recension

 

AORARCHIVIA

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BEG BORROW & STEAL

 

 

  • PUSH AND SHOVE (2017)

Etichetta:Steelheart Memories Reperibilità:scarsa

 

La Steelheart Memories è una label italiana specializzata in ristampe/rarità, che pubblica in tirature estremamente limitate (500 copie), così che le rarità finiscono per rimanere tali anche dopo la ristampa e gli album prima unreleased lo diventano immediatamente dopo la pubblicazione. Come tutte le label dedite all’attività di riesumazione musicale, anche loro annunciano ogni uscita in termini roboanti e questa lunga serie di riedizioni è stata battezzata – tanto per andare sul sicuro – “Lost Jewels” (con un “US” o “UK” fra le due parole a seconda della localizzazione geografica della band). Ovviamente, il grosso è formato più che altro da lost patacche (seguite il link se volete leggere una spiegazione esaustiva dell’etichetta), oppure da album che pur non del tutto malvagi potevano essere lasciati nel dimenticatoio senza rimpianti (come i Roulette, di cui abbiamo già parlato). Ma, ogni tanto, salta fuori qualcosa di pregevole, come questi Beg Borrow & Steal, di cui riassumiamo la storia.

Fondati nei tardi anni ’80 dall’ex batterista dei Preview, Ed Bettinelli, agguantarono un contratto addirittura con la BMG, che gli fece registrare un lotto di canzoni sotto la guida nientemeno che di Arthur Payson. Nel 1992, la BMG distribuì un promo in formato cassetta (destinato, come d’uso all’epoca, solo a giornalisti e promoter) con quattro canzoni ma il mutato scenario musicale bloccò l’uscita dell’album, rimasto a prendere polvere su uno scaffale fino a quando la Steelheart Memories non lo ha recuperato nel 2017, intitolandolo ‘Push and Shove’. Un buon disco, come già detto, anche se ho qualche riserva sul mixaggio della voce. La cantante, Lauralei Combs, si ritrovava difatti con un bel timbro ed era dotata anche di una più che buona espressività ma dava l’impressione di non essere stata benedetta da madre natura con un paio di polmoni d’acciaio e sarebbe forse stato opportuno piazzare le sue vocals un po’ più avanti nel mix. Niente da dire sulla qualità audio e – ovviamente – sulla produzione. L’inizio non stupiva, dato che “Deep Down & Dirty” era un metal californiano ancheggiante e per nulla originale, meglio andava “No Reason Why”, hard melodico con una bella impronta Whitesnake. “Step Back” variava il riffing: geometrico in apertura, d’atmosfera nelle strofe e martellante sotto il refrain, anthemico come quello della successiva “Hide”, heavy e diretta e un po’ Joan Jett. Il clima arena rock veniva mantenuto pure su “Shake”, dipanantesi fra chitarre zeppeliniane ma con il coro ricalcato sfacciatamente su quello di “Nothing to Loose” di Gary Moore. Apprezzabili i chiaroscuri della power ballad “Gave You My Heart”, “Simple Heart” era un hard melodico che intrecciava sullo stesso telaio Heart e Bryan Adams, mentre su “Angels” abbondavano le tastiere e l’organo Hammond, dando alla canzone un bello smalto soul e classic rock. Si ritornava all’arena rock con “Nickie”, potente e trascinante e a chiudere c’era “Hearts on Fire”, ibrido Van Halen / Quiet Riot dal riffing ancora una volta molto scontato.

Un recupero, quello dei Beg Borrow & Steal, senza dubbio tutt’altro che superfluo, anche se la forma in cui si è concretizzato, come già ho sottolineato, non ha ottenuto altro che creare seduta stante una nuova rarità discografica, già prezzata a livelli d’affezione quando fa la sua molto saltuaria comparsa tra eBay e Amazon.

