AORARCHIVIA

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DAKOTA

 

 

  • RUNAWAY (1984)

Etichetta:MCA Reperibilità:in commercio

 

Storia lunga e intricata, quella dei Dakota. Anziché riassumerla qui, preferisco rimandare chi è eventualmente interessato a seguirla (in tutte le sue svolte e giravolte più o meno intricate fra cambi di nome, line up e label) alla dettagliata scheda di Wikipedia (in inglese). Veniamo invece al più noto prodotto intestato a questo moniker, il secondo album uscito nel 1984, ‘Runaway’. Disco che all’uscita passò inosservato (anche per il cronico disinteresse della MCA ad attirare qualche sguardo su ciò che pubblicava) ma è stato poi consacrato cult classic da fan e compilatori di classifiche e best of dell’AOR. E anche se le ristampe sono arrivate relativamente tardi (se ne contano almeno quattro tra il 2002 e il 2012) oggi trovate ‘Runaway’ anche su Amazon Music, segno inequivocabile della canonizzazione del prodotto, e senza trascurare il fatto che è stato proprio in grazia di questa fama postuma che il moniker è sopravvissuto, e ad oggi conta un totale di sette release di studio (l’ultima nel 2015) più una compilation. Insomma, i Dakota sono oggi una di quelle band da citare se si vuol fare bella figura presentandosi come (cito il mio mentore, Beppe Riva) esteti & amateurs dell’AOR. Ma ‘Runaway’ è davvero quella meraviglia che un pubblico trascurato e distratto ignorò quasi quaranta anni fa?

La band era praticamente ridotta a duo dopo il primo album uscito nel 1980, Jerry Hludzik e Bill Kelly (entrambi a voce e chitarra), e ‘Runaway’ venne inciso grazie a una consistente pattuglia di session men tra cui si contano Steve Porcaro e Richie Zito mentre la produzione era nelle mani del batterista dei Chicago, Danny Seraphine, che contribuiva anche come strumentista.

Apre la title track, canzone molto buona che trasuda Journey da tutti i pori, i Journey di “Don’t Stop Believin’” e “Who’s Crying Now” con parti di tastiere un po’ più robotiche, e la ricetta viene replicata in “Tonight Could Last Forever”, pop rock gentile nelle strofe che si fa più elettrico nel refrain. Su “Heroes” – classica ballad dal clima orchestrale in crescendo – spira inizialmente qualche refolo Boston, ma i Journey tornano a riecheggiare nel finale, mentre “When the Rebel Comes Home” cambia registro sparando un po’ di tastiere geometriche fatte col sequencer all’avvio, poi un riff pulsante, keys leggiadre e un canto pop racchiudono una track in perfetto tile primi anni ’80. Se la secchezza di “Love Won’t Last” fa pensare a dei Cars in versione AOR, “Into the Night”, diretta nonostante l’intro pomposo di tastiere, torna alla solita matrice, magari aggiungendoci qualche pizzico di Survivor. Una frase di pianoforte parente stretta di quella che ha reso immortale “Who’s Crying Now” ci porta nel bell’AOR robusto e drammatico intitolato “Angry Men”, la power ballad “If Only I’d Know It” ha bei chiaroscuri, molto ben giostrati fra chitarre e tastiere e a chiudere arriva il pop rock “Over and Over”. Nelle ristampe figurano regolarmente due bonus track: “Believin’”, con una bella vena soul/r&b, ma sempre nel solito contesto dell’AOR di marca Journey, e “More Love”, che ha qualche tocco funky nelle strofe.

Gran bel disco, insomma, prodotto e registrato come si deve, ma – è innegabile – carente di personalità: Hludzik e Kelly si accontentano di replicare il sound in voga, e si dimostrano fin troppo affezionati a quello codificato dai Journey. Ma la pura forza del songwriting è sufficiente a innalzare ‘Runaway’ dal cumulo di dischi-fotocopia che in pochissimo tempo inflazioneranno il mercato, anche se resto scettico riguardo un suo eventuale successo nell’ipotesi che la MCA lo avesse promozionato come si deve, e questo per il semplice fatto che nessuno di quelli che si rifaceva tanto sfacciatamente alla band di Neal Schon (per quanto abile e ispirato fosse) è mai riuscito non dico a bissarne il successo, ma perlomeno ad affacciarsi nei quartieri alti di Billboard. Tutto sommato, ‘Runaway’ era davvero un prodotto per esteti & amateurs dell’AOR, destinato già in partenza ad ottenere fama soltanto da questa ristretta pattuglia di ascoltatori.

