Solo un’altra band di Los Angeles? Forse. Il punto è, che a collezionare tutte le release delle band californiane del periodo 1981 – 1993, si può passare tranquillamente la vita, più o meno disinteressandosi di quanto accade nella scena AOR odierna. I Wildside arrivarono tardi, questo loro esordio uscì nel 1992, in piena tempesta grunge, si erano formati l’anno precedente sotto il monicker Young Gunns, ma quasi tutti i membri della band avevano trascorsi non disprezzabili: il drummer Jimmy Darby aveva suonato in quei NRG che poi diventeranno i Graveyard Train, il bassista Marc Simon veniva dai St. Valentine, il titolare della sei corde, Brent Woods, era stato allievo nientemeno che di Randy Rhoads, l’unico absolute beginner era il vocalist Drew Hannah. La Capitol li spedì in studio con un produttore di prima classe come Andy Jones e per supportare ‘Under The Influence’ andarono in tour prima con i Four Horsemen, poi assieme a Babylon A.D. e Roxy Blue (ecco uno show a cui mi sarebbe piaciuto assistere). Il mutato scenario musicale li costrinse a cambiare genere e l’album autointitolato del 1995 era il solito, disperato tentativo di accattivarsi le simpatie del pubblico di Nirvana e Pearl Jam su cui tante band finirono per franare, come accadde puntualmente anche ai Wildside, che si sciolsero poco dopo l’uscita di questo (brutto) disco. Brent Wood entrò nella band di Vince Neil, poi in quella di Jani Lane, gli altri si persero nella nebbia, sappiamo solo che Drew Hannah è diventato un produttore di successo nell’industria dei film porno (!!), uno dei suoi film ha anche vinto il premio per la miglior colonna sonora agli Adult Video Award nel 2002… Nel 2004 è poi uscita per la RLS records ‘The Wasted Years’, raccolta di unreleased tracks completata da qualche demo ed un paio di brani live. Si entra dentro ‘Under The Influence’ al ritmo di “Hang on Lucy”, che dopo un intro d’effetto ci serve un pregevole impasto Ratt/Kix. “So Far Away” segue su un registro più melodico e notturno, vagamente Dokken, “Monkey See Monkey Do” (con Jim Vallance tra i songwriters) si muove a ritmo di boogie, riff secchi, abrasiva e melodica, con un refrain fortissimo, un po’ Aerosmith un po’ Ratt. “Just Another Night” è una power ballad concimata con abbondanti dosi di Slaughter e Steelheart, “Looks Like Love” è una chitarra pulsante, arpeggi limpidi, fascinosa, abbastanza Beggars & Thieves. “Lad in Sin” è un pot-pourri non molto riuscito, comincia acustica, prosegue con un metal californiano piuttosto ispido, poi tornano le chitarre acustiche, arriva un break cupo e solenne di archi e piano, un’improvvisa accelerazione che fa tanto Kiss, l’assolo molto heavy metal, un finale fatto di un riff zeppeliniano e qualche arpeggio di nuovo acustico: l’assemblaggio è curato ma le parti stridono l’una contro l’altra, succedendosi senza fluidità alcuna. Archiviamo questa mezza stranezza e godiamoci i quarantasei secondi di “Drunkin’ Man’s Blues”, blues acustico con effetto vintage, quasi un intro per “How Many Lies”, aperta da una bella chitarra dal flavour bluesy e western, clima che persiste anche quando irrompe un tagliente riff elettrico, una bella alternanza di atmosfera, melodia e parti più dirette, in bilico fra Tora Tora e Tangier. “Hair of the Dog” è un felice connubio tra un refrain decisamente Kix ed una base metal bluesy che richiama i Great White era ‘Once Bitten’. Spettacolare, ritmata e stuzzicante “Heart-N-Soul”, un perfetto anthem da night club, mentre “Kiss This Love Goodbye” è la big ballad di rigore, ruvida nonostante le tastiere, ricalcata abbastanza sfacciatamente sul materiale analogo dei Cinderella epoca 'Long Cold Winter'. Chiude “Clock Strikes”, che porta la firma di Paul Stanley, bella alternanza tra parti d’atmosfera ed altre molto elettriche, secondo la lezione dei Dokken e degli ultimi Ratt. Insomma, ‘Under The Influence’ è un’altra scheggia di quella ineguagliata e probabilmente ineguagliabile stagione musicale fiorita sotto le palme ed il sole californiano. Solo una tessera di quel grande mosaico, ma nient’affatto trascurabile o, peggio, da dimenticare.
