevano ritrovarsi a loro agio nelle solenni “Call out the warning”, “Fifth angel” e “Wings of destiny”, ma la band risultava davvero vincente nelle partiture più dirette di “The night”, “Shout it out” e sopratutto nel mid tempo spaccaossa “Only the strong survive”. Notevolissima anche la power ballad “Cry out the fools”, con quel touch of class che ne temperava sapientemente il clima epicheggiante.

Naturalmente, questo disco aveva poche possibilità di farsi strada nelle charts americane, dominate da ben altre alchimie sonore: a nulla servirono il sostegno della Epic ed i servigi del Concrete Management, la proposta era troppo fuori dagli schemi più in voga per risultare gradita al pubblico di Ratt e Mötley Crüe. E così i Fifth Angel, con il secondo album ‘Time will tell’ (1989), prodotto da Terry Brown, già al lavoro con i Rush, dettero – seguendo l’esempio (tanto per fare un paio di nomi) degli Odin e degli stessi Virgin Steele – una discreta sterzata al proprio sound, aumentando il fattore melodico nelle composizioni, aggiungendo un po’ di tastiere qua e là, separandosi dal troppo classicheggiante e malmsteeniano James Byrd e assumendo un nuovo solista, Kendall Bechtell, dal fraseggio meno barocco. Il risultato fu straordinario: se c’è un disco che cammina esattamente sulla linea che divide il class dal più tradizionale heavy metal, è sicuramente ‘Time will tell’. I Fifth Angel prima guardavano verso l’epic di marca Dio, qui sono Scorpions, Dokken, Racer X e M.A.R.S. i punti di riferimento: la band non rinuncia alle atmosfere epicheggianti, ma le ambienta a volte in  un clima di teutonico lirismo, lontano dalle marce guerriere del primo album. La sola “We rule” rievoca i fervori barbari del passato, mentre “Seven Hour”, “So Long” e “Cathedral” risplendono di suggestive tinte melodiche pur in contesti spiccatamente heavy metal. “Midnight love” è un class di pura marca Dokken; “Angel of mercy” rinnova ancora il connubio tra il metal più classico e l’heavy melodico USA; “Wait for me” avrebbero potuto firmarla gli XYZ del primo album; “Broken dream” è una power ballad galattica, struggente e virile senza enfasi ridicole; “Time will tell” un vero e proprio anthem da stadio. Ciliegina sulla torta, la cover di “Lights out”, il classico degli UFO, che la band onora con un’interpretazione da urlo.

Ma i risultati pratici di questo nuovo approccio alla materia non furono più incoraggianti di quelli ottenuti con il primo album. Chi aveva consumato i propri timpani con ‘Fifth angel’, probabilmente si affrettò a classificare la band fra i traditori della fede, gli altri semplicemente passarono oltre, senza degnare ‘Time will tell’ di un ascolto che gli avrebbe dischiuso autentiche meraviglie. Tutti i membri della band rientrarono nell'ombra da cui erano usciti solo fuggevolmente, ed il rammarico sta forse sopratutto nell’aver perduto un singer del valore di Ted Pilot, che con quel suo timbro maschio e pesante avrebbe potuto diventare il Ronnie James Dio del class metal e invece oggi fa il dentista (!!). Sic transit...

 

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MICHAEL THOMPSON BAND

 

 

  • HOW LONG (1989)

Etichetta:Geffen

Ristampa: Frontiers

Reperibilità:in commercio

 

