AORARCHIVIA

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THE JONESES

 

 

  • HARD (1990)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:scarsa

 

Storia classica quella dei The Joneses. Un album registrato per l’onnivora Atlantic nel 1990, pubblicato praticamente senza promozione alcuna, e poi il silenzio. ‘Hard’ non è mai stato ristampato, e dato che passa di mano su eBay per pochi dollari è improbabile che qualcuno si prenda mai tanto fastidio. Vale la pena di investire anche solo pochi dollari sull’unica testimonianza lasciataci dai Joneses? E chi erano questi signori che si erano scelti – non per primi – un moniker tanto sarcastico? Non esattamente dei novellini, considerato che il chitarrista Billy Loosigian aveva cominciato la carriera nel 1978 col punk della Boom Boom Band, mentre il cantante e secondo chitarrista David Finnerty aveva pubblicato il primo singolo con la sua band, The Jackals, nel 1980: mai protagonisti della scena rock, d’accordo, ma comunque gente che batteva i palcoscenici già da diverso tempo. Reclutati John Sands come batterista e Brad Hallen al basso, Loosigian e Finnerty diventano The Joneses e, sotto la guida del produttore Frank Aversa, registrano questo ‘Hard’, che si inserisce nel filone di quell’hard rock su base AC/DC largamente praticato in quel torno d’anni, ma senza aggiungere alla pietanza quelle inflessioni glam che fecero la fortuna dei Kix e tentarono molte altre band americane. L’apertura dell’album con “Everything Changes”, difatti, ricorda più i Cult di ‘Electric’, anche se la trama melodica è allineata a quanto la scena rock yankee proponeva all’epoca, e su questa scia procede “A Little Love”, cadenzata e molto più bluesy. “Steppin’ Out” fa tanto Bad Company nelle strofe pacate, mentre torna all’universo AC/DC nel coro rauco, “Don’t You Know” proietta su un riffing decisamente Cult una melodia drammatica di stampo Fortune, “Let’s Live Together” stende sul solito tappeto di riff australiani una trama melodica molto Bryan Adams. La title track torna a omaggiare i Fortune su un telaio ritmico di stampo zeppeliniano, ma tessuto con tipica secchezza AC/DC: notevole. E ancora più in alto sale “Leavin’ With The Light”, decisamente Bad Company, con i suoi chiaroscuri e il ritmo boogie. “Hard Road” ha un andamento molto simile a quello della “Mob Rules” di sabbathiana memoria, ma è svelta, agile, ricamata di una bella melodia, mentre “Reconsider” è un hard bluesy divertito, in bilico tra gli Aerosmith e i Georgia Satellites. “Mean Woman” è serrata ma pure dinamica, procede su un riff pulsante e ipnotico che trascina con sé una linea melodica raffinata, “Bollweevil Stomp” chiude l’album con un blues interpretato dalla band in chiave decisamente hard rock.

Insomma, ‘Hard’ era davvero un buon album, e anche uno di quei rari lavori che rifiutano di farsi incasellare: non possiamo certo definirlo un disco di rock melodico, non ha niente a che fare con l’ heavy metal, e neppure con lo street rock. È, semplicemente, hard rock, senza troppi fronzoli e senza stranezze, nobilitato da un songwriting di buona caratura e da una produzione secca ed efficace. Quasi dimenticati (il videoclip di “Don’t You Know”, in quattordici anni di permanenza su YouTube è stato visto appena 11.000 volte), non meritavano certo di finire nell’oblio.

 

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THE LADDER

 

 

  • THE LADDER (1986)

Etichetta:ATCO Reperibilità:in commercio

 

Il meccanismo di formazione delle lost gem continua a rimanere per me del tutto indecifrabile. Non può essere basato sul puro caso, ma quali forze lo mettano in moto, trasformando certi dischi in capolavori perduti resta  – per il sottoscritto, almeno – un profondo mistero. La relativa rarità dell’opera c’entra poco, e anche la sua qualità assoluta. E allora? Be’, potremmo liquidare il problema dicendo che succede, e basta. A noi resta solo da assodare se la gemma in questione è una vera gemma o una patacca.

