recensione
L’hard rock, più o meno melodico, è un genere tutt’altro che ben disposto verso le donne. Le band guidate da vocalist del gentil sesso sono sempre state, in proporzione, un numero infimo quando rapportate agli analoghi ensemble del rock più mainstream. Anche la percentuale di strumentiste dedite al rock duro non è mai stata rilevante. Il giudizio sfavorevole del pubblico, evidentemente, pesa. In tanti forum mi è capitato di leggere commenti a questo o quell’album in cui si esibiva una donna al microfono riassumibili nell’affermazione-tipo: “Le canzoni sarebbero OK se non le cantasse una femmina”. Posto che de gustibus eccetera eccetera, non ho mai capito perché tanti stabiliscono a priori incompatibilità tra “femmine” e hard rock, salvo tirare in ballo spiegazioni extramusicali che coinvolgono misoginia, machismo e altre tare mentali di questa specie. Negli ultimi anni, poi, la situazione è largamente degenerata, voglio dire che il gradimento è andato sempre più in picchiata e stavolta (mi pare) per un motivo molto serio. Il melodic rock sarà “melodic” quanto volete, ma sempre “rock” resta. Il volume, la pressione sonora, una certa irruenza, impongono una precisa vocalità ai cantanti. Insomma: per cantare il rock – a prescindere dalla sua durezza – occorre una voce rock. Ma da qualche tempo si vedono spuntare nel nostro genere cantanti (non sempre “femmine” a onor del vero) che hanno voci intonate, magari tecnicamente ineccepibili, ma troppo flautate o caramellose, buone per la musica pop ma ben poco adatte perfino all’AOR meno aggressivo. Degne rappresentanti di questa tendenza sono Issa e le due ragazze francesi dei Chasing Violets: che sappiano cantare benissimo, non ci piove; che le loro voci si incastrino bene nel genere musicale praticato, non mi sembra. Issa dorme con i dischi di Celine Dion sotto il cuscino, le due francesi avrebbero potuto anche proporsi come controfigure canore delle Spice Girls. Se queste sono le voci rock del secondo millennio… E allora, in attesa che spunti un’altra Alannah Myles, una nuova Joanna Dean (a proposito: ‘Misbehavin’’ è stato finalmente ristampato dalla Yesterrock), l’erede di Ann Wilson, andiamo a riscoprire una band guidata da una vocalist davvero eccellente, anzi da ben due vocalist. Difatti, la prima voce degli inglesi If Only fu la ex Girlschool Jackie Bodimead. Quando le registrazioni dell’album, ‘No bed of roses’, si erano quasi concluse, Jackie decise però di lasciare la band, costringendo gli If Only a cercare in fretta una nuova cantante, arruolando la bravissima Tina Egan, già vista negli Hellfire Club, che reincise tutte le parti vocali. Il disco, prodotto da Geoff Dawnes, uscì solo in Giappone nel 1992 (se ricordo bene), venne stampato in Europa nel 1995 dalla Long Island con l’aggiunta di quattro bonus tracks cantate da Jackie Bodimead, mentre nel 2004 la Outlaw Records pubblicò con il titolo ‘Destiny’ una sontuosa raccolta che comprendeva tutta la prima versione di ‘No bed of roses’ (quella cantata da Jackie Bodimead) più diverse demo e live tracks. ‘No bed of roses’ era un trattato di AOR hard edged di assoluta eccellenza, prodotto magnificamente, con arrangiamenti variegati e fantasiosi, aperto alla grande da “Loaded Gun”, hard melodico californiano heavy quanto basta, anthemico e cadenzato su cui Tina spadroneggia con la sua voce favolosa, una sorta di Lee Aaron più rauca ed aggressiva. “Tumblin’ Dice” e “I’m No Angel” sono impostate su una bella trama elettroacustica, tra gli Heart ed i Tyketto, mentre “If Love Could Last Forever” ci riporta in California tramite una power ballad robusta, un