Sarà dura ammetterlo, ma noi seguaci del rock genericamente duro non apriamo gli occhi ogni mattina sentendoci costantemente furibondi e/o allupati. La nostra attività mentale non è sempre dominata dai pensieri fissi che ogni class rocker si vanta di portare stampati nel cranio (birra, donne, feste...). Perfino i Poison e i Mötley Crüe, ogni tanto si fermavano a riprendere fiato con una “Every rose has it’s thorne” o una “Home sweet home”, no? Non si può passare la vita a stappare lattine di Nastro Azzurro (la Bud potete scolarvela tutta voi, grazie) e scartare preservativi e filare a centrotrenta su una highway assolata (sopratutto se la highway è la Salerno-Reggio, con i cantieri ogni cento metri, o corre in mezzo alla Pianura Padana, con quella nebbia densa come un materasso che fa tanto londinese, per non parlare di quello che costa oggi la benzina...). Nessuno rinnega l’episodio soft all’interno di un disco, ma se l’album veleggia con continuità attraverso atmosfere non esattamente tutte fuoco & fiamme, qualcuno potrà anche obiettare che di “rock” propriamente detto non si può più parlare. Indubbiamente, le frange più morbide dell’AOR sono anche le meno digeribili per il grosso del pubblico dell’hard rock, sopratutto dalle nostre parti, dove il concetto di “rock da FM” non è mai stato assimilato a dovere (a meno di non considerare tale il materiale proposto da personaggi come Vasco Rossi, Ligabue o i Litfiba). Ed è strano che di regola abbia più fortuna il singolo episodio caramelloso, magari inserito a forza in un contesto tutt’altro che zuccherino, piuttosto che una successione di melodie intelligenti servite con classe e raffinatezza. Il primo album della Michael Thompson Band appartiene proprio a questo genere fatto di grandi melodie e scarsa veemenza, musica concepita sopratutto per carezzare ed affascinare, non per tirare calci e sberle.

Mike Thompson era un chitarrista noto al pubblico AOR sopratutto per il suo sodalizio con il grande Jeff Paris, ma poteva vantare un curriculum lungo un braccio di collaborazioni prestigiose (Joe Cocker, Cher, Andy Fraser, Stanley Clarke, Stuart Copeland, le colonne sonore dei telefilm Miami Vice e Saranno Famosi), il cantante che lo accompagnava in questa avventura, Rick “Moon” Calhoun aveva iniziato la sua carriera negli anni ’70 come batterista per Chaka Khan ed i Rufus, nel 1980 si era rivelato un ottimo singer con The Strand, aveva collaborato poi con la Little River Band e Scott Gorham. Con John Andrew Shreiner  alle keys, Leon Garner al basso e John Keane alla batteria, un pugno di ospiti prestigiosi (Pat Torpey, Terry Bozzio, Jimmy Haslip, Bobby Kimball) e la produzione di Michael Lardie e Wyn Davis in licenza dai Great White, confezionano un’impeccabile sequenza di schegge melodiche, dieci gemme splendenti di purissimo AOR. La formula è chiara fin dall’iniziale “Secret Information”, tutta basso slappato, larghi flash di keys, armonie di chitarra elettrica, un grande gioco d’atmosfera sulla scia dei Foreigner più sofisticati, gli interventi della chitarra sono densi e misurati sboccando in un assolo elegantemente sporco. “Give love a chance” è il momento più soft del disco, con la chitarra che punteggia e sottolinea finché Michael non si lancia in un lunghissimo assolo che rende gli ultimi tre minuti della canzone un vero e proprio strumentale. “1000 nights” è puro atmospheric power, come dei Giant più morbidi; “Wasteland”, superba, drammatica, vira in territori Survivor e Bad English; “Never stop falling” (scritta assieme a Jeff Paris, che poi la reinciderà sul suo 'Lucky this time' sempre con Mike  Thompson alle chitarre), possiede una linea melodica fresca e accattivante, Mike si concede per la prima ed ultima volta l’uso delle chitarre acustiche in un clima rustico/sofisticato (e non è un paradosso); “Can’t miss” ha un bel riffone tagliente che irrompe dopo un intro traditore di keys leggiadre, alternandosi a tastiere squillanti, sprazzi funky, sopratutto nel coro: che classe! Altro momento soft con “Gloria”, molto Toto, melodia stuzzicante e le tastiere che prendono il sopravvento sulla chitarra prima della scheggia più hardeggiante, “Stranger”, atmosfera fascinosa per un refrain semplice, lineare, ancora debitore dei Survivor come la successiva “Baby come back”, un grande funky high tech rilegato pregevolmente dai cori femminili. Conclude la title track, non tanto una ballad, quanto una melodia vellutata condotta dal pianoforte sullo stile di Bruce Hornsby, con la chitarra che suona piano ed in sordina.