 

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38 SPECIAL

 

 

  • SPECIAL FORCES (1982)

  • STRENGHT IN NUMBERS (1986)

  • BONE AGAINST STEEL (1991)

Etichetta:A&M; Charisma Reperibilità:buona

 

Non furono i primi, i 38 Special, ma – classifiche alla mano – furono quelli che riscossero il maggior successo. Non primi a far cosa? A voltare (parzialmente) le spalle al southern rock, orientando il loro sound verso l’hard melodico e l’AOR. Ci provarono (senza convinzione) gli Outlaws, e poi i Molly Hatchet, i Blackfoot (di cui abbiamo già parlato), perfino gli Allman tentarono di proporsi in una versione più pop nel pessimo ‘Brother of the Road’, ma fecero tutti più o meno fiasco a livello commerciale. I 38 Special, invece, collezionarono tra il 1981 e il 1986 tre dischi di platino e uno d’oro negli USA con quattro album che alternavano e mescolavano il southern al rock melodico. Album che però, nonostante le vendite di tutto rispetto, pare non siano mai entrati nel cuore degli aficionados dell’AOR, al punto che i 38 Special raramente vengono fuori quando si stanno a compilare liste di capolavori/classici del nostro genere: più spesso accade che la band venga usata come esempio negativo di ensemble “traditore” di un genere mai però praticato con il trasporto di Skynyrd o Outlaws, tirando regolarmente in ballo quel ‘Bone Against Steel’ che nel 1991 fu un flop sulle chart per motivi che certo nulla avevano a che fare con la qualità della proposta (la data di uscita dice tutto).

Selezionare un solo album che riassuma in maniera completa il sound di questa band è impresa ardua. Il sound suddetto è cambiato con il passare del tempo e ci sono differenze non irrilevanti fra ‘Wild-Eyed Southern Boys’, uscito nel 1981, e ‘Bone Against Steel’ di dieci anni dopo.

Del loro periodo d’oro sulle chart, fra l’81 e l’83, forse l’album migliore è ‘Special Forces’ (1982) (numero 10 di picco su Billboard e disco di platino). Prodotto da Rodney Mills, con il fondamentale contributo al songwriting di Jim Peterick, alterna southern e melodic rock senza mai mescolarli. “Caught Up in You” e “You Keep Runnin’ Away” (con qualche eco Cars), sono rock da FM tipicamente primi Ottanta, mentre “Chain Lightnin’” esplora il più drammatico sound dei Survivor salendo nello stesso tempo maestosa e misteriosa nelle strofe e incendiandosi nel refrain. Se “Back Door Stranger” sono gli AC/DC cucinati (molto bene) in salsa southern, “Back on the Track” e “Rough-Housin’” fondono altrettanto bene ZZ Top e Skynyrd (la seconda a tempo di boogie). Interessanti “Breakin’ Loose”, “Take ‘Em Out” e la superba “Firestarter”, che sono esattamente quel genere di southern ben prodotto che i Lynyrd Skynyrd cominceranno a fare dopo la reunion nel 1991 e i 38 Special avevano già messo a punto dieci anni prima (ma, non disponendo di un tastierista ispirato e abile come Billy Powell, dovevano accontentarsi di arrangiamenti più snelli e meno sofisticati). Don Barnes e Donnie Van Zant si alternavano al microfono con assoluta coerenza: le canzoni southern a Donnie, quelle melodic rock a Don.

Altro platino fu ‘Tour De Force’ nel 1983, meno forte andò nel 1986 ‘Strength in Numbers’, che vendette “solo” mezzo milione di copie negli USA. Prodotto da Keith Olsen (che gli déi dell’AOR hanno sicuramente accolto senza formalità nell’empireo quando è volato a loro, il 9 marzo scorso: aveva 74 anni), ha Jim Vallance al posto di Jim Peterick come principale coadiutore nel songwriting e vede la componente southern ridotta ai minimi termini: la sola “One in a Million”, una morbida ballad elettrica rifinita dai fiati, ci porta in quei territori, sfiorati poi appena nell’hard melodico cadenzato e anthemico intitolato “Just a Little Love” e nell’atmospheric power di “Never Give an Inch”, entrambe eccellenti. Nel resto dell’album troviamo (senza sorpresa, considerata l’identità del coadiutore di cui sopra) in prevalenza esercitazioni sul sound più melodico di Bryan Adams (“Somebody Like You” e “Like No Other Night”, piuttosto scontate; “Against the Night”), un bell’arena rock sospeso tra gli ‘80 ed i ‘70 (“Last Time”), l’FM rock “Once in a Lifetime” (in bilico tra John Waite ed i Survivor), una power ballad dalla melodia incantevole (“Has There Ever Been a Good Goodbye”), la notevolissima “Heart’s on Fire”, spavalda e d’atmosfera, che tira in ballo di nuovo i Survivor.