po’ Whitesnake ma con un refrain dalla grande estensione melodica ancora di ascendenza Tyketto, e sulle spiagge di Venice restiamo con la title track, stuzzicante esercitazione sullo stile degli Autograph. “Easy Lay” è un veloce rock’n’ roll metallizzato, riff geometrici, begli innesti di una sezione fiati ma con un refrain leggero in mezzo a cui spunta anche un piano boogie, “Rock and a Hard Place” ha un sontuoso intro di keys ma si sviluppa lungo le linee di un class metal impetuoso e molto Whitesnake, festaiolo e anthemico con un ritornello decisamente Scorpions, “Red Hot Heaven” è invece un provocante metal californiano che impasta alla perfezione Crüe e Ratt. Dopo la passionale e molto Journey “Ghost of You” arriva una sfarzosa power ballad con “Forever My Love”, in bilico tra la grandeur degli House of Lords e la teutonica solennità degli Scorpions, poi un’altra scheggia di big sound ruvido e potente alla Tyketto con la splendida “Long Way From Home” mentre “Man Against the World”, ballad per archi, piano e voce, drammatica e intensa, ci offre l’ultima, strepitosa performance vocale di Tina prima delle quattro bonus tracks, dove, come già annotato, si esibisce Jackie Bodimead, con la sua voce forte, nitida e un po’ nasale, apprezzabile ma comunque un gradino sotto quella di Tina Egan. “All Over “ ha un riffing molto Ratt su cui viene imbastita una vivace stesura di AOR hard edged, “Stand Like a Stone” è aperta da un synth bass e punteggiature di tastiere prima che entrino le chitarre elettriche ed una melodia vagamente Bon Jovi, poi “Don’t Let Go” spara un altro super metal da spiaggia alla Autograph, mentre “Shotdown” è un class metal ben lubrificato di melodia che mi ricorda certe cose dei Quiet Riot era ‘Q.R. 88’. Tina Egan mise su una band a proprio nome con un paio di ex Reo Speedwagon, ma la fortuna non era dalla sua parte, se ne andò nel 1999 (forse suicida), quando gli If Only erano già merce per nostalgici dei Big 80s, oggi questo disco (nell’edizione Long Island, naturalmente) gira su eBay a cifre variabili fra i dieci ed i venti dollari ed in quantità discrete, poi c'è la recentissima ristampa a tiratura limitata della Avenues of Allies (che ha una cover leggermente diversa e propone un' ulteriore bonus track, sempre cantata da Jackie Bodimead) la reperibilità dunque si è fatta ottima e chiunque non abbia prevenzioni contro l’AOR cantato da “femmine” lo apprezzerà certamente.
Questo nuovo progetto AOR di Pierpaolo Monti nasce con un obiettivo preciso: incidere canzoni tutte interpretate in duetto. A fianco del lead singer Davide Barbieri (già sentito nei Wheels Of Fire) si schierano volta a volta la bellezza di quattordici cantanti diversi, uno (o una) per ogni canzone dell’album, si passa da vecchie, inossidabili glorie del rock melodico come Moon Calhoun e David Forbes a esponenti delle nuove leve, tipo Nick Workman dei Vega. Anche alla sei corde c’è una continua alternanza, la lista vede dodici nomi diversi, sopratutto italiani (fra i connazionali, il bravissimo Mario Percudani; tra gli stranieri, spicca Sven Larsson). Ammetto che al principio ero un po’ scettico sulla riuscita dell’impresa, temevo che tante voci diverse finissero per togliere continuità all’album, invece ‘Charming Grace’ procede benissimo sulla strada dell’AOR più melodico, ottimamente prodotto dallo stesso Davide Barbieri e con il tocco de luxe di Alessandro Del Vecchio che ha mixato e masterizzato il tutto (oltre a duettare con Barbieri in una canzone). “Everytime You Touch My Heart” apre l’album con una bella tranche di AOR dal flavour canuck, a seguire c’è la