 

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BLACK STONE CHERRY

 

 

  • SCREAMIN' AT THE SKY (2023)

Etichetta:Provogue Reperibilità:in commercio

Pare proprio che i Black Stone Cherry non abbiano più interesse a sposare il rock moderno a quello classico e al blues. Questo ‘Screamin’ At The Sky’ è fatto solo e soltanto di rock moderno come il suo predecessore ‘The Human Condition’ (lo recensii su Classic Rock), ma rispetto a quello si presenta molto più piatto, praticamente monocorde, sempre mesto e/o feroce (la sola “Smile, World” suona appena più pimpante), e il risultato finale è una quasi clonazione degli Alter Bridge e degli Shinedown d’antan, ma fatta senza fantasia né (e questo è davvero grave) personalità, una rimasticatura di cose che sentiamo praticamente identiche da più di vent’anni, al punto che quel “moderno” che usiamo per etichettare il genere ha ormai un che di paradossale: c’era una bella distanza tra il rock che si faceva nel 1960 e quello suonato nel 1980, invece nel 2023 si continua in sostanza a fare tutto ciò che si faceva nel 2000. Perché accade questo? Forse perché manca ormai del tutto la selezione naturale operata dal pubblico, la spinta a cercare qualcosa di nuovo per accattivarselo, un problema che affligge tutti i generi di nicchia e il rock, ci piaccia o no l’idea, è ormai solo un genere di nicchia, che si rivolge a un pubblico dai gusti cristallizzati e tutt’altro che giovanissimo. Questo non assolve comunque Chris Robertson e soci dall’averci propinato una cinquantina di minuti di musica monotona e scontata, e il fatto che la discografia di questa band sia un’alternanza sconcertante di album buoni (‘Between the Devil & the Deep Blue Sea’), noiosi (il qui presente ‘Screamin’ At The Sky’), fantastici (‘Family Tree’) o orribili (‘Magic Mountain’) deve essere il motivo che non li ha portati a riscuotere quel grande successo di pubblico in casa loro (controllate su Billboard) che inseguono ormai da una ventina d’anni.

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STATION

 

 

  • AND TIME GOES ON (2023)

Etichetta:Station Music Reperibilità:in commercio

 

Adesso vi spiego come è andata.

Avevo deciso che il pezzo forte di questo aggiornamento dovesse essere una approfondita disanima della discografia di una band storica, conosciutissima e apprezzata… Ma poi ho ascoltato il nuovo album degli Station.

E ancora prima di sfilarmi le cuffie dalla testa, in fondo alla lunga lista di appunti presi mentre ascoltavo, non ho potuto fare a meno di scrivere una parola, in maiuscolo: FANTASTICO. E così, la disanima della discografia della band storica viene posposta, perché devo scrivere subito di questo disco FANTASTICO.

Chi mi segue sa che non sono tipo da entusiasmarmi facilmente per un album inciso ai giorni nostri. Ma è che ‘And Time Goes On’, non sembra inciso ai giorni nostri! Chi non sapesse che è un prodotto dell’anno di pochissima grazia 2023 potrebbe giurare (io per primo) che è stato inciso nel 1988 o giù di lì. La produzione sofisticata, i suoni ricchi e lussuosi avvolti da una vagonata di riverbero, tutto urla “anni 80” a più non posso. Ma questo è il meno.

Perspective’ (chi non ricorda può seguire il link) era un ottimo album, ma questo ‘And Time Goes On’ è semplicemente clamoroso. Non posso definire gli Station dei giganti perché non si può dire che abbiano un sound tutto loro, ma qui ci propongono un lotto di canzoni di qualità eccezionale. Non c’è niente di nuovo, ma la pura e semplice qualità del songwriting, la cura e l’abilità che dimostrano negli arrangiamenti promuove largamente ‘And Time Goes On’, e lo rende senza il minimo dubbio l’album migliore dell’anno prossimo a finire nel settore del melodic rock di stampo classico nella forma codificata al tramonto dei Big 80s.

