RECENSIONI IN BREVE

 

 

AORARCHIVIA

EAST TEMPLE AVENUE "Both Sides Of Midnight"

Il debutto di questa band internazionale non stupisce e neppure stuzzica. Le canzoni sono più che altro un tappeto per la voce del bravissimo Robbie LeBlanc (Find Me, Blanc Faces), su cui il suddetto cesella con grande talento armonie, melodie, cori… Ma, oltre alle performance vocali di LeBlanc, non c’è altro in queste dieci track che richiamano di volta in volta Unruly Child, Tyketto, Journey, Winger e W.E.T. senza fantasia. ‘Both Sides Of Midnight’ è uno di quegli album che non lasciano la minima traccia di sé dopo l’ascolto e fra qualche mese sarà già (meritatamente) dimenticato.

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AOR Heaven - 2020

 

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MRS LOUD "Mrs Loud"

La voce di Lorraine Crosby (in arte, Mrs Loud) non aveva un timbro eccezionale, ma risultava calda, duttile e potente. In questo suo primo (e unico?) album autoprodotto si adagiava con grande disinvoltura su canzoni che svariavano molto tra tempi e atmosfere del rock. Molto buone risultavano “I Want You So Bad”, densa di chiaroscuri vagamente southern; la vivacità r&b di “If I Have You”; “A Love That Grows”, con le sue belle sfumature Bad Company; il gran ritmo condito di un refrain arioso di “Last Train To Paradise”; la power ballad “Follow Your Heart”, col suo spiegamento di tastiere e la melodia AOR. Per chi ama le belle voci femminili nel rock, sicuramente da recuperare.

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Autoproduzione - 2007

 

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CHRIS ANDREW "Hit and Run"

Titolo senza dubbio minore, ma questo unico album di Chris Andrew ha parecchio da offrire ai nostalgici del tipico pop rock della metà dei Big 80s, con le solite alchimie melodiche tra Journey e Toto tessute fra percussioni sintetiche e raffiche di keys dardeggianti, fitte di tentazioni dance. Le chitarre elettriche a volte sono potenti (come nell’arena rock “Back Seat Lover”) altre svaniscono quasi del tutto (“Fantasy”, molto dance e con una batteria elettronica un po’ troppo invadente). Buona la produzione e discreto il songwriting. La reperibilità è molto limitata, però i prezzi dell’LP non sono spropositati, tra i 20 e i 25 dollari negli USA. Discogs stranamente lo dà pubblicato solo su 33 giri, invece il CD esiste, anche se è di rarità estrema e immagino spunti quotazioni ben più alte del vinile.

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Roadside Records - 1987

 

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THE DEAD DAISIES "Holy Ground"

Con l’addio di John Corabi, Doug Eldritch ha preso una volta per tutte il controllo della band, trasformandola in una sorta di succursale dei Burning Rain: più diretta ed heavy, meno melodica della versione originale ma sempre legata a doppio filo con quel moniker che rappresenta il centro dell’attività solista di Doug. Ho qualche riserva sulle vocals di Glen Hughes, che urla come un ossesso praticamente per tutto l’album, ma il livello generale del songwriting è eccellente. La sola “30 Days in The Hole” (cover degli Humble Pie) ricorda i Dead Daisies di una volta, col suo flavour r&b, tutto il resto è (ottimamente) Burning Rain (e ultimi Whitesnake, naturalmente), contrassegnato dall’inconfondibile riffing di Doug, sia pure modulato su un voltaggio più alto del solito. Il top nella conclusiva “Far Away”, col suo crescendo zeppeliniano, variopinto e suggestivo.

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SPV - 2021

 

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ALBERTO SONZOGNI "September Man"

Di buona fattura questo esordio del tastierista Alberto Sonzogni. Il suo rock melodico è spesso tinto di prog, e rimanda in più di un frangente agli Harlan Cage. Gli arrangiamenti sono sempre molto vari e l’ordito strumentale è sofisticato e curato. In molti si alternano al microfono e non mancano i duetti (con Gessica Pirola e Carmen Giammona). Davvero un buon album.