Perdere così presto e così male gli Autograph è stato, per l’AOR, un danno enorme, oltre che un’ingiustizia spaventosa se consideriamo quanti ossi da morto sono sempre sulla breccia, più o meno acclamati da un pubblico a cui si può ben applicare, parafrasandola e traslandola nel nostro campo, una massima di Borges: qualsiasi uomo si rassegna a comprare qualsiasi disco. Steve Plunkett, anima e mente della band, mise fin dagli anni ’80 il proprio talento al servizio della concorrenza (ho perso il conto delle volte in cui il suo nome è ricorso nelle mie recensioni tra gli autori delle canzoni), oggi lavora nel campo delle colonne sonore per cinema e TV, ma prima di avviare la sua nuova carriera di songwriter si tolse lo sfizio di un lavoro solista, uscito purtroppo per una piccola etichetta indipendente, cosa che ne complicò la diffusione fin quasi all’irreperibilità (fu stampato anche in Europa, ma da una label austriaca se possibile ancora più fantasmatica di quella yankee) e oggi lo fa passare di mano su eBay a cifre nell’intorno dei cinquanta dollari (su Amazon si trova qualche copia usata a dieci dollari, in compenso quelle ancora sigillate vanno via anche a ottanta). Attorniato da un discreto stuolo di amici e colleghi (Vivian Campbell, Butch Walker, Danny Johnson, Tim Pearce e gli ex compagni degli Autograph Steve Lynch e Steve Isham) che coadiuvano suonando o componendo, Steve non si allontana più di tanto dalla matrice Autograph, sopratutto su “Heavy Pettin’ ” (chi ha mai fatto meglio il metal da spiaggia? Nessuno!), “So Mysterious” (quei refrain ineguagliabili…) e “Flesh and Desire” (notturna, riff secco e imponente e ritornello martellante). La title track è un anthem esemplare, nello stesso tempo melodico e diretto, “Every Little Word” un AOR robusto dalla melodia fascinosa replicato da “Think About It” con un refrain tenero e accattivante. “Louie, Louie” – uno dei super classici del rock’n’roll oltre che la canzone più coverizzata di tutti i tempi – riceve un trattamento al metal californiano e Steve, nel pieno rispetto della tradizione, la canta impastando i versi fino a renderli praticamente inintelligibili. “Dead End Street” è un turbinio di riff, una chitarra che vaga luminosa e graffiante, breaks melodici ed un coro ritmato e insinuante, mentre “Personality”, pimpante e scanzonata, esibisce anche una sezione fiati ed un assolo di slide guitar. Completano il quadro tre ballad: “If I Had My Way”, semplice ed ariosa (incisa poi dagli Every Mother’s Nightmare); “You Make Me Bleed”, piena di ombre zeppeliniane, intensa e struggente (questa coverizzata dai Sik Vikki sul loro grande ‘Kiss Me In French’); “When the Tables Turn”, pomp e romantica. Mi rendo conto che questo continuo magnificare CD reperibili con difficoltà ed a cifre d’affezione (quando sono CD: tanti dischi fantastici non sono mai stati editi sul supporto digitale, come il primo dei Silver Condor, altra band in cui militò Steve Plunkett) rischia di ingenerare nei miei affezionati lettori un senso di sconforto cronico e di astio nei confronti del sottoscritto, che prima li stuzzica con recensioni straripanti di elogi poi li strozza con il solito – quasi inevitabile, penserà qualcuno – “reperibilità: scarsa”. Posto che ricorrere a quella cosa che non si può dire (quella che si fa con quel programma che ha per icona un animale equino dal carattere proverbialmente testardo) per ascoltare dischi fuori catalogo da una ventina d’anni e che pare nessuno ha voglia di ristampare non mi sembra un crimine da sedia elettrica (alla fin fine, di quei cinquanta e passa dollari che verseremo al venditore, neppure un centesimo finirà nelle tasche di Steve Plunkett), altro sistema sarebbe inondare di mail le varie Wounded Bird, Axe Killer, insomma tutte le label dedite al settore ristampe con richieste e elenchi di album che sarebbe opportuno (per noi) e finanziariamente interessante (per loro) ripubblicare.