Parte con lo sleaze  – patinato e di gran classe, un po’ alla Roxy Blue – di “Over & Over”, prosegue più o meno su questa rotta con “If You Want Me Too”, che viaggia su un riff AC/DC e ha una decisa impronta Def Leppard nel refrain, mentre rilegge il rock da FM di Bryan Adams con il bel riffing pulsante di “A Little Bit Of Love” (con l’aggiunta di qualche ombra Beatles sul refrain). Classicissimo l’hard melodico di “Close My Eyes”, cromato con le sue strofe notturne e il coro elettrico: tutto un po’ alla Winger, diciamo. La prima vera bomba si intitola “Touch”, col suo riff malizioso e cadenzato, così lenta, sexy, zeppeliniana secondo la lezione del big rock dei Big 80s, poi “Locked Away” americanizza i Def Leppard traducendoli in una piacevole power ballad. Altra esplosione con “No Reason”: elettroacustica nelle strofe, veemente ed elettrica nel refrain, i Led Zeppelin filtrati dagli Unruly Child, suggestiva, ammaliante. Policrome e spettacolose riescono anche “Something In Between” (pura materia rock californiana del tramonto degli 80, strofe notturne su un riff semplice ma efficace, refrain potente) e “Better off Alone” (Bryan Adams rifatto secondo la lezione degli Steelheart). “Around The Sound” mi ricorda di nuovo – almeno in parte – i Roxy Blue (ma anche i Firehouse e i Leppard), strofe dirette, refrain melodico e divertito, il tutto che scivola su un riffone AC/DC amplificato a dovere. Gran finale con la title track, una splendida power ballad in crescendo dal raffinato tessuto strumentale.

Vi risparmio una conclusione a base di frecciate alle band svedesi che un album del genere possono soltanto sognare di metterlo assieme (che poi non è una frecciata ma la pura verità…). ‘And Time Goes On’ è puro retro rock, e della specie più rara: perché ci ridà con straordinaria efficacia il rock degli anni 80 e lo fa senza rubare nulla a nessuno. Di album come questo, negli ultimi trent’anni, ne sono usciti appena una manciata, e se il melodic rock dell’epoca d’oro del nostro genere è il vostro pane, non potete ignorarlo. Lo trovate su Amazon Music, oppure potete ordinarlo in CD o prendere gli .mp3 a questo indirizzo di Bandcamp. Perché gli Station continuano imperterriti a lavorare da soli, senza il supporto di una label: se sia una loro scelta o ci siano costretti non saprei dirvelo, comunque non facciamogli mancare il nostro supporto, perché se lo meritano infinitamente più di tanti altri.

 

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LYNCH MOB

 

 

  • BABYLON (2023)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Ma George non dichiarò qualche anno fa che non avrebbe più usato il moniker “Lynch Mob” perché non in linea con le sacre prescrizioni del Politicamente Corretto? Per gli yankees questa cosa è ormai diventata una nuova forma di religione, intollerante e fanatica, con effetti il più delle volte grotteschi, tra i Lynyrd Skynyrd che non hanno più potuto esporre ai concerti la Stars and Bars (per i benpensanti, simbolo del Sud schiavista) o i poveri Washington Redskins (una squadra di football americano, per chi non segue questo sport) costretti a cambiare nome in Washington Commanders perché qualcuno aveva deciso che era “irrispettoso” verso i nativi americani che dei bianchi si fregiassero del nome di “pellerossa”. Be’, io sono felicissimo che George abbia mandato cordialmente a farsi fottere il Politicamente Corretto e recuperato (alla faccia dei benpensanti) il vecchio, glorioso marchio. Negli ultimi anni a volte decisamente offuscato, ma sempre glorioso se pensiamo ai primi due album. Novità rispetto al contraddittorio (c’è il link per chi non ricorda) ‘The Brotherhood’? Innanzitutto c’è un nuovo cantante, Gabriel Colon (evitiamo di fare ironie su un cognome che nella nostra lingua suona proprio imbarazzante) e un nuovo bassista, Jaron Gulino, mentre Jimmy D’Anda resta al suo posto dietro i tamburi. Colon sembra spuntato da uno dei vicoli della Hollywood dei bei tempi, esibisce una voce acida, canta su toni sleaze e con una bella sfrontatezza da bassifondi: insomma, perfetto per lo street metal che i Mob hanno (quasi) sempre praticato, e che inaugura anche ‘Babylon’ con “Erase”, aperta da accordi misteriosi, col suo suono classicamente Mob e la chitarra di George che ha qualche bel guizzo. Sulla stessa scia segue “Time After Time”, che non dice niente di nuovo però lo dice abbastanza bene, meglio funziona “Caught Up”, col suo riffing saltellante, nervoso e beffardo, mentre “I’m Ready” ha un refrain minaccioso su chitarre dal suono cerebrale, quasi prog, anche se Colon ci spande sopra vocals sempre molto sleaze. Con “How You Fall” George ci serve una cavalcata heavy metal decisamente troppo tronfia per i miei gusti, ma ecco che arriva “Million Miles Away”, rarefatta nelle strofe, potente nel refrain, suggestiva e d’atmosfera, ricamata da un bell’intreccio di chitarre sullo sfondo di tastiere: per me, il top del disco. “Let It Go” è un funk acido e heavy nelle strofe che si apre alla melodia in chiaroscuro nel coro: notevole. Interessante suona anche “Fire Master”, un heavy metal scuro e inquietante, con due assolo veramente buoni, ma anche “The Synner”, nello stesso tempo bluesy e funky, acida, con un bel canto irriverente, si fa valere, mentre mi ha lasciato freddo la title track, otto minuti di hard rock metallico e zeppeliniano un po’ scontati, anche nelle lunghe fasi soliste.