Questo unico album pubblicato dai The Ladder nell’ormai lontano 1986 è da lungo tempo considerato una lost gem. Ha già avuto ben quattro ristampe ufficiali: in Italia per la Rock-It nel 2005; in USA dalla Wounded Bird nel 2009; in Giappone per la Octave nel 2017; quest’anno  è stata la Rock Candy, nel Regno Unito, a riproporlo. Aggiungiamo poi una falsa versione su CD che gira da tempo su eBay (falsa perché la ATCO lo pubblicò a suo tempo solo su vinile), inequivocabile testimonianza del fatto che fra i cacciatori di reliquie dei Big 80s, quello dei The Ladder è un nome che tira, e dunque per chi lucra sulla passione di amateurs e collezionisti, falsificare i CD (o, meglio, creare ex novo un’edizione “originale” su compact mai esistita) è evidentemente un ottimo affare. Ma andiamo ad ascoltarlo, questo capolavoro perduto…

Daydreams At Night”, dopo un intro di keys d’atmosfera, propone un buon mix di AOR canadese e rock FM nello stile di John Parr, mentre “Double Shot Of Love” ci porta nei territori dei Journey con una power ballad che deve moltissimo a “Who’s Crying Now”. Cambio di scenario con “Time Soldier”, che ricorda un po’ i Triumph più levigati e i Rush contemporanei, ma con un refrain che fa più anni 70 che 80. Dopo la ballad vellutata e tutta tastiere “Don’t Turn Me Away” viene l’hard rock intitolato “Breakdown”, col suo tempo bizzarro, i riffoni rugginosi, la cassa che picchia sodo e un refrain essenziale. Con “Standin’” abbiamo un pop rock danzereccio tutto percussioni e keys, in cui le chitarre entrano solo a sprazzi, mentre “Women Have Secrets” ha una forte impronta r&b nella melodia su un tessuto notturno e d’atmosfera. Ancora l’AOR canadese torna in ballo su “Lie To Me”, almeno nel refrain, tra una chitarra che gratta e i flash di tastiere, e un coro che ancora una volta sembra venire dal decennio precedente, “Lover” ripete la formula dance di “Standin’”, con le chitarre tenute a un volume ancora più basso, “Dancing In The Dark” chiude nel segno dei Journey, con una power ballad in cui chitarre e tastiere procedono affiancate nel refrain.

Tirando le somme, possiamo dire che ‘The Ladder’ è un buon album, ma non ha proprio niente che ci possa far gridare al miracolo. Anche produzione e resa fonica non sono nulla di speciale: discrete e niente più. La band era composta da sconosciuti, salvo per il drummer Joe Franco, già nei Good Rats e poi nei Twisted Sister, con i fratelli (presumo) Joe e Lou Parente nel ruolo di tastieristi, produttori e arrangiatori. Il notissimo produttore Godfrey Diamond stava dietro il banco per una sola canzone (“Daydreams At Night”) ma si occupava del mixaggio di tutto l’album.

The Ladder’ non è una di quelle rarità vendute a prezzo folle: è vero che le ristampe su CD non sono facili da trovare (salvo per quella attualmente in vendita della Rock Candy, naturalmente), ma l’LP passa di mano negli USA a prezzi variabili dai quindici ai quaranta dollari (quaranta solo per i vinili ancora incellofanati), quotazioni che ci parlano di un interesse per il prodotto solo moderato. Non è una patacca, ma i riflessi che emana non sono certo quelli della gemma dall’acqua purissima e dal taglio perfetto. È solo un disco carino, uno dei tanti prodotti di media caratura usciti nel Big 80s, che per motivi imperscrutabili viene valutato molto più di quanto effettivamente – a mio giudizio, almeno – si meriti.

 

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ARTI TISI

 

 

  • NEW YORK CITY (2017)

Etichetta:Melodic Rock Records Reperibilità:in commercio

 

Arti Tisi! Chi era costui?