Nel 1988, ‘Rock & Roll Strategy’ scontò la partenza di Don Barnes, fermandosi al numero 61 della Billboard 200, ancora peggio andò a ‘Bone Against Steel’ tre anni dopo, che totalizzò un misero numero 170 sulla chart, ma nell’Anno Uno della dittatura grunge non era realistico aspettarsi molto di meglio. Prodotto ancora da Rodney Mills, con Jim Peterick di nuovo tra i songwriters (e con lui Robert White Johnson e Van Stephenson), ‘Bone…’ sembra voler giungere, almeno in qualche episodio, a quella quadratura del cerchio tra southern e AOR che prima la band non aveva voluto o saputo realizzare. “You Definitely Got Me” è difatti un boogie robotico e hi tech alla ZZ Top, nello stesso tempo ruvido e cromato, che miscela alla perfezione i generi, e consistenti dosi di melodia AOR impregnano anche “Rebel to Rebel” (soprattutto nel refrain). Se “Tear It Up” e “Don’t Wanna Get It Dirty” sono southern anthemici, da saloon, attualizzati tramite il synth bass (ma che non rinunciano all’apporto dei fiati e del pianoforte), “Last Thing I Ever Do” e la title track puntano più sulla produzione brillante (pigro e divertito il primo, d’atmosfera il secondo). Classicissime, invece, risultano “Jimmy Gillum” (lenta, tagliente e boogie) e la scatenata “Can’t Shake It”. L’hard melodico regna sovrano su “The Sound of Your Voice” e “Treasure” (la prima a tempo boogie, la seconda una big ballad, entrambe molto Survivor), in “Signs of Love” e “Burning Bridges” (che fanno molto John Waite) e “You Be the Dam, I’ll Be the Water” (un po’ Danger Danger, ma in chiave più heavy, con il refrain che parla la lingua di John Parr). Niente da dire sulle vocals del nuovo membro Max Carl (anche alle tastiere), che canta otto canzoni su tredici (tutte quelle più AOR).

Dopo lo scioglimento e la inevitabile reunion, la band ha prodotto ancora due album di studio (tre, considerando anche il disco natalizio del 2001), da cui quasi ogni traccia di melodic rock è sparita a favore di un southern policromo e sempre di ottimo livello.

 

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DONNIE MILLER

 

 

  • ONE OF THE BOYS (1989)

Etichetta:Imagine/CBS Reperibilità:in commercio

 

Non si può catalogare ‘One of the Boys’ tra le tipiche lost gem, eppure il popolo dell’AOR non sembra aver mai prestato soverchia attenzione a questo disco. Che godette di una diffusione tutt’altro che limitata (Discogs ha in elenco ben nove edizioni pubblicate su due etichette fra USA, Canada e Europa), ma non riuscì a far breccia, né su Billboard né nel cuore degli aficionados del rock melodico. Cosa mancò? Forse la promozione? O la pura e semplice fortuna? Dio lo sa. Ci resta la musica, che dovrebbe essere considerata con molta più attenzione da chi ama l’hard melodico di fine anni ’80.