Rispetto a ‘The Brotherhood’, il songwriting è più aderente al classico suono dei Mob, e George ci ha qui risparmiato brutture stile “When We Started”… I primi due album restano inarrivabili, ma per i fan dei Mob (schiera di cui il sottoscritto fa parte da sempre), ‘Babylon’ sarà un ascolto perlomeno piacevole.

 

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GIUFFRIA

 

 

  • GIUFFRIA (1984)

  • SILK + STEEL (1986)

Etichetta:MCA Reperibilità:in commercio

 

Quanto sono stati grandi i Giuffria? Quanta importanza hanno avuto nella storia del rock melodico?

Nel celebre referendum di Kerrang (sul cui valore ho già espresso le mie più che giustificabili riserve) i due album firmati da questo moniker si classificarono al trentaduesimo e al trentasettesimo posto: posizioni per nulla esaltanti, insomma, che ci dicono quanto poco avesse fatto presa la musica della band, perlomeno su una parte del pubblico (la frangia, come ho già sottolineato nella recensione degli Icon, di parte metallara).

Il mio pensiero sui Giuffria lo metto in chiaro subito: per me, stanno un paio di gradini sotto gli House of Lords (gli House of Lords con Gregg alle tastiere, naturalmente), e questo nonostante il primo Giuffria abbia avuto un discreto successo di vendite negli USA (numero 25 di picco sulla Billboard 200; il meglio che gli House of Lords abbiano fatto sulla più importante classifica di vendite americana è stato solo un numero 78 con l’esordio del 1988): successo comunque effimero, dato che il successivo ‘Silk + Steel’ nella chart neppure riuscì a entrarci.

La genesi della band è notissima, mi limito a ricordare che i Giuffria avrebbero dovuto essere i “nuovi” Angel, e che solo la ferma opposizione degli ex compagni (con minacce di azioni legali) dissuase Gregg Giuffria dal riprendere il vecchio moniker, battezzando infine il suo nuovo gruppo con il proprio cognome (storpiato chissà come dagli yankees…). La line up, oltre Gregg alle tastiere, comprendeva David Glen Eisley al microfono, Craig Goldy come chitarrista, Alan Krigger e Chuck Wright (sostituito da David Sykes sul secondo album) come sezione ritmica.

L’esordio uscito nel 1984 ha due punti deboli: un songwriting nient’affatto straordinario e la banalità del chitarrismo di Craig Goldy. Se il primo problema veniva mascherato dagli arrangiamenti sofisticati, all’inconsistenza delle tracce di chitarra non c’era modo di metterci una pezza, e anche se non fu per la sua impalpabilità che Goldy uscì dalla band (lo chiamò Ronnie James Dio per prendere il posto lasciato vacante da Vivian Campbell, passato agli Whitesnake) non si può che rallegrarsi della sua sostituzione con Lenny Cordola su ‘Silk + Steel’.