La parafrasi manzoniana non è stata buttata lì per fare sfoggio di cultura, ma solo perché rende bene il clima di incertezza che si è addensato attorno al nome suddetto: nome che per qualche tempo ha avuto una consistenza quasi mitica.

Arti Tisi… Ma esisteva davvero? Per un po’, ne hanno dubitato in molti. Era solo, diceva qualcuno, un marchio che musicisti ben noti della scena AOR avevano adottato per poter lavorare nell’anonimato… cosa in sé piuttosto bislacca, ma di assurdità il mondo è pieno fino a scoppiare, e allora, perché no? Le voci più strane venivano amplificate dal fatto che di Arti Tisi si parlava da tanto, ma mai niente era stato edito a suo nome. Bisogna arrivare al 1998 perché questo marchio venga fuori associato in maniera inequivocabile a del materiale sonoro: nella compilation ‘MTM Music Vol. 3’, la (purtroppo) defunta label tedesca inseriva una canzone intitolata “Guilty Heart”, data come title track di un album annunciato per l’uscita ai primi del 1999, a cui partecipava nientemeno che Al Greenwood. Album che però la MTM non ha mai pubblicato.

Nel frattempo, Internet cresce, e proprio nell’oceano del web, fra le maree montanti dei bootleg, affiorano registrazioni che portano “Arti Tisi” appiccicato sopra, e anche qualche notizia: da prendere con le molle, come tutto quello che spunta dal World Wide Web, ma, insomma, è almeno qualcosa

“Arti Tisi” non è un moniker, ma il nome d’arte del newyorkese Arthur Tisi Jr., songwriter, cantante e multistrumentista, attivo dalla metà degli anni 80. Un bootleg in particolare, intitolato ‘The Definitive Collection’ (con venti canzoni), viene postato nel 2010 sul blog hardrockaorheaven.blogspot.com, e fra i commenti ce ne sono un paio che dipingono il Nostro come un perfetto stronzo, figlio di papà e raccomandato di ferro… e come tutto quello che troviamo scritto (e ben di rado firmato con nome e cognome) tra forum e blog, si può crederci o no.

Nel 2017, infine, la Melodic Rock Records di Andrew McNiece stampa in tre CD l’opera omnia di Arti Tisi, composta da 41 canzoni registrate in un lungo arco di tempo con la collaborazione – fra gli altri – di Al Pitrelli, Tony Bruno, Mark Hitt, Bob Held e il già citato Al Greenwood. Di questi tre volumi, il più interessante per chi ama il rock melodico è il primo, intitolato ‘New York City’, comprendente quindici canzoni e aperto proprio da quella “Guilty Heart” che per tanto tempo è stato l’unico frammento di musica a cui si poteva con assoluta sicurezza associare il nome di Arti Tisi. Gli altri due, che hanno per titolo ‘Back Again’ e ‘The Reeperbahn’, sono più orientati verso l’hard rock e il metal, con saltuarie incursioni nel classic rock. Cosa rappresentino precisamente queste registrazioni non è chiaro. Sono demo di lusso? O materiale destinato già in partenza ad essere pubblicato così com’era? La qualità audio è buona, la produzione anche. In qualche caso c’è troppa insistenza nel ripetere i refrain, cosa che (in genere) è sicuro indizio di una incisione autarchica. Le canzoni sono per la maggioranza molto elettriche, a cominciare dalla già nota (e davvero eccellente) “Guilty Heart”, arena rock fragoroso nel coro, più morbido nelle strofe. Se “A Little Too Early” fa parecchio Bon Jovi, “Can’t Live Without You” è una power ballad con il classico sound della fine dei Big 80s, mentre “I’ll Be There” richiama in causa i Bon Jovi, mescolandoli a Slaughter e Autograph. “Cut And Run” fa pensare a dei Journey metallizzati e incarogniti, la title track ha una bella urgenza e potrebbe essere il parto di una versione più elettrica dei Surgin’, “Love You Too Much” è una buona esercitazione sul tema del metal californiano, molto cromata, con qualche inflessione glam e anthemica. Altra power ballad (molto power) con “Joanne”, un po’ Def Leppard un po’ Journey, mentre sono gli Autograph a sovrintendere – nello spirito, of course – a “One Bad Habit”. Ancora arena rock con “Knock Knock”, scatenato e con una bella impronta rockandrollistica, un vero tripudio di keys e cori anthemici, la bella melodia di “Love Finds You Guilty” richiama in causa Bon Jovi e Def Leppard, su “Change Of Heart” si riaffacciano i Journey, e notevolissima si rivela “Limits Of Love”, zeppeliniana alla moda dei Big 80s e non tanto distante dai Kingdome Come del primo album. Siamo in dirittura d’arrivo e – a volte succede… – si comincia a essere un po’ a corto di fiato, dato che “Think About Love” è una inutile cover dei Drive, She Said (troppo filologica e comunque la voce di Arti non può competere con quella di Al Fritch buonanima), mentre “My Father’s Chair” è una ballad poco significativa solo per voce, basso e tastiere.