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Freemood - 2021

 

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MESSENGER "Special Delivery"

L’unica testimonianza lasciataci dai canadesi Messenger si può senza esitazioni caricare sul registro degli album superflui. La qualità audio è solo decente, il songwriting non è affatto brillante, riciclando le architetture sonore di arcinote realtà locali (Bryan Adams, i Loverboy dei primi album, gli Honeymoon Suite) senza distinzione né la minima verve. Qualche fiammata viene dalla ballad elettrica “Wishing You Were Here” e dall’AOR molto Honeymoon Suite “No Holding Back”, troppo poco per cavare fuori ‘Special Delivery’ dal sovraffollato limbo dei dischi dignitosamente mediocri.

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Messenger Records - 1994

 

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SILVERNITE "Silvernite"

Band parte greca e parte finlandese, i Silvernite, che esordisce sulla lunga distanza con un LP autointitolato di caratura certo non gigantesca. Provano a inseguire l’AOR degli anni ’80 nelle sue declinazioni più pop ma lo corrompono con dosi massicce di sound svedese moderno (la melodia melensa di “Raise Your Hands” è senza dubbio puro scandi-AOR dei Big 80s, il refrain di “True Survivor” suona invece tronfio), e il songwriting resta comunque nel trito o nell’insignificante (“Honestly” è davvero come se non ci fosse): perfino i tentativi di scopiazzatura naufragano (“Angel Of The City”, che nella fantasia della band dovrebbe somigliare a qualcosa dei Boulevard). Sento qualcosa di buono in “Danger Zone” (molto elettrica, dal sound più tedesco che svedese) e nella melodia accattivante di “Broken Heart”, ma sono soltanto poche scintille che si levano dal grigiore generale, acuito da una cantante certo ben intonata, ma dotata di una vocina monotona e fredda.

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Valve Studio Records - 2021

 

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KREEK "Kreek"

L’esordio di questi americani Kreek, capitanati da Antony Ellis (Bigfoot), piacerà soprattutto ai nostalgici del tipico heavy metal americano della prima metà degli anni ’80 (nello stile, tanto per capirci, degli Y&T). Il grosso del materiale si mantiene su queste coordinate sonore, ma c’è pure una buona dose di class metal che prende la forma di una piece zeppeliniana alla maniera dei Burning Rain (“Down ‘N Dirty”), un dinamico esercizio di hard rock un po’ Van Halen (“Million Dollar Man”), una discreta scheggia di metal californiano fra Ratt e XYZ (epoca primo album) intitolata “Get Up”. Anche “Stand Together” spicca con le sue strofe acustiche ed il refrain elettrico e beffardo, mentre la conclusiva “On Your Own” e una power ballad discreta. Alla fine, nulla di trascendentale, solo un disco onesto che chi predilige il melodic metal yankee di trent’anni fa troverà senza dubbio gradevole.

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Frontiers - 2021

 

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SMITH / KOTZEN "Smith / Kotzen"

È intestato a entrambi e con il nome di Adrian Smith davanti a quello di Richie Kotzen, ma in questo disco io sento quasi solo Kotzen, con quel suo hard rock agile e infarcito di black music che guarda ai ’70 senza fanatismi. Dal funkeggiare hi tech di “Taking My Chances” al ritmo nello stesso tempo pigro e incalzante di “Some People”, dal refrain solare di “Glory Road” alle atmosfere notturne ed elettriche di “Scars”, Richie s’impone nettamente sul collega, che duetta con lui su qualche track e lascia esili tracce del suo chitarrismo. Qualche canzone è inutilmente lunga, “Running” è opaca e “You Don’t Know Me” suona un po’ troppo grave, ma ‘Smith / Kotzen’ è un prodotto di discreta caratura, che tutti i fan di Richie accoglieranno con piacere.

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BMG - 2021

 

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LOVERS LANE "Chiseled in Stone"