Dicevamo degli arrangiamenti, ovviamente straripanti di tastiere ma di rado sbrodolanti nel pomp, anche se Gregg non resiste alla tentazione di dare alla track d’apertura, “Do Me Right”, un intro d’effetto: canzone a un passo dall’arena rock, con refrain anthemico e un cantato più drammatico che solenne, registro a cui David Glen Eisley rimane fedele per quasi tutto l’album. “Call to the Heart” è una power ballad impostata sulle stesse atmosfere, semplice ma magnificamente arrangiata, mentre le due canzoni successive ci dicono quanto Gregg sia entrato bene nell’estetica rock dei Big 80s: “Don’t Tear Me Down” è fatta di chitarre dal suono croccante e keys spettacolari (ma è un pelo troppo lunga); “Dance” approccia il party rock, anche se pure qui le tastiere prevalgono sulle chitarre, con giri suonati – come costume dell’epoca – in prevalenza col sequencer. “Lonely in Love” è AOR hard edged, impostato su una melodia lineare ma amplificata tramite un sapiente arrangiamento che è la chiave di volta anche di “Trouble Again”, notturna, spettacolare, ben cadenzata, con le chitarre e le tastiere che si palleggiano l’assolo. Il peso massimo del disco si intitola “Turn me On”: veloce, clima che pende sull’epico, vagamente purpleiana, adorna di qualche sfoggio di maestria di Gregg. “Line of Fire” risulta appesantita da qualche scoria pomp che fa a pugni col resto, che è del tutto anni 80, mentre “The Awakening” è un breve stumentale che potrebbe passare per la colonna sonora di un cortometraggio ambientato in un manicomio. In chiusura, un stesura d’atmosfera, “Out of the Blue”, percorsa da rapide fiammate elettriche. In definitiva: non certo un album malvagio, ma neppure sensazionale. Le tastiere dominano, le chitarre troppo spesso sonnecchiano. David Glen Eisley cambia raramente la propria impostazione di canto e alla distanza risulta paradossalmente monotono. Le canzoni vivono grazie agli arrangiamenti squisiti, ma di sostanza ne hanno poca. E che Gregg non fosse del tutto soddisfatto del risultato, nonostante il buon riscontro sulle charts, lo conferma il cambiamento di sound intervenuto su ‘Silk + Steel’. Fino a che punto sia responsabile di questo mutamento di pelle Lenny Cordola non si sa, ma l’arruolamento nella band di uno dei nuovi assi della chitarra, un funambolo della sei corde in grado di contendere ad armi pari con Paul Gilbert o Reb Beach, poteva rappresentare un segnale – e anche abbastanza eloquente – della volontà di Gregg non tanto e non solo di irrobustire il sound ma di pilotarlo verso sentieri almeno un po' distanti da quelli battuti in precedenza. Un cambiamento che si realizzerà del tutto soltanto con gli House of Lords, ma avviato su ‘Silk + Steel’.

Non che, di primo acchito, si senta un gran cambiamento al principio del disco: dopo l’intro drammatico di tastiere, “No Escape” configura i Nostri come dei Journey più solenni e pomposi (il bridge arriva a un pelo dal plagio di “Separate Ways”). Anche la power ballad “Love You Forever” segue con diligenza le linee guida tracciate dal primo album: tastiere a secchiate e un refrain elementare ma efficace. “I Must Be Dreaming” è la cover che non ti aspetti, una canzone dei Mink Deville proposta in chiave di hard melodico, mentre su “Girl” l’abbondanza di keys non sconfina nel pomp e il refrain è notevole, e “Change of Heart” guarda di nuovo in direzione Journey, con belle fiammate di elettricità nel coro. Fin qui, si ha la sensazione che Lenny Cordola l’abbiano tenuto praticamente al guinzaglio, ma anche quel poco che Gregg gli concede completa le canzoni molto meglio rispetto a quanto sapeva fare Goldy. Con “Radio” il guinzaglio di cui sopra comincia ad allentarsi: canzone sempre molto Journey, ma più anthemica e hard rock. Il primo vero colpo arriva con “Heartache”, con quel refrain essenziale ma così intenso e policromo, e le chitarre e le tastiere che procedono praticamente appaiate, subito bissato da “Lethal Lover”: questi sono già gli House of Lords, con le acrobazie di Lenny, il ritmo serrato, il clima nello stesso tempo fisico e spettacolare, le keys sullo sfondo, mai a sovrastare le chitarre, neppure nel bridge. “Tell it Like it Is” è un AOR dinamico, davvero pregevole, e anche qui Gregg fa fare un passo indietro alle tastiere lasciando più spazio a Lenny che diventa protagonista sulla conclusiva “Dirty Secrets”, peso massimo dell’album: cadenzata, piccante, molto californiana, basata su un giro rauco di tastiere e chitarre ruggenti.