molto Survivor “The Way You Feel Inside”, mentre “Shining Light” ha uno strepitoso ordito melodico un po’ Boulevard (in coerenza con il cantante ospite, che su questa canzone è David Forbes). “Just Take My Hand” (elettrica ma su un tappeto acustico), precede un’altra track Survivor inspired, “Close Your Eyes”. “Still Dreamin’” è un’impeccabile ballad prima della molto Journey “The Sound Of Your Heart” e della cover dei Bon Jovi “Everybody’s Broken”. A “The Answer Was You”, la voce di Bente Smaavik (algida cantante dei Perfect Crime) conferisce un certo smalto teutonico, mentre Jesse Galante, con i suoi toni taglienti, dà un bel contributo alla più dinamica “Run Away”. Sempre nella dimensione del più classico AOR nordamericano si realizza “Through The Stars”; “Endless Flame” mi ricorda vagamente le stesure più melodiche dei Danger Danger, la ballad “Bring My Life Back” precede un’altra cover, stavolta di Belinda Carlisle, “Leave A Light On”. In definitiva, un’altra eccellente prova della qualità della scena AOR nazionale, sempre felicemente focalizzata su temi e stilemi del melodic rock d’oltreoceano, lontana da qualunque tentazione moderna. Celebrativo? Forse. Efficace? Assolutamente.
Contraddittorio, questo esordio dei norvegesi Snowfall. Entrati nella scuderia Escape senza un cantante, si sono ritrovati con il solito Lee Small al microfono (soluzione tampone o definitiva?) e l’inevitabile Martin Kronlund a dirigerli dietro il banco del mixer. La presenza di Lee Small è più che gradita, ma sulle qualità di Kornlund come produttore continuo ad avere notevoli dubbi, e l’ascolto di ‘Cold Silence’ me li ha confermati in più di una circostanza. Ma infine, vorranno sapere i miei lettori, questo disco com’è? Bello, brutto, schifoso, divino? Vediamolo in dettaglio. “Don’t Drive Me Home Tonight” è aperta da un bel disegno di keys su un incalzante tappeto elettrico. Il refrain è arioso, ma viene ripetuto con un’ insistenza che finisce per risultare asfissiante, e questo sembra sia diventato il marchio delle produzioni di Kronlud (verificatelo sull’ultimo Phenomena e nell’esordio dei Rage Of Angels): quando non sa come impostare un arrangiamento, il nostro Martin si limita a riempire la canzone mixando il ritornello per una decina di volte di fila. Per fortuna, nella seguente “Citadel of Hope” troviamo un arrangiamento più movimentato, un riffing più aggressivo completato da linee melodiche vagamente Whitesnake vecchia maniera. Decisamente interessante “House of Prayer”, introdotta da tastiere pulsanti, con delle chitarre dal piacevole gusto metallico e californiano e la voce di Lee che si muove ora sinuosa ed ora irruente. È il momento della ballad, “Heaven’s Not Up There”, una bella trama elettroacustica in crescendo: un po’ cupa, magari. “Jack of Diamonds” è una scheggia dinamica e policroma, si innalza su un fitto tappeto percussivo, chitarre taglienti, un’impennata di tastiere, ma il refrain dà la curiosa sensazione di essere stato cantato da Lee Small su una tonalità diversa dal resto della canzone. “Wolf’s Lair” porta con sé ancora suggestioni Whitesnake, stavolta quelli versione USA e nei loro momenti più melodici (“Is This Love” et similia). Sull’inutile “I Won’t Be Lonely Anymore” Kronlud ricorre ancora al giochetto di ripetere un refrain molto essenziale oltre i limiti della sopportazione, ma si fa perdonare subito con la divertente “Stampede”, bluesy e zeppeliniana nel riffing ma con un’atmosfera western alla FM. Interessante si rivela pure “Oscillate”: parte con un intro etereo di keys, poi irrompe a sorpresa un gran riff rotolante sotto cui scivolano i