Lasciamo perdere le facili ironie sulla carriera di corista di Jane Bogaert: è vero che ha fatto backing vocals anche per Al Bano e Romina Power e Toto Cutugno (per tacere di Lionel Richie, Al Jarreau, gli A-Ha e tanti altri) ma noi non siamo metallari assatanati inchiodati sul concetto delirante di “fedeltà”, quello stesso concetto che stroncò la carriera dei R.A.F., una delle prime band metal italiane a raccogliere qualche consenso a livello nazionale alla fine dei Big 80s, consenso subito perduto quando si scoprì che avevano prestato il loro chitarrista al bieco Jovanotti (orrore!). Dimentichiamo anche gli ultimi due dischi dei Dominoe a cui Jane ha prestato la voce e concentriamoci sulla prima release di questa ex Miss Svizzera (ma, pare, di nazionalità belga: se voi ci capite qualcosa…), confezionato con la collaborazione dei suoi colleghi dei Dominoe e arricchito di ospiti di lusso, come Joe Lynn Turner e Jeff Scott Soto (che si producono in bei duetti con Jane). Dopo l’intro roboante e d’atmosfera, la title track e “Keep Us Strong” ci portano decisamente nell’universo Journey, ma su un registro più elettrico. “Still There For Me” è una eccellente power ballad dalle sfumature bluesy cantata in un appassionato duetto con Jeff Scott Soto, “Matters” è strepitosa: procede su un bel riff croccante incrociato dai lampi dell’organo Hammond: incalzante e misteriosa ma con un refrain essenziale e solare. Altro duetto per “Give It Up”, stavolta con Joe Lynn Turner, un caldissimo hard bluesy ritmato a tempo di boogie, condito con un refrain incandescente ed un bell’assolo. “Was It The moonlight” è una ballad che fa tanto Heart anni ’80, “I’m a rockstar” si rivela un divertente cool boogie molto ZZ Top, “Superman Cape” è ancora un hard blues con uno strepitoso refrain. Si cambia registro con “Crazy”, ballad umbratile e malinconica tutta acustiche e keys, poi “The Lady Needs An Upgrade”, dopo un intro di chitarra blues, spara un riffone rotolante e zeppeliniano, in cui si incunea il ritornello un po’ Foreigner, l’assolo se lo dividono l’Hammond e la chitarra, finale accelerato di chitarra slide e tastiere pulsanti. “Locked And Tatooed” e “Spaceship” sono entrambe debitrici agli FM, la prima una power ballad con refrain soul, il secondo un bel hard rhythm and blues. “Open Your Heart” chiude il disco con una ballad sognante e molto Heart. La voce di Jane Bogaert – tagliente e vellutata nella stessa misura – per me è stata una autentica rivelazione, ma ‘Fifth Dimension’ merita attenzione non soltanto per le qualità vocali della sua autrice ma anche per un songwriting brillante ed efficace. Non è facilissimo trovarlo a meno di acquistare gli .mp3 direttamente sul sito di Jane o il CD su quello della Yesterrock, ma vale davvero la pena di darsi un po’ da fare per metterci le mani sopra.