È un vero e proprio minestrone quest’unico album dei Lovers Lane: comincia in maniera decisamente sleaze/glam rifacendosi a Crüe (“True Love”) e Poison (“Where Were You”), amplia lo spettro melodico alla maniera degli Slaughter con “Follow Your Heart” e “Goodbye” (ben lubrificate dalle tastiere), fa una virata in direzione del metal californiano con un blocco di quattro canzoni che seguono (nell’ordine) le tracce di Dokken, Twisted Sister e Ratt, si trasferisce nel New Jersey dei primi Bon Jovi con “That’s Why”, conclude le danze con una ballad elettroacustica che potrebbe appartenere al repertorio dei Firehouse e una “Welcome to the World” che prende le mosse come una ballad elettrica diventando una cavalcata metallica. Il singer Rick Roark funzionava benissimo come emulo di Vince Neil ma si difendeva bene anche fuori dal contesto più spiccatamente glam, però il songwriting restava abbastanza ordinario, anche se il chitarrista, Todd Fulcher, provava a vivacizzare le canzoni con qualche fraseggio estroso. Il prezzo non proprio leggerissimo (dai trenta dollari in su, e le sue comparse tra eBay e Amazon sono molto saltuarie) lo rende un articolo appetibile solo per completisti dell’hard melodico.

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Indian Records - 1994

 

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PRICE - SULTON "Lights On"

Non ebbe grande fortuna l’unico parto della band formata da questi due nomi prestigiosi del panorama rock dei Big 80s: Kasim Sulton a voce, basso, tastiere e chitarre (nel suo carnet ci sono Utopian, Meat Loaf, Patty Smyth, Blue Oyster Cult), Thommy Price per batteria, voce e chitarre (lo troviamo prima o dopo questo disco con Joan Jett, Scandal, Billy Idol, Steve Stevens, Adam Bomb, John Waite, Blue Oyster Cult). L’album era impostato su un AOR mai troppo aggressivo, che spesso prendeva come riferimento i Loverboy (“Shotgun Shy”, dal refrain un po’ zuccheroso; la melodia pop della title track e di “Reckless And Wild”; “Something’s Gonna Happen”, spruzzata di Journey). Il meglio stava nel ritmo danzereccio, vivace e divertente, di “Take Me Away”, nelle atmosfere notturne e fascinose (con qualche tocco funky) di “Stories”, nel clima sofisticato e suadente di “Heaven’s Girl”. Un disco, ‘Lights On’ che ha tutto, comunque, per piacere a chi ama il pop rock raffinato che faceva furore nella prima metà degli anni ’80, tutto tastiere e batterie elettroniche. La reperibilità non è delle migliori: pubblicato su CD unicamente in Giappone, in giro si trovano solo LP e cassette, e a prezzo tutt’altro che vile (il disco passa su eBay per non meno di quaranta dollari). Nel 2014 l’etichetta pirata brasiliana Hard Rock Diamonds lo ripubblicò su CDr, ma una ristampa regolare e fatta come si deve non è ancora arrivata.

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Columbia - 1986

 

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THE END MACHINE "Phase 2"

Il secondo capitolo della “nuova” band di George Lynch, Jeff Pilson e Robert Mason (alla batteria c’è adesso Steve Brown, fratello di Mick che ha lasciato dopo il primo album) segue perfettamente il primo ‘The End Machine’ di due anni fa: street metal in linea con quello praticato da George nei Lynch Mob, ma meglio prodotto e con maggior continuità nel songwriting (se volete approfondire, seguite il link). Due canzoni potevano tranquillamente lasciarle fuori (“Blood and Money” è banale e afflitta da assoli classicheggianti del tutto fuori luogo in questo contesto, “Dark Divide” suona opaca), tutto il resto convince e piacerà (suppongo) soprattutto ai fan dei Mob (come il sottoscritto). Il meglio? Forse l’alternanza di strofe sognanti e refrain beffardo di “Devil’s Playground” o le trame melodiche di “Born of Fire”, ma il livello è abbastanza uniforme e abbastanza alto (fatta eccezione per le due track già viste) da promuovere ampiamente ‘Phase 2

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Frontiers - 2021

 

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BILLY THE KID "Sworn to Fun"

Da non confondere con gli omonimi olandesi che pubblicarono nel 1999 ‘The Burnout Factor’, questi Billy The Kid erano americani e praticavano una piacevole miscela di hard rock e metal melodico nel più tipico stile della prima metà dei Big 80s, attingendo prevalentemente a Quiet Riot, Van Halen e Twisted Sister (quelli più pop), insaporendo la miscela con le acrobazie chitarristiche che il titolare della sei corde, Billy L’Kidd, spiegava con bella scioltezza attraverso un tessuto sonoro per il resto molto essenziale: nove track (più intro) elettriche, con appena qualche sprazzo insignificante di tastiere (suonate nientemeno che da Pat Regan) e neppure una ballad, ma all’epoca non erano ancora considerate indispensabili nei dischi di hard rock. Prodotto da Duane Baron, ‘Sworn to Fun’ scontò la solita indifferenza della MCA in fatto di promozione e cadde presto (e immeritatamente) nel dimenticatoio. Mai edito su CD né ristampato, passa di mano su eBay per una decina di dollari ma è difficile avvistarlo fuori dagli States. 