tappeti di tastiere, c’è un’impennata di metal californiano prima del refrain maschio. Ma notevole è anche “Alexandria”, imponente e cadenzata, metallica alla maniera degli House Of Lords ma con un ritornello leggero, mentre la conclusione è affidata ai sei minuti e mezzo di “The Vesper Bell”, che parte cupa ed acustica, sviluppandosi in un crescendo elettrico e dinamico con variopinti interventi di tastiere ed un paio di bridge dal flavour prog, tornando nel finale alle armonie acustiche. Insomma, ‘Cold Silence’ ha i suoi momenti ma anche delle pause apparentemente inspiegabili: forse la band, trovandosi a corto di idee in un paio di occasioni, si è rivolta al produttore e quello non ha saputo fare di meglio che ricorrere al suo solito trucco, ossia far ripetere ossessivamente il ritornello. D’accordo che non tutti possono essere Keith Olsen o Ron Nevison, ma ci voleva tanto a capire che sarebbe stato meglio eliminare del tutto la banale “I Won’t Be Lonely Anymore” e tagliare un minuto almeno da “Don’t Drive Me Home Tonight” (che ne dura – Dio sa perché – quasi cinque)? Lo sconcerto aumenta considerando che il resto non è affatto da buttare via, tutt’altro. Ai bei tempi che furono queste incongruenze semplicemente non c’erano, i dischi filavano via lisci perché venivano assemblati da gente che sapeva fare il proprio mestiere, mentre oggi le band AOR sono nelle mani di mestieranti e dilettanti di buona volontà, e così ci ritroviamo fra le mani album come questo ‘Cold Silence’ che alterna cose veramente buone a ciofeche tutt’altro che irredimibili dato che sarebbe bastato l’intervento di un bravo professionista della produzione per tramutare i brutti anatroccoli in bei cigni dalle ali seriche.
Se frequentate (come dovreste…) la pagina Facebook di Classix!, non vi sarà sfuggito il link al trailer del film/documentario che un regista americano ha girato per raccontare la storia dei Bang Tango. Questo breve filmato è aperto da una scritta che chiunque si interessi all’hard rock dei Big 80s dovrebbe memorizzare e tenere sempre presente quando si mette all’ascolto di musica registrata in quegli anni. Tradotta dal sottoscritto, recita: “Negli anni ’80, più di 400 band vennero messe sotto contratto dalle major labels americane. Di tutte queste, solo il 3% ebbe successo”. La cifra di quattrocento band (band di hard rock, naturalmente) mi sembra sottostimata, anche volendo considerare solo le major labels. Ma, di sicuro, erano tante, erano troppe per un mercato che non poteva assorbirle tutte e veniva inondato da quantità esagerate di dischi che rimanevano a prendere polvere sugli scaffali dei negozi, perché erano sempre i soliti nomi a catalizzare l’attenzione dei potenziali consumatori. Certo, se raffrontiamo la situazione dei Big 80s con quella odierna, scopriamo che (quantitativamente parlando) le cose non sono cambiate affatto. C’è sempre una massa esagerata di musica che ogni santo giorno viene proposta per l’acquisto (fisicamente o in download), e addirittura questa massa risulta molto più grande oggi rispetto a trent’anni fa. Ma l’evoluzione delle tecniche di incisione permette oggi alle band di registrare album con un impegno finanziario che se non è proprio irrisorio, rappresenta comunque una minima frazione di quello indispensabile trent’anni fa per ottenere un risultato finale professionale (dal punto di vista della qualità audio). È una vittoria? Fino ad un certo punto. Praticamente chiunque può incidersi un album, ormai. Manca qualsiasi filtro che separi il grano dalla pula, e tutto si fa in casa, in maniera arruffata, senza il supporto di professionisti. Il