Prodotto (impeccabilmente) da Lance Quinn, infarcito di ospiti e songwriter prestigiosi (Tommy Shaw su tutti), apre le danze al ritmo avvolgente della scatenata title track, in cui Donnie suona come un Bryan Adams hi tech con il contorno di un refrain dal vago flavour Autograph. “Normal Guy (I Want Sex)” fonde alla perfezione ZZ Top, Loverboy e Van Stephenson, mentre “I Can’t Stop Flying” si rivela un hard melodico abbastanza ruvido su base Journey. Anche la bella ballad “Me And You” impasta liberamente i grandi dell’AOR, facendo risuonare echi di Survivor, Foreigner e John Waite, ma con “The Devil Wears Lingerie” siamo al top assoluto: elettrica, sexy, notturna, d’atmosfera, insinuante, ipnotica… un mix assolutamente irresistibile di John Parr e Tommy Shaw (epoca ‘Ambition’). “The Man Said No” è un hard’n’roll secco e nevrotico ma sempre piacevolmente melodico e intessuto di vocals sofisticate e beffarde, “Blind Man’s Bluff” ci porta nei territori del big sound alla Giant, ma ritmato quasi con leggerezza, e in quelle stesse lande è ambientata la power ballad “No Time For Running”, mentre “You Can’t Stop Emotion” è una classica trascrizione nel linguaggio rock dei Big 80s del sound dei Led Zeppelin, cromata e potente. Gran finale affidato alla drammatica “Welcome Home”, che compendia e intreccia Tommy Shaw, Survivor e 38 Special.

Album mai ristampato, ‘One of the Boys’, ma che è in vendita (e il prezzo potete farlo voi!) in digitale su bandcamp a questo indirizzo: donniemiller.bandcamp.com/album/one-of-the-boys per iniziativa del suo autore (che ci offre – sia benedetto – anche i testi delle canzoni). Il prosieguo della carriera di Donnie Miller è all’insegna del blues, ma questo suo esordio resta un episodio assolutamente rimarchevole di rock melodico.

 

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TONY MITCHELL

 

 

  • CHURCH OF A RESTLESS SOUL (2020)

Etichetta:AOR Heaven Reperibilità:in commercio

 

Speravo di farcela a illustrare questo nuovo album di Tony Mitchell con una recensione breve, ma i cambiamenti di rotta rispetto a ‘Beggars Gold’ impongono qualche rigo in più per essere ben rappresentati. Chi non ricorda, è invitato a rileggersi la recensione di ‘Beggars…’, evitandomi di ripetere qui quanto già ho scritto su quell’eccellente album due anni fa.

Cambiamenti di rotta, dunque… Se l’album del 2018 (e anche in gran parte quello che lo aveva preceduto nel 2017: intestato, è vero, al moniker Dirty White Boyz – lo recensii sul numero 50 di Classix – ma sempre un’espressione esclusiva di Mr. Mitchell) era all’insegna del sincretismo fra i generi, questo li separa abbastanza nettamente fra le tredici canzoni che lo compongono. Due sono le eccezioni: la notevole title track, molto anni ’70 alla maniera dei Kiss of Gipsy, dotata di un feeling anthemico che impasta arditamente sullo stesso telaio il soul, lo spiritual e il rock da stadio dei Queen; e l’altrettanto ottima “Evil Woman”, moderna nel riffing ma assolutamente anni ’80 nelle linee melodiche vocali glam, ritmata, sinuosa e molto heavy. In quasi tutto il resto, Tony Mitchell preferisce mantenere i vari generi separati, mescolando comunque con disinvoltura epoche e stili. “Living On The Run” è un hard melodico ben fatto che mette assieme Journey e Little Angels, “In & Out Of Love” è puro, fragoroso arena rock da Big 80s, e quelle stesse atmosfere esplora “Electric”, anthem su riffone AC/DC, imponente, massiccio, da buttare giù uno stadio (quando i concerti rock si facevano negli stadi, of course). “The Mighty Fall” (cantata in duetto con Danny Vaughan) guarda al Bon Jovi più springsteeniano, “Never Wanted Love” fonde Whitesnake e Winger con un certo flavour moderno ma ha un refrain un po’ scarico, “Heaven Is Falling” torna all’arena rock alla maniera degli House of Lords (ma con un giro di tastiere in apertura prelevato pari pari dalla “Last in Line” di Ronnie James Dio), metallica e solenne ma con un refrain ultramelodico. Due le power ballad: “I Believe In Angels”, corale, vagamente Bon Jovi, forse troppo lunga, e “Sacrifice”, classicamente anni ’80. Ma non è finita qui. “Killing Me To Love You” è un heavy metal classico, epicheggiante, con sottofondo di keys sinfoniche a cui viene però appiccicato un refrain moderno alla Alter Bridge, e su quella stessa rotta procede “One Good Reason”. “Shattered Dreams” è invece del tutto moderna, tetra e mortifera come l’HM contemporaneo comanda. La qualità audio non è ottimale, come già su ‘Beggars Gold’ il suono risulta a tratti opaco e un po’ impastato, ma non al punto da rendere sgradevole l’ascolto.