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MCA - 1985

 

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RED VOODOO "Bring it Back"

Giovani, giovanissimi (il più vecchio è il batterista, che ha 21 anni), ma questi Red Voodoo sono autentici retro rockers, della frazione minoritaria dedita al retro rock 80. Per andare sul sicuro si sono fatti produrre da Frank Hannon dei Tesla, che gli ha confezionato un disco senza dubbio interessante per i nostalgici del tipico melodic metal del bel tempo che fu, svariando abilmente fra i soliti nomi (Quiet Riot, Keel, Y&T, Ratt, Kix e, in almeno un paio di occasioni, Tyketto). Il risultato globale è discreto, ma la qualità audio di ‘Bring it Back’ non è proprio esaltante: se non rovina del tutto il piacere dell’ascolto, senza dubbio lo sciupa un bel po’.

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Autoproduzione - 2021

 

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DIAMANTE "American Dream"

Confrontato con l’esordio di tre anni fa (seguite il link per saperne di più), ‘American Dream’ è un passo indietro. È più heavy – almeno a tratti – meno pop, ma soprattutto risulta completamente immerso nel moderno, senza quelle piacevoli commistioni con il rock classico che avevano fatto brillare ‘Coming in Hot’. Il songwriting è piatto, banale, ripete i soliti cliché già di rigore in chi pratica il modern rock, generando canzoni che ci danno una costante sensazione di già sentito, perfino la cover di “Iris” (quella dei Go Go Dolls) suona trita (e soffocata da muri di chitarre inutilmente rumorose) e se non si può dire che ci sia una canzone davvero brutta altrettanto possiamo affermare che non ce n’è una che spicchi e si possa ricordare, confondendosi tutte fra quanto Nickelback, Halestorm, Shinedown suonano ormai da parecchi anni.

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Anti-Heroine - 2021

 

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LEVARA "Levara"

Si è mossa nientemeno che la Mascot per questa band che può vantare un figlio d’arte alla chitarra (Trev Lukather e se quel cognome non vi dice niente siete sul sito web sbagliato), l’ex drummer dei One Direction Josh Devine e il cantante francese Jules Galli. Hard rock melodico al crocevia tra classico e moderno, sempre ben arrangiato e prodotto alla grande. Se “Heaven Knows” e “Automatic” proiettano una matrice melodica Toto su un telaio alla Shinedown, “Can’t Get Over” e “On For The Night” sposano le atmosfere dei Diving For Pearls al rock moderno, mentre “Just A Man” traduce gli Alter Bridge nel linguaggio del rock melodico. Il top? Forse “Ordinary”, la più Toto del mazzo, vivace, solare, con le sue ombre funky e reggae.

Se il futuro del nostro genere dovesse passare dalle parti dei Levara, non avrei proprio nulla da obiettare.

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Mascot - 2021

 

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SETH MARSH "Whole Lotta Noise"

In quella terra di confine dove di incrociano e si fondono l’AOR e l’heartland rock di gente come Bruce Springsteen e John Mellecamp (e nei nostri territori colleghiamo in prevalenza alle produzioni di Henry Lee Summer), viaggiò (per un solo album) Seth Marsh. ‘Whole Lotta Noise’ era un gioiellino caratterizzato da una produzione attenta e curata, belle timbriche, songwriting brillante. Spiccavano “Devil Talkin’”, col suo bell’intreccio chitarre/tastiere sulla scia del primo Mitch Malloy, il riff secco e gli ottoni di “Sexy Little Number”, i chiaroscuri di “Try And Understand”, l’alternanza tra atmosfera e vivacità di “King For A Day”. Mai ristampato, ‘Whole Lotta Noise’, ma reperibile in buona quantità su eBay USA e a prezzi (in genere) tutt’altro che folli.