risultato finale è una massa inconsistente e fatua di materiale sonoro destinato meritatamente al dimenticatoio, mentre tutti o quasi gli album registrati da quelle quattrocento e passa band dei Big 80s spiccano per qualità assoluta, e sempre più mentre il tempo passa e le nostre orecchie devono subire la musica sciapa, impalpabile, effimera che domina questo squallido inizio di ventunesimo secolo. L’ho scritto tante e tante volte, e a costo di annoiarvi continuerò a ripeterlo: i grandi dischi non nascono dall’ispirazione di quattro o cinque tizi chiusi in una sala prove che suonano i loro strumenti in libertà: sono il frutto di un lavoro di squadra, lungo, paziente, che coinvolge songwriters e produttori, e necessita di tempo e risorse, e sopratutto di soldi: tanti, tanti soldi. Ma oggi, di soldi da investire in una produzione discografica ce ne sono pochissimi, ogni album è diventato un marginal record deal (per la spiegazione di questa espressione, andate alla recensione di ‘Goodnight L.A.’ dei Magnum), ed il risultato è sotto gli occhi (meglio: nelle orecchie) di tutti. Quelle quattrocento band, invece, godevano delle condizioni ideali per registrare grandi cose, e molte di esse lo hanno fatto. I Trouble Tribe furono uno dei componenti di quella gloriosa armata, e il loro unico album pur non essendo un capolavoro assoluto, ha quello che nell’anno di pochissima grazia 2013 manca ai prodotti discografici odierni: una produzione professionale, curata, attenta ai dettagli ed alle sfumature. Nell’ambito del genere specifico che i Touble Tribe avevano deciso di abbordare, mancava forse un pizzico d’espressività (o di lascivia?) al cantante Jimmy Driscoll perché questa band potesse giocarsela alla pari con gli altri ensemble del metal californiano, ma la prova che i ragazzi offrivano durante le loro escursioni più evidenti in questo territorio (le molto Ratt “Here Comes Trouble” e “One by One”, quest’ultima con linee melodiche fluide e per nulla scontate; l’eccellente “Devil’s Kiss”; “Red Light Zone”) non era affatto deludente, tutt’altro. Con “Tattoo” mettevano a segno un grande glam anthem con una forte impronta vocale Def Leppard, “Gimme Something Sweet” omaggiava invece i Van Halen tramite un hard bluesy swingante con qualche flash di ottoni ed un pizzico di piano boogie, mentre “In the End” era un’apprezzabile scheggia melodica, nient’affatto banale. Spettacolosa si rivelava “Back to the Well”, dove Led Zeppelin, Aerosmith, il funk e l’atmospheric power venivano strepitosamente intrecciati e fusi; a seguire, “Boys Nite Out” poteva apparire la quintessenza della semplicità rockenrollistica, ma la tessitura di questa canzone si manteneva ben lontana dall’ordinarietà. Dopo la coverizzazione in chiave hard rock della “Dear Prudence” dei Beatles (ottimamente risolta), un’altra prova notevolissima i Trouble Tribe la offrivano con “Cold Heart”, quasi una power ballad, alternanza di arcane parti acustiche e fascinose carezze elettriche fra cui irrompeva un refrain degno dei Dokken o dei Malice, mentre in chiusura c’era “F’s Nightmare”, cinquantatrè secondi di metal adrenalinico e violento. I Trouble Tribe – dovrebbe essere inutile ricordarlo – fanno parte di quel novantasette per cento di band che non conobbero i favori del pubblico, il loro primo ed unico album gira sul mercato dell’usato a cifre variabili tra i 15 ed i 35 dollari, quotazioni che parlano di un’attenzione postuma tutt’altro che distratta per un lavoro che dopo quasi un quarto di secolo si riascolta sempre con piacere: di quanti album di band attuali si potrà dire lo stesso fra venticinque anni?