Lode a Andrew McNiece, che ha tirato fuori Arti Tisi e la sua musica dalla dimensione nebulosa delle registrazioni pirata, spogliandola del mito in cui era avvolta. E “mito” nell’accezione meno benevola del termine: perché, come spesso accade con ciò che viene mitizzato, c’era chi giurava che Arti Tisi era un genio sfortunato, e quanto da lui inciso rappresentava il non plus ultra del rock melodico di tutti i tempi. Il valore di questa raccolta è allora duplice: lo sottrae al contesto leggendario in cui da troppo tempo era confinato, consentendoci di apprezzare il lavoro di quello che senza dubbio non è stato un genio ma solo un ottimo autore di rock melodico che per motivi ancora ignoti non ha potuto o voluto pubblicare il proprio lavoro quando sarebbe stato commercialmente più opportuno.

 

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STEVE PLUNKETT

 

 

  • STRAIGHT UP (2024)

Etichetta:Cleopatra Records Reperibilità:in commercio

Prendete gli Autograph (quelli veri, naturalmente, non la band rifondata da Steve Lynch), e adattateli ai gusti (presunti) del popolo rock del nuovo millennio in fatto di sound e avrete ‘Straight Up’. Il suono delle chitarre è asciutto e aspro, la produzione essenziale, una buona parte dei riff sono diretti e minimali, quasi estratti dal songbook degli AC/DC. Sì, c’è sempre la melodia poppeggiante anni 80 che Steve ci serve con inappuntabile grazia e bravura, ma se vi aspettavate una nuova “Blondes in Black Cars” o un’altra “More Than a Million Times” rimarrete molto delusi. Le tastiere fanno capolino appena su due canzoni, il tono generale è sull’anthemico e spesso il clima pende verso il power pop con niente affatto inaspettate sfumature Def Leppard. Non è certo un brutto disco (se escludiamo “Gotta Jump”: mai avrei immaginato che in un album di Steve Plunkett potesse esserci spazio per una canzone noiosa), ma non ci ridà i veri Autograph, e neppure lo splendore di ‘My Attitude’ (chi non sa o non ricorda, può seguire il link), tenta piuttosto di importarne lo spirito nell’orrendo secolo ventunesimo, assecondando i trend attuali in fatto di sound e produzione. Che effetto mi ha fatto questo trapianto? Un po’ quello che potrebbe suscitare una bella ragazzona che si esibisse in una lap dance con i capelli rapati a zero e senza un filo di trucco sulla faccia, calzando un paio di scarpe da tennis, girando attorno al palo appoggiandocisi appena e muovendo un po' i fianchi al tempo di una canzone dei Ramones. Okay, la ragazza è bella, ben fatta e non ha uno straccio addosso, e questo a qualcuno potrà anche bastare, ma da uno spettacolo di lap dance uno si aspetta un certo genere di look, di mosse e di musica: se non c’è tutto questo, lo show si riduce a una tizia nuda che gira attorno a un palo… E, insomma, sono entrato dentro ‘Straight Up’ aspettandomi la lap dance e ho trovato solo la ragazza nuda. Chi si contenta gode, dice il vecchio adagio. Io non sono un tipo incontentabile, ma il godimento che mi ha dato lo show non è stato proprio superlativo.