Il comeback degli Y & T arriva decisamente a sorpresa. Sono passati tredici anni da ‘Endangered species’ e anche se la carriera solista di Dave Meniketti ci aveva dato scampoli di quel sound in un contesto molto più blues (ne riparleremo), pareva che non ci fossero più grandi speranze di rivedere quello storico e non particolarmente fortunato moniker appiccicato su un nuovo lavoro. Invece, ritrovato Phil Kennemore e con i nuovi John Nymann (chitarra) e Mike Vanderhule (batteria), Dave Meniketti ha inalberato nuovamente il vessillo degli Yesterday And Today, per un album eccellente che rappresenta una delle cose migliori uscite nell’anno ormai quasi andato (e che il vostro webmaster recensisce, come al solito, indecentemente in ritardo). L’inizio, certo, non è dei migliori, prima con il pacchiano “Prelude”, poi con la banalità metallara di “On With The Show”, ma già con “How Long” si prende quota tramite un drammatico class metal impostato su belle linee melodiche. “Shine On” ci porta negli anni ’70 con il plus di un refrain molto californiano, “I Want Your Money” esibisce un bel riffing cadenzato ed un paio di notevoli assoli, “Wild Child” risulta una delle cose migliori del disco, di nuovo atmosfera seventies, fascinosa, un grande refrain che si incastra tra parti lente e furibonde esplosioni di elettricità. L’heavy metal galoppante ma con un bel refrain rock e melodico di “I’m Coming Home” precede l’intenso crescendo della power ballad “If You Want Me”, mentre “Hot Shot” è un party metal anthemico (e un po’ Great White), “Blind Patriot” un eccellente esercizio di metal californiano, veloce e beffardo, “Gonna Go Blind” è cadenzata, ipnotica, sinuosa, assolutamente comica se capite dove vogliono andare a parare tutti i doppi sensi del testo. “Don’t Bring Me Down” è preceduta da un bell’intro blues di chitarra acustica, ha un riff secco ed un notevole refrain e chiude “One Life”, hard rock che mi suona un po’ opaco salvo nel bridge e nell’assolo. La mia copia di ‘Facemelter’ include solo queste canzoni, l’ho comprata negli USA dove l’album è distribuito dalla Burnside, l’edizione europea per la Frontiers contiene invece un’altra track, “Losing My Mind”. In definitiva, un altro gradito ritorno all’insegna del classico per una band che avrebbe meritato molto più di quanto ha sempre ottenuto.
Non so proprio da dove cominciare. Sarà la terza o la quarta volta che inizio questo pezzo. Scrivo qualche rigo, rileggo e cancello, lascio passare qualche settimana sperando che tutto diventi chiaro nella mia testa, siedo di nuovo davanti al computer e la scena si ripete: qualche rigo, rilettura, smorfia e/o sospiro e poi decisa pressione sul tasto oblungo con la freccia diretta verso sinistra finché la pagina non ridiventa bianca sotto il titolo in maiuscole, UNRULY CHILD. Forse dovrei partire dal principio, dal 1992. Avevo letto la recensione e non mi aveva detto niente – chissà perché – ed era passato quasi un anno e avevo di nuovo quel numero di Metal Shock tra le mani e rilessi la recensione, stavolta con più attenzione. E ricordai all’improvviso che quel CD lo avevo visto più di una volta negli scaffali del solito negozio di dischi. Corsi a prenderlo, letteralmente, con una paura maledetta addosso che non si trovasse più lì, qualcuno infine se lo fosse portato a casa e allora sarebbe stata finita perché erano gli anni cupi in cui il nostro genere andava disintegrandosi, l’AOR finiva di botto, esplodeva e si disfaceva come una supernova in un fulgore accecante, le bands svanivano, i dischi pure, quell’unica copia arrivata lì Dio sa come, e non ce ne sarebbe stata un’altra. Be’, era sempre lì, ma ci rimase pochissimo. Adesso era mia. Erano il suono del crepuscolo, gli Unruly Child. Il crepuscolo della Los Angeles dei Big 80s, allo stesso modo dei Bad English di ‘Backlash’, o degli Heavy Bones, o degli House Of Lords di ‘Demon Down’: ciascuna band, nel proprio modo peculiare, ne incarnava un aspetto. Gli Unruly Child avevano scelto quello del fascino arcano che riusciva – paradossalmente e senza una sbavatura – a coniugarsi con una fisicità dirompente, la poesia e la sensualità andavano a braccetto senza pestarsi i piedi a vicenda, verve e malinconia convivevano magicamente in una stessa canzone, loro riuscivano a far andare d’accordo persino due band antitetiche come gli Yes ed i Led