Chi bazzica da un po’ questo sito web avrà ormai compreso quanta poca stima il suo webmaster abbia, generalmente, per l’hard rock melodico che non viene dal Nord America e quali scarse aspettative nutra per i prodotti discografici recenti (sopratutto se arrivano da Germania e Svezia). Quando mi è stato proposto per la recensione quest’album di una band formata in parti uguali da greci (!) e tedeschi, ho, in prima battuta, declinato cortesemente l’offerta. Poi, pensando che avrei potuto cavarne fuori una recensione breve di quelle più acide, carognesche, sadiche e spietate, l’ho preso e mi sono preparato mentalmente a trovare una serie di aggettivi che potessero rendere in maniera adeguata la pochezza e la ridicolaggine che presumevo affliggessero il prodotto. Sforzo sprecato. Innanzitutto, perché questo non è affatto un disco da poco e non c’è assolutamente nulla di ridicolo nelle dodici canzoni che formano ‘Victims Of Our Circumstances’. È vero che non si finisce mai di stupirsi, e quest’album mi ha stupito per molti motivi: la produzione professionale, gli arrangiamenti curati, ed il songwriting brillante. La voce del veterano Michael Bormann (Jaded Heart, J.R. Blackmore, Bonfire, Zeno Roth, Rain) è sempre duttile ed autorevole, ed il suo lavoro dietro il banco del mixer è stato addirittura superlativo. In qualche frangente gli assoli di chitarra di Athan Kazakis e Panos Baxevanis risultano un po’ anonimi, ma è davvero voler cercare il pelo nell’uovo di un lavoro che non potrà non fare felici tutti quelli che amano il rock melodico di più stretta osservanza yankee. La matrice a cui i Redrum sembrano più affezionati è quella degli House of Lords più metallici di ‘Sahara’, ‘World upside down’ e ‘Cartesian dream’, con “One Of Us” (aggressiva e solenne, dove sembrano davvero degli HoL più ruvidi), “You Can’t Buy no Hero” e “Dirty White Boy” (che hanno dei refrain melodici e travolgenti, decisamente Def Leppard… e: no, “Dirty White Boy” non è quella dei Foreigner), “Tear Down The Walls” (che richiama la band di James Christian nei suoi momenti più epicheggianti, ma è infarcita di linee melodiche cromate da arena rock californiano). E il bello non finisce certo qui… “Dust in Your Eyes” parte alla maniera delle stesure più western degli FM con chitarre acustiche e tastiere, impennandosi poi in un bell’impasto elettriche / keys nello stesso tempo barocco e smargiasso, “Empty Promises” e “Mother I’m Coming Home” sono autorevoli power ballads sulla scia dei Bon Jovi (la seconda, con qualche sfumatura ultimi FM), mentre “Pokerface” ci porta in California con un bell’hard rock metallico dalle nuance Autograph. E ancora non è finita; anzi, per citare gli Scorpions, the best is yet to come… “Have a Nice Day” esplode in un grande anthem metallico dal flavour western alla Tangier / Tattoo Rodeo (ma nel bridge, i Redrum sembrano diventare d’incanto i Little Angels… e, di nuovo: questa “Have a Nice Day” non è una cover di quella dei Bon Jovi), e ancora più nel Far West si inoltra la title track, i riferimenti qui tornano verso l’universo degli FM, fascinosa ed elettrica, polverosa e luminosa nella stessa misura, con un refrain eccellente. In chiusura, “You’re The Voice”, questa sì una cover dello storico brano di John Farnham, rifatta tramite uno strepitoso arrangiamento hard rock che la innerva di energia senza intaccarne la grande atmosfera. E allora, non posso che concludere facendo le mie scuse a questo ensemble multietnico, e raccomandando caldamente ‘Victims Of Our Circumstances’ a tutti: è un’opera valida e convincente, un esercizio di stile impeccabile con un suono ed una produzione deliziosamente anni ’80, addirittura la cosa più bella in ambito hard melodico che questo 2013 ci abbia dato fino ad oggi. Lasciatevi stupire…