Tirando le somme: di brutto, in questo disco, c’è solo l’immagine di copertina, pacchiana fino al grottesco con le facce dei Nostri – disegnate da qualcuno appena capace di tenere un pastello in mano – che emergono fra nuvoloni dorati… e va bene che eravamo nel bel mezzo degli anni 80, ma insomma…

La band, come sappiamo, cambiò moniker per le insistenze di Gene Simmons che (giustamente, direi) chiedeva un nome più stimolante del casato di Gregg per inaugurare il nuovo contratto con la sua neonata label, e così i Giuffria diventarono gli House of Lords, affinando quel sound che era già nato su ‘Silk + Steel’ e sotto il nuovo marchio la band avrebbe portato ad altezze stratosferiche.

 

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STORMING HEAVEN

 

 

  • LIFE IN PARADISE (1996)

Etichetta:MTM Reperibilità:scarsa

 

Degli Storming Heaven, quando uscì questo loro primo e – ad oggi – unico album (era il 1996) si scrisse che avevano un sound molto sbilanciato sul versante prog. Considerato il momento storico, non credo che lo scarso interesse riscosso dal progetto capitanato dal tastierista Vince DiCola (Radioactive, Rick Springfield, Stan Bush e altri) sia stato determinato proprio dall’accostamento del prog al rock melodico nelle recensioni: è però un fatto che il tipico aficionado dell’AOR tende generalmente a storcere il naso quando la pietanza che gli viene servita mescola all’ingrediente base anche il cosiddetto rock progressivo. Che poi in ‘Life in Paradise’ ci sia qualche nuance prog è innegabile, ma si tratta solo di questo, sfumature che non intaccano il tessuto fondamentalmente AOR di un album davvero pregevole, vario e accattivante.

L’apertura demandata a “Razor Farm” è addirittura spiazzante: elettroacustica, con un bel ritmo pimpante, un po’ di chitarra slide, tutto molto nuovi Bad Company, ma con un bridge e un finale di tastiere sinfoniche, senza dubbio fuori posto ma non certo spiacevole. Il prog si sente fra le righe di quel bell’hard melodico policromo intitolato “Wanda Wire” (prevalentemente a livello di keys), mentre scompare nella power ballad “Crossing My Heart”, che impasta i Journey (soprattutto) a Boston e Toto. “Jessie’s Journey - The Suite” è, come dice il titolo, una vera e propria suite in quattro movimenti (intitolati “Cross the Line”, “Red Knight”, “The Passage” e “Dream House”) lunga quasi diciannove minuti: un suggestivo succedersi di atmosfere che non annoia mai, con il prog che esce soprattutto nel secondo movimento (“Red Knight”) ma senza mai diventare soverchiante, come nella successiva “Time Machine”, in cui le tastiere hanno un peso superiore a quello delle chitarre. C’è un completo cambiamento di scenario con “Don’t Find It Amusin’”, che ha una bella vena r&b fra sezioni fiati, pianoforte e Hammond, divertita e beffarda, mentre in “She Wolf” troviamo davvero un sacco di roba: ha un inizio d’atmosfera, poi diventa drammatica e un po’ nevrotica, qualche soluzione di arrangiamento fa molto AOR primi anni Ottanta. In chiusura, la title track rimanda agli House of Lords, con la sua atmosfera solenne condita da qualche giro prog di tastiere.

La reperibilità di ‘Life in Paradise’ è buona, sia su eBay (meglio cercarlo direttamente in Germania, la MTM era una label tedesca) che su Amazon, e i prezzi sono abbordabili (dai cinque euro in su): ottima scusa per procurarsi un album che più di molti altri meriterebbe di essere ricercato da chi ama l’AOR nella sua forma classica.