Zeppelin, omaggiandoli ripetutamente nel corso di un disco PERFETTO. Dopo vennero ‘Tormented’ (praticamente una raccolta di demo, accreditato alla sola Marcie Free, ma in realtà inciso dalla band quasi al completo) e ‘Waiting for the sun’ e poi ‘III’. ‘Tormented’ aveva una resa fonica bassissima mentre gli altri due vedevano all’opera altri cantanti ed una band ridotta ai soli Bruce Gowdy e Guy Ellison, ma erano comunque dischi eccellenti, sopratutto ‘Waiting…’. E adesso è arrivato ‘Worlds collide’, tutti e cinque di nuovo assieme, anche se Mark è diventato Marcie ma chi se ne frega. Intendo: ha importanza? Forse, almeno un po’: nella prima canzone non riesci a decidere se il testo è recitato da un personaggio femminile o maschile, anche se la voce è sempre quella che conosciamo, appena un po’ arrochita, l’ambiguità si ripresenta qui e là nel disco, chi ci sta parlando è un lui o una lei? Spiazza, ma non in maniera sgradevole. Dopotutto, sono sempre opposti che vanno a fondersi anziché cozzare. Funziona, ed è questo quel che conta. Ma è tutto ‘Worlds Collide’ che funziona. Non chiedetemi se sta uno o più gradini sopra o sotto ‘Unruly Child’ (o ‘Waiting For The Sun’ o ‘Tormented’). È uguale eppure diverso. Bruce Gowdy, nelle interviste, ha ammesso senza reticenze che la Frontiers gli aveva chiesto un lavoro che avesse lo stesso sound del loro primo album, eppure ‘Worlds Collide’ è tutt’altro che uno sterile esercizio di stile. Non dice niente di nuovo, eppure riesce a fare quelle stesse cose di vent’anni fa in maniera diversa. C’è forse una punta di energia in meno, ed il gusto pop delle melodie è meno accentuato, forse perché dietro il banco del mixer non c’è più Beau Hill a dirigerli, ma si tratta di dettagli, sfumature. “Show Me The Money” ha la stessa fluidità ritmica di “On The Rise”, ma non ne è certo una versione riveduta e corretta, semplicemente viaggia su quegli stessi sentieri, coniugando come quella canzone aggressività ed eleganza. “Insane” e “When We Were Young” galleggiano su una irruenza zeppeliniana traslata in un contesto hi-tech, smaltate di chiaroscuri, la seconda con un incantevole coro polifonico. “Tell Another Lie” è la prima power ballad, dove il solito, magistrale impasto elettrico/acustico si fa più fine, la grana più delicata. “Love Is Blind” si muove su uno shuffle ritmico classicissimo (è quello della celebre "Peter Gunn" di Henry Mancini), incalzante e misterioso, con il refrain che irrompe nel tessuto della canzone come un raggio di luce, la title track si rivela per una fusione magica di fisicità e raffinatezza, intrecciando con una misura strepitosa temi arcani e metal da spiaggia. “Talk To Me” ha la solarità di certe ballad di ‘Tormented’, su cui spiccano i delicati ricami prog, “Life Death” si regge su un impalcatura ritmica geometrica e spettacolare, ha sfumature esoticamente zeppeliniane ed un break di tastiere arabeggianti. Un’altra eccezionale power ballad, “Read My Mind”, aperta e chiusa da limpide note di pianoforte, precede “Neverland”, ancora una commistione elettroacustica che ha del miracoloso, elementi folk e blues perfettamente innestati sul tessuto AOR tra la punteggiatura ed i tappeti di keys. L’intensità di “Very First Time” prelude a “You Don’t Understand”, sigillo finale che dopo un intro di tastiere alla Vangelis (quello della soundtrack di “Blade Runner”) mette in campo una semplice melodia acustica ed un po’ folk tramata di sferzate elettriche, un coro quasi soul, un finale che sale ad altezze siderali quando rientrano le tastiere. Potrei concludere questo scritto con qualche commento corrosivo riguardo la differenza abissale che separa ‘‘Worlds Collide’ dalla quasi totalità del materiale uscito nell’anno appena concluso, in particolare quello proveniente da Germania e Svezia, ma non mi pare necessario né opportuno. Chi ha orecchie per sentire, dopo l’ascolto di questo disco non potrà non rendersi conto dell’incolmabile distanza che separa la musica di questa band dalla tanta immondizia teutonico/scandinava che le labels cercano di far passare per oro puro. È ciò che accade quando si rifanno vivi quelli veramente grandi: tutti gli altri si rivelano per gli gnomi che sono e mai altro saranno.
P.S. Questa recensione è dedicata a Ezio per la sua consueta gentilezza e disponibilità.
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