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JRS Records - 1991

 

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MAGGIE BELL "Crimes Of The Heart"

Troppo lunga e articolata la carriera della cantante scozzese Maggie Bell per poterla riassumere qui: chi vuole approfondirla può rivolgersi alla scheda dedicatale da Wikipedia. Trattiamo invece della sua unica incursione nei territori dell’AOR, ‘Crimes Of The Heart’: pubblicato nel 1988 per la label tedesca Bellaphon (ma solo in Germania), è però impostato in prevalenza su un pop rock primi ’80 che deve molto ai Loverboy (“Endless Night”, “Living a Lie”, “I’m on the Edge” che suona anche un po’ Cars). Se la title track e “Tonight” guardavano all’universo di Bryan Adams, “Love Me Stranger” impastava benissimo Toto, Journey e Survivor. Il top era rappresentato da “Burned Out Love Affair”, con le sue chitarre tinnanti, i veli di tastiere, d’atmosfera nelle strofe e luminosa nel refrain. La voce rauca ma equilibrata di Maggie funzionava benissimo nel contesto ma ‘Crimes Of The Heart’ passò inosservato e oggi è praticamente irreperibile.

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Bellaphon - 1988

 

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LUV JUNKIES "Luv Junkies"

Sempre, piacevolmente in bilico tra il più classico metal californiano (di prevalente matrice Ratt) e lo street rock, questo esordio dei Luv Junkies. Se “Slice Of Life” aveva un lieve retrogusto funky, “Crash And Burn” rimandava vagamente ai Love/Hate, mentre “Little By Little” e “Maximum Attraction” si ricollegavano ai Tora Tora epoca primo album e “Ain’t No Good-Bye’s On The Road” era una ballad elettroacustica fatta di bei chiaroscuri. Alla buona riuscita dell’album non erano estranee le parti vocali affidate a Jimmy Kunes, cantante sul genere di Anthony Corder dei Tora Tora, che in seguito sarà per tre dischi il singer dei Cactus. Tre anni dopo, i Love Junkies tornarono in formazione molto rimaneggiata (era rimasto al suo posto solo il chitarrista, Fate Taylor) per un secondo disco che non ho mai avuto il piacere di ascoltare ma sembra avesse un sound abbastanza diverso dal suo ottimo predecessore.

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Total Noise - 1993

 

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THE BELIEVERS "Extraordinary Life"

Sulla scia degli Outfield (che fecero il botto con il loro esordio del 1985, diventato tre volte di platino negli USA) si avviarono questi Believers, anche loro inglesi, un terzetto formato da musicisti tutt’altro che inesperti (nei loro carnet c’erano nomi come Adam And The Ants, Roxy Music, Peter Hamill, Naked Eyes, John Wetton) guidati dietro il banco del mixer addirittura da Greg Ladanyi e con il contributo alle tastiere di C. J. Vanston. La produzione superba valorizza dieci schegge di AOR cristallino dagli squisiti tocchi pop, fra cui è arduo scegliere degli highlight (il basso funky di “Promises”? I chiaroscuri d’atmosfera di “All The Love Has Gone”? Il divertente ancheggiare di “Hit And Run”?) per un disco che è comunque da godere dal principio alla fine.

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Savage - 1992

 

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BORN YESTERDAY "Born Yesterday"

Poco o nulla si sa di questa band canadese, la cui esistenza è testimoniata da un solo album omonimo uscito per una indie locale nel 1991. Suonavano spesso come un Bryan Adams infiacchito, senza estro e a volume troppo basso, e il loro cantante, pur intonato, aveva una tecnica che si può definire solo come “primitiva”. Nella seconda parte, il disco virava un po’ verso l’heartland rock con risultati discreti, ma ‘Born Yesterday’ resta comunque un lavoro trascurabile per non dire superfluo.

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Current Musical Enterprises - 1991

 

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TANIA KIKIDI "Rock & Roll Paradise"

La greca Tania Kikidi ha un vocione privo di carattere e che non sia di madrelingua inglese si capisce benissimo quando canta nella lingua di Shakespeare. Questo ‘Rock & Roll Paradise’ è impostato su una serie ben condotta di ricalchi competenti, che però ricalchi restano. Si passa da un metal californiano condito di refrain melodici ad un hard rock molto Burning Rain, da stesure che rimandano agli Whitesnake contemporanei a una track del tutto moderna per concludere con la solita ballatona in crescendo. Non un disco malvagio, ‘Rock & Roll Paradise’, ma neppure meritevole di particolare attenzione: il genere di album che si ascolta e si dimentica immediatamente.