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STRANGER

 

 

  • NO RULES (1989)

Etichetta:Thunderbay Recording Corp. Reperibilità:scarsa

 

Uno dei compiti del produttore discografico – e certo non uno dei meno importanti – è dare continuità al lavoro della band selezionando quanto i musicisti gli offrono. Dunque: tenere acceso in permanenza lo shit detector e amalgamare le canzoni in un insieme coerente e dotato di senso. Ma quando la band decide di fare tutto da sola? Se qualcuno dei musicisti ha talento anche nel campo della produzione, tutto bene. Ma questo non sempre accade. Di sicuro, non è accaduto quando gli Stranger registrarono autarchicamente questo loro secondo album.

Storia interessante, quella degli Stranger. Scoperti da Tom Werman, firmarono per la Epic e incisero sotto la sua guida un album autointitolato nel 1982. ‘Stranger’ ottenne un notevole successo in Florida, patria della band, ma nonostante esibizioni a supporto di Triumph, Quiet Riot, Aldo Nova, Eddie Money, gli Stranger non riuscirono a riscuotere negli altri cinquanta stati il consenso ottenuto in casa loro, al punto che, mentre si trovavano in studio a incidere quello che avrebbe dovuto diventare il loro secondo album (doveva intitolarsi, pare, ‘Runnin’ in the Red’), vennero liquidati dalla Epic (la quale, in sostanza, li pagò perché smettessero di registrare). Rimasero attivi, continuando a suonare – sempre seguitissimi – in Florida, ma passarono anni prima che una nuova label si interessasse a loro, stavolta fu la solita Atlantic a proporgli un deal che però la band non trovò più allettante di quello a suo tempo firmato con la Epic. Da qui la decisione di fondare una propria label e prodursi la musica da soli. ‘No Rules’ fu il primo frutto di questa strategia poco avveduta, quantomeno dal punto di vista commerciale: lo fu anche da quello artistico?

Gimme The Rock” apre l’album con un metal californiano serrato e decisamente scontato, il genere di stesura che già in quel 1989 potevamo dire di aver ascoltato innumerevoli volte sotto questo o quel titolo. Parziale cambio di scena con “Mama Mama”, che proietta flash di synth e sprazzi funky su un riffing molto Ratt: le tastiere fanno anche l’assolo e il feeling danzereccio è tutt’altro che sgradevole. Su “Wrong Side of the Tracks” imperano gli Autograph: non molto originale, ma perfetta da spararsi in spiaggia. Se “We Were Wrong” è una classica power ballad da arena rock non del tutto riuscita (suona un po’ moscia), “Swamp Woman” torna al metal made in L.A., sinuosa e allupata su un bel fondo di keys. Catalogato il breve strumentale “Autumn Time Again” alla voce “presa per il culo”, passiamo alla title track, anche lei strumentale ma più seria del brano precedente, in sostanza un lungo assolo acrobatico di chitarra a cui segue “Hit And Run”, ancora molto Autograph con begli interventi di tastiere fra il riffing avvolgente. Arioso il refrain di “3-D”, un po’ Toto un po’ Survivor, “One More Night” ripropone ancora una volta i teoremi sonori della band di Steve Plunkett, ma in un clima leggero e pop rock, “Alligator Joe” è invece bluesy e insinuante, colorata dall’armonica e dall’organo Hammond, molto elettrica come la conclusiva “Thunder Bay”, hard’n’roll di nuovo debitore degli Autograph.

Un buon disco, ‘No Rules’, ma mi pare che se gli Stranger si fossero fatti guidare da un produttore, avrebbe potuto essere ancora migliore. È come slegato, privo di continuità, e alla banalità di “Gimme The Rock” e “We Were Wrong” un bravo specialista della produzione avrebbe potuto trovare un rimedio (oppure eliminarle dalla set list e amen). Ma i produttori costano, e considerato che la band si fece disegnare la copertina dal fratello del batterista, si può immaginare quanto sontuose fossero le loro disponibilità finanziarie.