 

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CHACKO

 

 

  • CHACKO (1986)

Etichetta:Polydor Reperibilità:scarsa

 

Non chiedetemi perché questa unica testimonianza discografica di Lori Chacko è scivolata nel dimenticatoio, quando aveva tutto per diventare una mezza lost gem. Pubblicata dalla Polydor sia negli USA che in Europa, prodotta da Joey Balin (Warlock e Nazareth fra gli altri), poteva oltretutto contare su una pattuglia di esecutori più che prestigiosa: nientemeno che John McCurry e Jeff Golub alle chitarre, e poi Alan St. Jon – key player di Billy Squier – alle tastiere, mentre del basso si occupava Leigh Foxx – già con Franke & The Knockouts e Scandal – e alla batteria trovavamo Thommy Price, ovvero una metà di quei Price-Sulton di cui ho scritto recentemente. Che ben poco interesse abbia suscitato nel popolo del rock melodico è testimoniato dal fatto che non è mai stato ristampato (salvo dalla solita etichetta pirata Time Warp Records, ma solo su CDr, nel 2007), così che oggi lo possiamo trovare soltanto su LP o cassetta (la Polydor non lo pubblicò su CD), con prezzi che variano istericamente e senza il minimo filo logico da cinque o sei dollari fino a cento e oltre per entrambi i supporti, e neppure figura nelle liste di Heavyharmonies.

Cosa può aver nuociuto alla popolarità di un album che godette di una promozione più che discreta? Forse una troppo accentuata variabilità nello stile delle canzoni? Dalla copertina si sarebbe portati a supporre che Lori volesse battere i territori del più torrido metal californiano e l’apertura affidata a “Once Bitten, Twice Shy” pare confermarlo: canzone più Crüe che Ratt, decisamente anthemica, su cui Lori esibiva una voce da contralto correttamente sguaiata. Ma già con “Life On The Planet” si cambia registro, per un AOR robusto e abbastanza Loverboy, con le tastiere impostate su stilemi new wave, mentre “What’s New” è svelta e ancheggiante proprio alla maniera degli Headpins. “Out Of Time (Song For Margo)” si rivela una ballad d’atmosfera di buona fattura, tutta acustiche e tastiere, però con “I Know” Lori ci propone un pop rock che di AOR ha poco o nulla, e fa pensare piuttosto a una versione americanizzata dei Blondie. Molto meglio suona “Viva La Difference”, che torna a omaggiare gli Headpins, e ancora più su sale “Exception”, sulla stessa lunghezza d’onda di “Life On The Planet”, ma in un contesto più hard rock. Il top assoluto si intitola “Somewhere In Between”, hard melodico dalla bella atmosfera che si dipana fra chitarre taglienti e un fondo suggestivo di tastiere, ma anche “Pushing And Pulling” si distingue, con le sue strofe in cui prevalgono chitarre robotiche e martellanti e il refrain melodico e policromo, l’assolo di sax nel finale e quel bridge quasi pomp. Conclude l’album “At A Time Like This”, altra ballad d’atmosfera con qualche lampo elettrico, fatta di bei chiaroscuri. Il canto di Lori, mano a mano che l’album scorre, si fa sempre più pulito, rifuggendo da quei toni sopra le righe che caratterizzano la sua voce su “Once Bitten, Twice Shy”.

Insomma, l’album aveva i suoi numeri, ma testimoniava anche una certa indecisione sulla strada (musicale) che Lori voleva prendere. Se sia stato questo a cacciare nell’oblio ‘Chacko’, non posso saperlo, ma certo sarebbe ora che qualche label specializzata si attivasse per cavare fuori dall’oscurità un disco che più di molti altri meriterebbe una ristampa.

 

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T.C. KROSS

 

 

  • ON THE EDGE (1992)

Etichetta:Reiter Records Reperibilità:scarsa

 