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Grooveyard Records - 2021

 

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MICHAEL KRATZ "TAFKATNO"

Tre anni dopo l’ottimo ‘Live Your Life’ (per saperne di più, seguite il link), Michael Kratz torna con un album dove AOR e pop rock vengono coniugati in senso prog con grande eleganza. Se in un paio di casi gli accenti progressive prevalgono (“You’re The One” e “Everlasting Love”: un po’ cerebrali, magari), nelle altre canzoni aggiungono un bel tocco distintivo. “A Way To The Future” fa abbastanza Asia, la ballad elettroacustica “Let’s Do Something Good” sconfina in territori classic rock, “Too Close To The Edge” rilegge il pop rock anni ’80. Il top? Forse “The Highway”, incalzante e notturna nelle strofe, luminosa nel refrain, ma ‘TAFKATNO’ (qualunque cosa voglia mai dire questa parola…) è nel suo complesso un buonissimo disco.

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Art Of Melody Music - 2021

 

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STEPHANIE HOWELL "Facing the Fire"

Raro (pubblicato solo dalla filiale australiana della East West) e caro (quotazione sui settanta euro), l’unico album di Stephanie Howell, ma pure un gran bel disco di AOR e FM rock, grazie alla produzione raffinata (di Garry Frost e David Hemming) e al songwriting di alto livello (dovuto soprattutto a Gary Frost, ma una canzone venne scritta da Jesse Harms e Sammy Hagar). Grande atmosfera nella title track, in “Land Of I” e “Can’t Stop The Fire” (più aggressiva, con bei tocchi Journey), “Dreamsong” sfoggiava una vena r&b nel refrain, il potente impasto elettroacustico di “Emotional Outlaws” rimandava senza equivoci a Bryan Adams, “Cry No More” era un pop rock fascinoso, “Breaks Your Heart” una ballad solare. Stephanie Howell la potevamo assimilare ad una Fiona più acuta ed espressiva ed è un peccato nessuno si sia mai accorto che ‘Facing The Fire’ era davvero un bel disco.

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East West Records Australia - 1992

 

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AIRTIME "Liberty Manifesto"

Il titolo dell’unico album intestato a questo progetto potrebbe suggerire che i leader Rik Emmett (Triumph, ma c’è bisogno di ricordarlo?) e Michael Shotton (Von Groove) si abbandonarono a chissà quali bizzarrie, invece l’andamento di ‘Liberty Manifesto’ è abbastanza convenzionale: c’è molto Triumph (“Liberty”, “River Runs Deep”, “Rise”, “Moving Day”, “Cryin’ Shame”), un po’ di Von Groove (“Addicted”, che spara quel genere di hard rock secco e ritmato che Michael Shotton e Mladen facevano su ‘Driving Off the Edge of the World’). “Edge of Your Mind” e “Find Your Way” azzardano qualche elemento prog, “Midnight Black & Blue” è molto heavy e ha un riffing moderno, i due strumentali lasciano un po’ il tempo che trovano, è notevole invece “Code 9”, funky con qualche sfumatura jazz e prog e un refrain liscio e westcoast ma molto elettrico. Non certo un album da buttare, ma il titolo ne riflette solo molto parzialmente i contenuti.

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Escape - 2007

 

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STEELE "Steele"

Jeff Zugale, in arte Jeff Steele, pubblicò un solo album nel 1996 (in Giappone, per la Alfa-Brunette; venne stampato in Europa nel 2011 dalla Z Records, con un altro titolo - 'Tricks Up My Sleeve' - una copertina diversa e l’aggiunta di quattro bonus track irrilevanti), fatto di dieci canzoni  che componevano un quadro abbastanza variegato ed efficace. Si comincia con il class metal ipermelodico di “Tricks Up My Sleeve”, proseguendo con il clima californiano e sleaze di “Love Ain’t Gonna Change Me”. “700 Miles” richiama piacevolmente le atmosfere western/melodiche dei Dillinger, “Flirtin’ With Fame” è fatta di pura materia Ratt/Crüe. Se il clima cupo e metallico di “Stay” mi dice poco, molto meglio riesce “Live Forever”, ariosa ma pure molto elettrica. Torniamo al metal californiano allupato con “I’ll Never Cry”, “Only In Your Mind” è una power ballad fatta di bei chiaroscuri, “Lead Me Over” – incalzante nelle strofe e ipnotica nel refrain – arretra un po’ verso gli anni ‘70, la suggestiva “Innocence” chiude  l’album in un clima solenne e vagamente zeppeliniano. L’edizione originale, come quasi tutti gli import giapponesi, è rara e cara (prezzo dai 30 dollari in su), quella del 2011 è presente sul mercato in abbondanza e ha una quotazione abbordabile (difficile che chiedano più di dieci dollari).