In definitiva: il songwriting è eccellente in più di un episodio, ma pare che a Tony Mitchell la voglia di fondere passato e presente del rock sia un po’ venuta meno.

 

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RAGE N' ROX

 

 

  • RAGE N' ROX (2010)

Etichetta:Retrospect Reperibilità:in commercio

 

Una lost gem di grande caratura questo unico parto dei Rage N’ Rox, rimasto in un cassetto per ventun anni finché la Retrospect non lo pubblicò nel 2010. La band faceva perno sull’ugola da contralto di Tamara Deems: voce vagamente di gola, calda, decisa, un po’ strascicata e molto sexy. Suo marito Gordy Deems componeva e suonava le parti di chitarra. Esordirono con un EP omonimo a cinque tracce nel 1989 per Nu Vision Records (modesta etichetta con poche produzioni all’attivo, la più importante fu l’esordio dei Dan Reed Network nel 1986, sempre su EP), poi sparirono nella nebbia che incombe sul nord ovest degli USA (venivano da Portland, nell’Oregon). Una scomparsa di cui non possiamo che rammaricarci considerati i contenuti di questo disco che (suppongo) raccoglie tutto quanto i coniugi Deems e i loro soci (John Field alle tastiere, Eric Kruegar al basso e Greg Oberst dietro la batteria) hanno mai registrato.

Drive It In” apre le danze con un AOR hard edged dalla bella vena anthemica ed un assolo di puro shredding, mentre “Standing in the Rain” ha un ritmo serrato che ci porta in un refrain molto Witness. “No More Lies” si sviluppa lungo le linee di una ballad AOR molto elettrica, con una sostanziale iniezione di energia nel refrain decisamente Scorpions, “Never Wanted” guarda invece in direzione Heart, quelli dell’album omonimo: grande melodia, chitarra bella tosta a keys in gran spolvero, “Surrender” scorre su un riff essenziale su cui poggiano un bel tappeto di tastiere ed un ritonello arioso. Ritroviamo Bryan Adams e John Waite fra le note di “How Can You Do It” (ma il refrain è un po’ fesso, si poteva trovare di meglio), la ballad “Break A Heart” parte d’atmosfera e si fa più elettrica e power con un riuscito crescendo, “Meet Me in the Morning” ancheggia che è un piacere alla maniera degli Autograph. Il top nei due brani conclusivi: gli splendidi chiaroscuri di “Walking With An Angel”, con la sua chitarra pulsante e le keys suggestive; il big sound di “Long Walk” intensa e ariosa, con qualche eco della “Run” di Darby Mills.

Rage N’ Rox’ risulta ancora in catalogo, ma suppongo che il numero di copie rimaste nel magazzino della Retrospect non sia esorbitante: prima che diventi una di quelle rarità vendute su eBay a prezzo d’affezione, fateci un pensierino.