Ad oggi, ‘No Rules’ ha avuto due riedizioni: la defunta Retrospect lo ripropose per prima nel 2005, poi fra il 2018 e il 2019 la SR-84 Records lo ristampò sia su CD che su vinile (la band non aveva ritenuto di stamparlo come LP, nel 1989 si poteva comprare solo su CD e cassetta). Tanta attenzione per il prodotto di una band rimasta allo stadio di star regionale non è ingiustificato, ‘No Rules’ è un buon album ma… se gli Stranger fossero stati meno diffidenti e l’offerta dell’Atlantic l’avessero accettata, che genere di disco avrebbe potuto diventare, una volta sottoposto alle cure di un produttore che la major non avrebbe avuto nessun problema a stipendiare?

 

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BEAU GESTE

 

 

  • ANOTHER NIGHT IN THE CITY (1986)

Etichetta:TGO Reperibilità:in commercio

 

Il Quebec, l’area francofona del Canada, non ha dato un gran contributo all’AOR nazionale. Poche sono le band provenienti dall’est del paese e una delle più note sono stati i Beau Geste. Che non solo scelsero come moniker un’espressione francese (“bel gesto”, in genere usata in senso ironico), ma nel loro primo album del 1982 cantavano in quello che nel Quebec viene considerato l’idioma nazionale quasi tutte le canzoni: scelta coerente con il patriottismo arrabbiato che caratterizza quest’area del Canada (sempre sull’orlo della secessione dal resto del paese), ma certo poco adatta a farli conoscere fuori dai suoi confini. Nel 1986, in occasione del secondo album, decisero saggiamente di rinunciare al francese e cantare in inglese, però ‘Another Night In The City’, come il suo predecessore, venne pubblicato solo in Canada e da una label indipendente locale, la TGO. La diffusione, di conseguenza, fu modesta, e anche la rinomanza della band non guadagnò molto dal passaggio a quella che si può ben considerare la lingua internazionale del rock. In compenso, il popolo dell’AOR ha innalzato presto ‘Another Night In The City’ allo status di classico, nonostante il confino canadese a cui è stato sempre costretto (anche le ristampe, nel 1993 e nel 1998, furono edite da label locali) e il fatto che in origine uscì solo su LP. Se del primo album omonimo non sono in grado di riferirvi perché non l’ho mai ascoltato, di ‘Another Night In The City’ posso dirvi che la sua posizione nelle classifiche ideali dell’Adult Oriented Rock non è affatto usurpata. Si può obiettare che non vi sono grandi spunti personali, e pure che il sound è in effetti più americano che genuinamente canuck, ma la qualità del songwriting (per tacere di arrangiamenti e produzione) colloca senza discussioni l’album nell’empireo dell AOR.

Il leader dei Beau Geste era Bryan Hughes, cantante e polistrumentista, la lista dei musicisti coinvolti nell’incisione e nel songwriting dell’album comprende sette persone, ma sulla copertina Brian posa solo con un altro tizio che non saprei identificare (uno dei sette suddetti, direi, ma quale?). La produzione (eccellente, cristallina) era nelle mani di Tony Green, proprietario della TGO e noto soprattutto per aver lavorato con molti gruppi di discomusic canadese.