Non so quale e quanta importanza possa avere al giorno d’oggi la copertina di un album (usiamo questa parola solo per tradizione: sarebbe forse più corretto parlare di “immagine associata” o qualcosa del genere, considerato che attualmente la musica – eccetto per una sparuta minoranza ancora fedele ai vari supporti fonografici del passato – si è del tutto slegata da ciò che si tocca e maneggia), ma una volta possedeva – almeno in potenza – un’importanza enorme, soprattutto per chi non poteva contare su una rinomanza precedente alla pubblicazione del prodotto discografico: perché se gli U2 o i Rolling Stones si presentavano con copertine insignificanti, discutibili o brutte tout court non dovevano temere temere flessioni nelle vendite, mentre tutti gli altri non potevano concedersi di trascurare anche l’effetto che le cover dei loro album avrebbero generato: effetto senza dubbio attenuato quando il passaggio dal vinile al CD ridusse le dimensioni del supporto, ma mai trascurabile per convincere il possibile acquirente a scegliere quel determinato album fra i tanti altri che imploravano interesse negli scaffali. Venendo alla copertina di questo (ad oggi) unico album della signora TC Kross… Già l’idea di usare una foto in bianco e nero è infelice, l’immagine in sé pare impostata sulla più pacchiana e sorpassata iconografia metallara del decennio precedente, ma il peggio sta nel fatto che, così a colpo d’occhio, non si riesce neppure a capire che TC Kross è una donna (e – all’epoca, almeno – una donna di fattezze nient’affatto sgradevoli). D’accordo: era il 1992, il grunge imperava già e la label che pubblicò ‘On The Edge’ non era certo la Geffen o la Atlantic, ma quella copertina orrenda e fuorviante avrà contribuito non poco alla permanenza del CD negli scaffali dei negozi. “Fuorviante” perché ‘On The Edge’ non era un disco di heavy metal becero e guerriero come la katana impugnata da TC poteva far sospettare, ma di rock melodico e AOR, e anche un buon disco. Tra i songwriters figurano Fiona, Mark Mangold e Al Fritsch (anche produttore assieme a Wayne Piro e Gerry Comito), la backing band poteva contare (fra gli altri) su Tony “Bruno” Rey, Teddy Cook e lo stesso Mark Mangold, che con il suo inconfodibile stile inaugura l’album tramite “River Road”, dal bell’andamento felpato nelle strofe e quasi anthemico sul refrain. Se “Be My Baby” si rivela un hard melodico notturno e sexy, adorno di un refrain sfacciato e diretto, “Love Or War” è una power ballad d’atmosfera, fatta da veli cangianti di tastiere attraversati da chitarre ora gentili, ora taglienti. Davvero notevole risulta “Can I Believe?”, AOR hard edged fatta di strofe vellutate, un refrain arena rock e un assolo lungo e spettacolare, e altrettanto interessante riesce “Don’t Tell Me” metal californiano impastato di rhythm & blues, con tanto di fiati in bella evidenza. Al Fritsch mette la firma su “If It’s Love” e si sente: se l’avesse cantata lui, questa sarebbe molto semplicemente una (buona) canzone dei Drive, She Said. “Ride” è suggestiva nel suo impasto di elettrico e acustico, AOR nelle strofe e hard rock nel refrain, mentre “Are You Ready?” fa molto Autograph, un hard melodico con tastiere imponenti che procedono a braccetto con le chitarre. “Look In My Eyes” è serrata con un refrain diretto ma l’arrangiamento, fra parti di chitarra e tastiere, risulta tutt’altro che scontato, mentre “Girl Talk” chiude l’album con una canzone che fa pensare a degli Headpins suonati a velocità doppia, nevrotica e beffarda. La voce di TC era davvero piacevole, strascicata e un po’ nasale; la produzione, impeccabile; le timbriche, curatissime.

E veniamo alle dolenti note: ‘On The Edge’ è raro e caro, su eBay passa di mano (le poche volte che fa la sua comparsa) per non meno di 120 dollari (alla data in cui scrivo, ce n’è una sola copia in vendita negli USA, e per la non modica cifra di 150 dollari). Non è (potrei dire: ovviamente) mai stato ristampato né è finito su Amazon Music. Però si trova comunque in giro, e a buon intenditor…

TC Kross è sempre attiva, ha un sito e la sua obbligatoria pagina Facebook (entrambi intestati, però, a “T.C. Kross”: quale significato sia da attribuire ai punti correttamente posti dopo le iniziali non è chiaro) ma a questo suo unico album neppure accenna nella bio, forse perché i trascorsi melodici poco si addicono all’immagine di metallara cazzuta che attualmente sfoggia la nostra signora: quella katana minacciosamente sguainata sulla copertina di ‘On The Edge’, evidentemente, non stava lì solo per fare scena.