 

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RED DAWN

 

 

  • NEVER SAY SURRENDER (1993)

Etichetta:Inside Out Reperibilità:scarsa

 

Presumo che questo scritto mi frutterà qualche nemico o, quanto meno, un sospetto di incompetenza. La stessa supposizione mi accompagnava mentre lavoravo al pezzo su Orion The Hunter: perché entrambi gli album sono considerati dei classici, e anche stavolta mi accingo a  trattare un classico in maniera poco – diciamo così – rispettosa. Ma mentre ‘Orion The Hunter’ è un “vecchio” classico, venuto fuori durante gli anni d’oro del nostro genere, ‘Never Say Surrender’ è stato pubblicato nel 1993 (in Giappone e USA, mentre l’edizione europea arrivò un anno dopo), quando il rock melodico era già in disarmo e non più qualcosa in cui era implicato il cosiddetto “grande pubblico”: lo status di classico, l’unico album dei Red Dawn lo ha avuto non grazie alle vendite e al giudizio della critica, ma è stato eletto tale solo dai fan del genere (mentre ‘Orion The Hunter’, considerate le vendite anemiche e la scarsissima attenzione di cui è stato fatto oggetto dal popolo dell’AOR al momento dell’uscita, è diventato un classico esclusivamente grazie alla periodica opera di disseppellimento operata da questo o quel compilatore di classifiche e best of del rock melodico). Casi, dunque, molto diversi l’uno dall’altro.

Rivolgendo l’attenzione a ‘Never Say Surrender’, dichiaro subito il mio pensiero su questo album; è un buon disco, ma non un “classico”. Anch’io mi ci fiondai sopra, in quel 1994 in cui ogni aficionado di AOR soffriva di tremende crisi d’astinenza, ma non trovai qui dentro quella materia di cui sono fatti i capolavori. In quello stesso anno mi piacque molto di più il debutto dei Sing Sing. Che però non si è conquistato lo status al limite del mitico che ‘Never Say Surrender’ possiede fra chi segue il rock melodico (controllate su Heavyharmonies).

La band ruotava attorno all’ex key player di Good Rats e (soprattutto) Rainbow David Rosenthal, che produceva, arrangiava e componeva (con qualche imput da Mitch Malloy) la quasi totalità del materiale. Gli altri nomi eccellenti erano Greg Smith (bassista per innumerevoli eccellenze dell’hard rock americano, Alice Cooper e Ted Nugent su tutti) e Chuck Burgi (dietro i tamburi per Rainbow, Meat Loaf, Michael Bolton e tanti altri). Il singer Larry Baud veniva dai Network mentre il chitarrista Tristan Avakian era praticamente un esordiente.

Flyin’ High” apre le danze con un hard melodico che incrocia strofe potenti ad un refrain molto Journey, il tutto infarcito da un gran spiegamento di tastiere (intro e outro, più un bel solo di Moog) che non sposta esattamente l’asse del suono in direzione pomp ma va piuttosto a sovrapporsi alle chitarre sempre spettacolari di Avakian. “I’ll Be There” parte con dei bei chiaroscuri, diventando via via più solare impastando Drive, She Said e Fortune, e alla band di Mark Mangold pure fa riferimento “Liar”, aggiungendo al mix qualcosa degli Alias. “Dangerous Child” è arena rock nello stile degli House of Lords di ‘Sahara’ e ‘Demons Down’ mentre “Promises” mette di nuovo assieme Fortune e Drive, She Said, alternando strofe pacate ed un refrain vigoroso. “I Can’t Get Over You” suona come se Huey Lewis si fosse messo a fare l’hard rock, con qualche deciso innesto Journey nelle melodie vocali, molto meglio riesce “Christine” che parte come i Van Halen più pop diventando un rock da spiaggia alla Autograph. “Take These Chains” è una tipica power ballad nello stile del rock melodico fine ’80, “She’s On Fire” torna agli House of Lords dopo un intro d’atmosfera, col suo andamento solenne bilanciato dal refrain allupato. In chiusura, la title track, nettamente Surgin’ ma con un refrain che arieggia Bryan Adams.