La Michael Thompson Band  finirà in naftalina fino al 1998, con il suo leader sempre impegnato nel lavoro di studio, per una release intitolata ‘The world according to Michael Thompson’, molto più soft di ‘How long’ e comunque non all’altezza di questo masterpiece.

 

 

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DIVING FOR PEARLS

 

 

  • DIVING FOR PEARLS(1989)

Etichetta:Epic

Ristampa:Rock Candy

Reperibilità:in commercio

 

Lost gem... non più, adesso. Per lo scorno dei venditori specializzati in rarità, ecco giungere la ristampa del primo album dei Diving For Pearls. Rimasterizzato e con cinque bonus tracks, addirittura.

Dimenticate la recente rentrée di ‘Texas’, che vedeva il solo Denny Malone reduce della line up originale. I Diving For Pearls (il monicker era ispirato ad un verso di una canzone di Elvis Costello, e ha un doppio senso nel mondo dei gay americani che la band scoprì solo dopo l’uscita del disco) entrati nella leggenda sono quelli di quest’album autointitolato, prodotto da David Prater. E “leggenda” non è un termine azzardato per qualificare questa band, che riuscì nell’impresa di forgiare un sound autenticamente originale in un momento in cui pareva che l’unico modo per ottenere un contratto da una major fosse mettersi a fotocopiare Bon Jovy o i Def Leppard. Difatti, i DFP costruivano le loro canzoni mescolando in dosi rigorosamente equivalenti il più classico sound AOR con spunti ripresi da bands new wave britanniche, in particolare U2 e Simple Minds. Non meraviglia, allora, che questo disco avesse un grosso successo in Gran Bretagna, Europa e Giappone, lasciando però tiepidi gli yankees al punto da indurre la Epic a licenziare la band a causa delle scarse vendite casalinghe.

L’unica concessione al convenzionale che la band si concede lungo l’arco del disco è “The girl can’t stop it”, un up tempo serrato, un po’ Foreigner, non a caso piazzato per ultimo nella scaletta, tutto il resto è una cavalcata ininterrotta in territori inesplorati. Su “Gimme your good lovin’” e “You’re all I know” Danny Malone canta come un Bono AOR su un tessuto vagamente Honeymoon Suite dilatato da tastiere molto Simple Minds, e la band di Jim Kerr torna a farsi sentire nella grande atmosfera di “I don’t want to cry” (con qualche scheggia Alias), ed in “Have you forgotten”, dove le keys vanno a posare su una chitarra ruggente. Il riff portante di “I close my eyes” è un classico, la melodia che Danny Malone ci ricama sopra proprio no: sarà un’ eresia, ma mi pare che se gli Smiths, anziché consacrarsi a quel rockettino tagliato su misura per adolescenti depressi e dubbiosi riguardo i propri orientamenti sessuali, si fossero dedicati all’AOR, avrebbero finito per suonare esattamente in questo modo. “New moon” è un frammento sognante che ricorda distintamente i grandi Boulevard del primo album, mentre sulla superba “Never on Sunday” occhieggiano Giant e Bryan Adams. “Mistery to me” è forse il top del disco, il chitarrista Yul Vazquez tira fuori dal cilindro un riff degno di The Edge su cui si adagia una favolosa melodia AOR, ma il frammento più audace è “Keep our love alive” un dinamico up tempo, rockeggiante ma sempre tramato di atmospheric power, un impasto impossibile di Simple Minds, Huey Lewis e World Trade (!!).

Delle bonus tracks contenute nella ristampa non posso riferirvi dato che il mio CD è un originale del 1989, ma dovrebbero essere sopratutto riprese live, più una cover dei The Cult, anche questa registrata dal vivo. Ugualmente non sono in grado di giudicare la qualità del remastering, ma dato che l’edizione Epic già aveva un suono a ventiquattro carati...

Come scrivevo nella pagina dedicata alla guida agli acquisti on line: non si può mai sapere quello che può venire fuori dal cilindro delle ristampe, e chissà che da qualche parte, qualcuno non ci stia preparando una sorpresa di nome Hurricane o Salty Dog o Tall Stories…