Un’altra band inglese, un’altra storia finita male; o, meglio, mai cominciata. Gli After Hours non avevano, difatti, neppure una major label dietro le spalle a spingerli (o almeno a dargli un piccolo sostegno, anche solo un buffetto di simpatia…), il primo album, ‘Take Off’, uscì nel 1988 per la indie FM Revolver, AOR hard edged molto ben assemblato ma che fuori di USA e Canada non aveva praticamente possibilità di mercato, e la loro label non disponeva (se ricordo bene) neppure di un accordo di distribuzione per il Nordamerica. Cercate di immaginarveli, i poveri After Hours, in giro per la Gran Bretagna in quella fine di anni ’80, quando la dieta sonora del ragazzo inglese medio era a base di U2, Smiths, Happy Mondays, con quel loro look californiano a base di pettinature cotonate, abiti chiassosi e arie da macho in un momento in cui il trend chic per l’adolescente britannico era portare i capelli a spazzola, vestirsi di colori smorti e sembrare un po’ finocchio (Morrissey docet). Insomma, un fiasco annunciato. Ma gli After Hours ci credevano. Volevano crederci. Così si trovarono un’altra label (tedesca, stavolta) e irrobustirono il sound diminuendo il peso delle tastiere e aumentando il volume delle chitarre secondo quanto il mercato yankee voleva dall’AOR in quel torno di anni. Ma era sempre la solita storia, la label non poteva promuovere l’album dove serviva, e anche se la distribuzione era ora affidata alla major BMG, questa si guardò bene dal pubblicarlo anche negli USA. Insomma: quella degli After Hours poteva ben essere descritta come pura accademia. Si davano un gran daffare, ma sostanzialmente per nulla. Erano fregati in partenza, e lo sapevano. Avevano pubblicato due dischi graziosi e ben fatti che però nessuno comprava ed a quella triste realtà dovettero adattarsi infine, alzando bandiera bianca, salvo tornare addirittura nel 2011 con un altro album, ‘Against the Grain’, che non ho avuto finora il piacere di ascoltare. Che poi ‘After Hours’ (o il suo predecessore, se è per questo) potesse davvero mettersi a fare concorrenza a Giant o Bad English su Billboard, mi pare utopico. Disco caruccio, ma calato fino al mento nell’ortodossia rock dell’epoca, senza la minima scintilla di personalità e almeno un plagio evidente. La voce sguaiata di John Francis certo si muoveva bene su “Wild Woman”, con il suo clima party metal molto californiano (ma non c’era qualcosa del flavour melodico degli UFO, sparso qua e là, tra le righe?), mentre “Girl Like You”, “Love Games” e ‘Heartache’ omaggiavano efficacemente la band simbolo del metal da spiaggia, gli Autograph. “It’s Only Love” era classicamente Bryan Adams, “Blood On Silver” guardava all’universo sonoro dei Van Halen ma su un disegno ritmico alla Joe Satriani, su “Samantha” le tastiere salivano alla ribalta per un AOR patinato che si muoveva sulle stesse coordinate della già a quell’epoca abbondantemente stracopiata “Is This Love”, mentre “Goin’ Surfin’” era per metà ricalcata dalla “Knucklebones” di David Lee Roth (divertente, comunque). La cosa migliore risultava alla fine “You’re Never Alone”, una stesura melodica policroma, dove ancora mi pare di sentire qualcosa degli UFO contemporanei, ma sicuramente più personale, meno sfacciatamente derivativa rispetto al resto dell’album (ah, dimenticavo la conclusiva “Tommy’s Song”, per sola voce e chitarra acustica con l’accompagnamento di un rullante militaresco). In definitiva, ‘After Hours’ non era un album trascurabile in assoluto (bella la produzione, ottimi gli arrangiamenti, molto ben imbastiti i cori), ma restava un prodotto minore di una band che pur sapendo il fatto suo non era capace di darsi un’identità e trovare un minimo di distinzione nel songwriting; come dire: buono, ma certo non un classico. Sul mercato dell’usato gira a cifre consistenti: quotazioni giustificate – evidentemente – solo dalla relativa rarità dell’opera e da non mettere in relazione al suo valore artistico.