Niente da dire sulla produzione o la resa fonica, questo è un album inciso senza fare economia, passando attraverso la bellezza di sette studi di registrazione (roba da fantascienza, al giorno d’oggi…). Il problema sta nella mancanza di spunti personali e in un uso insidioso (ma molto intelligente) del copia & incolla: tutto sembra calcolato per dare all’ascoltatore una sensazione di già sentito che non lo indisponga ma, al contrario, lo metta a proprio agio e scateni un senso di complicità con chi suona. Gli intro a volte risultano traditori, ma in modo scherzoso o malizioso, come nel caso di “Christine”: parte la canzone e tu pensi subito ai Van Halen di “Jump” ma dopo qualche battuta, anziché nel bar della spiaggia, ti ritrovi proprio sulla spiaggia, assieme agli Autograph… E la sorpresa riesce bene solo se già conosci benissimo gli universi delle band tirate in ballo, cosa che Rosenthal doveva dare (giustamente) per scontata: si era nel 1993, e chi avrebbe comprato questo disco, se non dei fan assatanati del rock melodico? Insomma, potremmo quasi dire che ‘Never Say Surrender’ è il primo esemplare di quella mala genia che conosciamo così bene e implacabile ci perseguita al giorno d’oggi: gli album che vorrebbero omaggiare quella grande e irripetibile stagione del rock melodico che sono stati gli anni ’80 campionandone semplicemente la musica, puntando in primis sulla nostalgia. Qui le cose sono state fatte su ben altro livello rispetto a quanto siamo costretti a sentire attualmente, ma è forse soprattutto per questo che ‘Never Say Surrender’ si è conquistato tante simpatie? Non mi spiego il fatto che su Heavyharmonies, sito attorno a cui – bene o male – si raccolgono tutti coloro che amano questa musica, i Red Dawn abbiano un rating di 90 su 100, addirittura pari a quello dei Journey di ‘Escape’ (!!!), mentre (tanto per fare un paio di esempi) l’esordio dei Bad English e quello dei Giant (caposaldi del rock melodico nella sua tarda stagione) hanno “solo” 89. Forse questo status ai confini del leggendario nasce anche dal particolare momento storico che ha visto l’uscita dell’unica fatica dei Red Dawn, che dovette parere a chi lo comprò uno degli ultimi baluardi dell’AOR fra le maree montanti di grunge, alternative e nuovo punk, eppure in quello stesso 1993 vennero pubblicati altri notevolissimi album di rock melodico – ‘Nothing But Troubles’ dei Blue Murder, ‘One’ di Carl Dixon, il primo Shotgun Simphony… – che oggi nessuno esalta o pone sullo stesso livello di ‘Never Say Surrender’, album certo non da buttare nel water ma – a mio sempre fallibile ed opinabile parere – sopravvalutato per ragioni che almeno al sottoscritto restano difficili da indovinare.

 

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THE LOST

 

 

  • THE LOST (1991)

Etichetta:Epic Reperibilità:scarsa

 

Questa band canadese non ha mai goduto di buona stampa fra chi ama l’hard rock dei Big 80s. Cosa precisamente si imputasse ai The Lost non mi è chiaro, ma la prova dell’ascolto ci consegna una band dedita ad uno street metal nient’affatto malvagio. Prodotto da Richard Robinson (il produttore “storico” di Lou Reed), ‘The Lost’ – bisogna riconoscerlo – non si apre benissimo, dato che “Mindblower” è un boogie serrato che ci propone la band come dei ZZ Top più abrasivi: qualche pennellata di armonica non evita che la canzone suoni piuttosto insignificante. Anche “Bijou Dreams” non dice molto, così heavy e troppo diretta. Si risale la china con la cover della “For What It’s Worth” di Stephen Stills, trasformata in uno street metal essenziale sulla scia di Vain e Sea Hags, lenta ed elettrica. Accattivante si rivela “Dance With Me”, un bel funk pigro e molto anni ’70, mentre “Laughing Boy” gira attorno ad un pugno di riff essenziali ed un refrain scanzonato. Joan Jett figura come ospite alla chitarra ritmica sull’ hard’n’roll in stile Junkyard “Touch My Bones”, “Cat Got Your Tongue” guarda agli AC/DC con i suoi riffoni secchi ed il clima anthemico. “Pretty Girl”, pigra e bluesy, vaga fra Black Crowes e Georgia Satellites ed ha un bel solo di chitarra slide ma il meglio arriva con “All Fall Down”, un brano d’atmosfera con la chitarra calda e sfrigolante che plana su un semplice tappeto acustico. “Liar” è tesa e minacciosa nelle strofe con un refrain di street rock punkeggiante, l’heavy metal ruvido e drammatico “Solid Body” fa a meno della voce che torna nella conclusiva “I Want Some Fun”, party rock divertito (il titolo è esplicito) dal riff saltellante.