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Alfa-Brunette - 1996

 

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STEVE STONE "Dreams Die Hard"

Poco si sa di Steve Stone. Un solo album, ma per la major Epic e prodotto da un nome prestigioso, Russ Vannelli: questo è quanto ci rimane di lui. ‘Dreams Die Hard’ non si distingueva particolarmente nella massa di materiale sonoro che in quegli anni occupava gli scaffali dei negozi di dischi: c’era una forte vena Autograph, un po’ virata sul pop e trasfigurata da una produzione sofisticata (“Schoolboy Fantasy”; il party rock “Seventeen And Ready”; “Nobody’s Gonna Tear Me Down” e la title track, che nei refrain virano verso l’heartland rock; “Victim Of Love”, saltellante e divertente), qualche tentazione Def Leppard (“Standing On The Edge”), Bryan Adams (“The Girl’s On Fire”) e Bon Jovi (la power ballad “Faces In The Rain”). Steve Stone metteva nel suo cantato una certa sfumatura glam, ma la musica non abbordava mai quelle atmosfere, restando nel confortevole recinto del melodic rock con ambizioni da alta classifica, ambizioni che però difficilmente ‘Dreams Die Hard’ avrebbe potuto tradurre in pratica: un album di quelli che in genere si definiscono “carini”, senza picchi degni di nota. Anche la sua quotazione sul mercato dell’usato (su eBay USA va via a dieci dollari o anche meno) testimonia lo scarso interesse che il popolo dell’AOR gli ha riservato.

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Epic - 1990

 

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TAO "Prophecy"

Se avete sempre sognato una versione dei Ten a guida vocale femminile, questi TAO fanno indubbiamente per voi. Tutte le canzoni sono state scritte da Gary Hughes, che ha anche prodotto l’album e fatto eseguire le parti di tastiere dal key player dei Ten…. E detto questo, non ci sarebbe poi molto altro da dire, tutto sommato. Le dieci track suonano come mezze cover dei Ten di ieri e oggi, con la solita alternanza tra un suono pop, metallico o pomposo/epicheggiante: buone senza stupire. Il problema è la cantante, Karen Fell: è intonata, okay, ma non è assolutamente adatta al rock: la sua voce ha un suono caramelloso, se fosse appena un po’ più acuta diventerebbe la gemella di Patsy Kensit all’epoca degli Eight Wonder, ed ha la stessa espressività di un carillon. Perché diavolo una che si ritrova una voce simile ha deciso di mettersi a cantare proprio l’hard rock? Comunque, se la voce di miss Fell non vi disturba o vi provoca attacchi di sonnolenza, e dei Ten siete fan assatanati, una chance ai TAO potreste anche darla.

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Tarot Label Media - 2022

 

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DREAMSTREET "Heartzone"

Ripescata dalla Retrospect nel 2007, questa solitaria testimonianza discografica dei Dreamstreet non si sa se abbia avuto mai una pubblicazione effettiva (anche se la label lo dà inciso nel 1986) o è solo una raccolta di demo. Comunque, ‘Heartzone’ non si presenta male, offrendo una produzione abbastanza buona e otto canzoni perlomeno gradevoli. Il top è la title track, con un’impronta melodica alla Foreigner e un ritmo nello stesso tempo pacato e galoppante, ma anche “Head Troubles” spicca, scoppiettante e divertente, mentre “Money” si volge all’AOR hard edged primi ’80 impastando Loverboy e Journey. Insomma, un album discreto, senza grandi picchi ma pure senza indecenze.

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Retrospect - 2007