Apre le danze “Take These Chains”, impostata sulle stesse atmosfere contemporaneamente drammatiche e rarefatte su cui si eserciterà il Tommy Shaw solista, con un suono decisamente keys oriented. “Catch the Fire” e “Don’t Go” fanno molto Journey primi 80, la seconda più elettrica e vagamente robotica grazie alle tastiere suonate col sequencer, e la band di Neil Schon si sente anche attraverso “Running from Your Heart”, serrata, elettrica e ariosa. In “Still of the Night” c’è un synth bass pulsante, un ritmo lento e sexy, una bella chitarra ruvida e un refrain dal sapore anthemico, a seguire la title track impasta felicemente Journey e Foreigner, e ha un riuscito assolo di tastiere. I Foreigner si sentono più distintamente nelle atmosfere di “Strong Tonight”, fra le strofe carezzevoli e il refrain impetuoso, “Heartbreak City” ci riporta all’AOR dei primi anni 80 con i suoi riff di chitarra secchi ed elementari, le tastiere che danno profondità e colore e il clima anthemico. “No More Heroes” vede tra i songwriter anche Aldo Nova ed è il peso massimo del disco, col suo riffing da metal californiano sotto la melodia AOR e i giri di keys, mentre “Shadow on the Moon” chiude l’album con una stesura sinuosa, elettrica, segnata dal pregevole impasto tra chitarre e tastiere e la melodia suggestiva.

Se dei Beau Geste, dopo questo disco, non si sentirà più parlare, Bryan Hughes tornerà nel 1991 con il moniker Bryan Hughes Group per un album sempre eccellente e sempre condannato dal confino canadese a diventare una delizia per pochi intimi.

Another Night In The City’ è in vendita in formato .mp3 su Amazon Music, mentre i prezzi dei CD variano da una quindicina di euro (ma per quella che sospetto sia una ristampa illegale) a oltre cinquanta. Indispensabile? Forse no, ma privarsene è rinunciare a una scheggia di pregevolissimo AOR degli anni d’oro.

 

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THE DEAD DAISIES

 

 

  • LIGHT 'EM UP (2024)

Etichetta:The Dead Daisies Pty/Audioglobe Reperibilità:in commercio

 

Il rientro di John Corabi nei Dead Daisies l’ho accolto con grande piacere. Le vocals di Glenn Hughes su ‘Holy Ground’ mi avevano talmente infastidito che decisi di saltare ‘Radiance’ per non dovermi sorbire altri quaranta minuti o giù di lì di urla a squarciagola… Non che Corabi, qui, sussurri: tutt’altro, ma sarà che la sua voce ruvida e acida mi riesce più gradevole di quella acuta e monocorde che sfoggia di questi tempi Glenn. E poi c’è la produzione accurata di Marti Frederiksen, che si occupa anche delle parti (non ridondanti) di tastiere. Accanto a Doug Aldrich c’è sempre David Lowy, il basso è nelle mani di Michael Devin e il batterista è Evan Frederiksen (figlio di Marti). Si comincia molto bene con la title track, un metal ‘n’ roll spettacolare e divertente, “Times Are Changing” è invece un class metal tramato di blues con refrain anthemico, “I Wanna Be Your Bitch” procede su un riffone alla AC/DC su cui scivola il cantato acido e cadenzato di Corabi che sfocia in un refrain beffardo. Anche “I’m Gonna Ride” parla la lingua degli AC/DC, mentre “Back To Zero” è un heavy metal lento, minaccioso e imponente. Doug Aldrich prende decisamente il comando su “Way Back Home”, col suo flavour zeppeliniano, l’alternanza voce / riff, e quel refrain molto Burning Rain, “Take A Long Line” è serrata, con un refrain troppo essenziale, “My Way And The Highway” spara un altro metal ‘n’ roll scanzonato ma dal coro tempestoso, “Love That’ll Never Be” è una bella power ballad, calda ed elettroacustica. Gran finale con “Take My Soul”, un hard bluesy magistrale e stregato, tessuto su un potente intreccio di chitarre slide e segnato dal fascinoso bridge zeppeliniano.

È evidente che il rientro di Corabi ha riequilibrato il sound, i Dead Daisies di questo ‘Light ‘Em Up’ non sono più la succursale heavy metal dei Burning Rain, il sound è meno aggressivo e più vario, Doug Aldrich si fa valere (“Take My Soul” è senza dubbio tutta farina del suo sacco) ma non è più l’unico capitano di un vascello su cui, anche se non ha ripreso del tutto la rotta di un tempo, è sempre piacevole navigare.