Azzardo che il basso gradimento riscosso da ‘The Lost’ sia dovuto soprattutto alla voce di Lucas Janklow (anche autore delle parti di chitarra assieme a Nate Schrock): non ha un gran volume e il timbro è piuttosto nasale, prova a compensare con una decisa espressività sleaze che nel contesto dello street rock praticato dalla band funziona ma, evidentemente, non riesce gradita a tutti.

 

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SHOTGUN SYMPHONY

 

 

  • SHOTGUN SYMPHONY (1993)

Etichetta:Now And Then Reperibilità:in commercio

 

Breve è la storia discografica degli americani Shotgun Symphony: quattro album di studio (l’ultimo nel 1999) e tre live. Breve ma fulgida, e degna di essere ricordata. L’esordio del 1993 è il loro album migliore, ma gli altri tre dischi non sono certo da buttare. A livello di vendite raccolsero meno di quanto avrebbero meritato per colpa certamente della loro etichetta, la Now And Then, la quale – non è la prima volta che lo sottolineo – era piena di buona volontà ma scarsa (molto scarsa) di mezzi, difettando soprattutto nel fondamentale aspetto della distribuzione. ‘Shotgun Symphony’ non è mai stato ristampato, e il prezzo richiesto sui soliti canali per il CD (sia nell’edizione inglese che in quella giapponese su etichetta Zero) è sostenuto (a partire da venti dollari su eBay, mentre su Amazon si parte da 75): fortunatamente, è in vendita in .mp3 su Amazon Music per la ragionevole somma di 9,99 euro.

Che genere di rock melodico praticavano i Shotgun Symphony? Possiamo definirlo un AOR hard edged con elementi pomp. All’epoca dell’uscita si sprecavano i paragoni con i Prophet: le somiglianze senza dubbio ci sono, eppure il carattere delle due band è sostanzialmente diverso.

L’album è aperto da “Highway to Tomorrow”, che miscela Journey e Fortune con una notevole enfasi da arena rock: spicca l’arrangiamento variegato (però il refrain è un po’ banale) che bilancia alla perfezione chitarre e tastiere. Si sale più in alto con “What Happens to Love”, ancora arena rock, suggestivo e potente con il suo riffone zeppeliniano e le keys spettacolari. “Way Back Home” tesse una melodia spensierata e molto Autograph su un tappeto consistente di tastiere, mentre “Turn Around” è una power ballad gloriosa, nello stesso tempo maschia e d’atmosfera, tramata di raffinati impasti vocali e di nuovo con qualcosa dei Fortune, come la successiva “Broken Promises”, acustica nelle strofe ed elettrica nel refrain. Con “Lost Child” le somiglianze prima accennate con i Prophet si fanno molto più consistenti: la band di Scott Metaxas era però più dinamica, drammatica e aggressiva, mentre qui le tastiere hanno una maggiore enfasi pomp. “She’s in Love” torna al metal da spiaggia, sempre ben lubrificato dalle tastiere, “Running” è un bell’hard melodico che nelle melodie guarda ancora ai Fortune, ricompare lo spettro dei Prophet in “Bitter Sweet Poison”, annunciata da un basso pulsante, vivace e scenografica. In chiusura, un’altra power ballad, “Goodbye to the Night”, caratterizzata da un bel crescendo variopinto.

In definitiva: ‘Shotgun Symphony’ non diceva molto di nuovo, ma in compenso lo diceva benissimo, e resta una delle cose migliori che il rock melodico abbia prodotto dopo il giro di boa del fatale 1991.