Se c’è una galassia nell’universo hard rock / metal dei Big 80s in cui non ho mai navigato con piacere, è quella del cosiddetto “metal neoclassico”. E Tony Macalpine, in quella galassia è stato una delle stelle più brillanti e vistose: i suoi primi due album facevano concorrenza a quelli di Malmsteen quanto a velocità e trapianti di sonate di Paganini, e niente e nessuno è mai riuscito a costringermi a ripeterne una seconda volta l’ascolto. Poi, nel 1990, uscì questo disco siglato solo con il suo cognome elevato a moniker, come a sottolineare una differente impostazione rispetto ai precedenti lavori, incursione a sorpresa nei territori dell’hard melodico. Se consideriamo tutto quanto Macalpine ha fatto dopo, non si può dubitare del fatto che le ragioni di questo raid furono di natura esclusivamente finanziaria. A differenza di Yngwee, Tony Macalpine non era riuscito con i suoi primi album a venire fuori dalla ristretta cerchia dei maniaci dello schredding: con i M.A.R.S. le cose erano andate appena meglio, ma le royalties globali sulle vendite, pur discrete, non dovevano certo essere state tali da permettergli di comprare una Ferrari. E allora, per cercare di rivitalizzare il proprio conto in banca, Tony provò a giocarsi la carta del genere che in quegli anni catalizzava l’attenzione del pubblico yankee. Il risultato fu un lavoro tutt’altro che trascurabile, con una produzione di gran lusso, belle timbriche ricche e cromate, tante sfumature che non è facile assimilare al primo ascolto. L’apertura affidata a “The World We Live In” doveva (immagino) essere una aperta dichiarazione d’intenti, con il suo passo alla “Is This Love” ed una melodia fresca e aperta, decisamente AOR. “The Hard Way”, con il suo andamento sinuoso e saltellante, rimandava invece ai Van Halen: il drumming secco ed il refrain sparato su dei cori molto ben orchestrati le dava una carica anthemica flemmatizzata forse da un arrangiamento un pelo troppo patinato. Notevole “Escape The Hell”, quasi un melange di Ratt e Keel high tech con un refrain fantastico che può ricordare cose analoghe dei Warp Drive proiettato su backing vocals molto Def Leppard, ma anche “Heartache Calling” si faceva valere, tagliente e suadente assieme, notturna e fascinosa, con un assolo di scuola John Sykes. L’intro minaccioso di “Tear It Down” ci porta in un vivace hard melodico alla Winger con interessanti ed inedite soluzioni a livello di arrangiamento, bellissimo risulta poi il nervoso crescendo elettrico di “Take Me Back”, aperta da un intreccio di tastiere, pianoforte e chitarre acustiche zeppeliniane. “Wild Ride” è, a mio parere, una pura e semplice stranezza: qui la band procede come degli Autograph più veloci, ma con assurde intrusioni di metal neoclassico e barocco tra chitarre e furibonde parti di keys: dire che si tratta di un connubio contro natura è ancora poco. Meglio riuscita “Cry A Tear”, una bella cavalcata sospesa tra class ed heavy classico ma con un refrain AOR. Spettacolare “Wrong To Love”, che alterna parti d’atmosfera ad altre più elettriche con un ritornello appassionante su cori ancora di marca Def Leppard; più soffusa “Summer’s Gone”, con le sue armonie cristalline di chitarra, dove Tony e compagni suonano come una versione più raffinata dei Danger Danger. In chiusura, “Urban Days” propone una sorta di heavy metal high tech, epicheggiante ma per nulla tronfio, patinato dalle tastiere. ‘Eyes of the world’ risulta insomma un disco apprezzabile, ma ha un difetto di fondo: è freddo. Perché in questa esperienza Tony Macalpine aveva messo la testa ma non il cuore. Riuscì a proporre dei begli esercizi di stile, in più di una circostanza anche originali, ma il suo approccio rimase distaccato, tutto veniva fatto senza autentica passione, ragionando e basta. Pure, la sua notevole valentia come musicista, strumentista e produttore gli permise di comporre un affresco sonoro di grande suggestione: se fosse riuscito ad aggiungerci anche quell’ingrediente importantissimo che è l’emozione, forse oggi avremmo un album in più da iscrivere nel registro dei capolavori.
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