Cosa è stato a portare alle stelle
gli Skid Row? Il sostegno (molto interessato) di Jon Bon Jovy e del suo
manager-mammasantissima Doc McGhee? La bellezza quasi irreale del loro
front man? La loro musica? Non è facile dare una risposta. Che il
sostegno ci sia stato, e pesante pure, è un fatto noto, come pure tutti
gli strascichi di natura finanziaria che ne sono seguiti (Jon aveva fatto
firmare ai ragazzi un contratto che conteneva una nota a piè di pagina -
di quelle scritte in caratteri così minuscoli che per decifrarle ci vuole
la lente d’ingrandimento - secondo la quale tutte le royalties sulle
vendite del primo disco finivano nelle sue già ben imbottite tasche, e ci
volle il pubblico e furibondo sputtanamento di Seb perché il maltolto
venisse restituito ai legittimi aventi diritto). Che la faccia di
Sebastian Bach abbia poi tormentato i sogni di torme di ragazzine in vari
continenti e per parecchi anni pure è risaputo. Ma tutto questo veniva
bilanciato da una musica che avrebbe potuto tranquillamente scalare la
classifica di Billboard con le proprie gambe, musica che sapeva conciliare
una notevole durezza con un’invidiabile cantabilità. Gli Skid Row sono
stati forse l’ultima grande band dell’heavy metal americano, ben
lontani da qualunque pretesa di originalità, ma dotati di una capacità
di sintesi addirittura straordinaria: il loro primo album era un
lucidissimo, forse irripetibile sunto di dieci anni di metal made
in USA, una prova di equilibrismo quasi unica nell’unire metal e
melodia senza sconfinare in territori sfacciatamente class ma lontana
dalla durezza aspra dell’heavy più tradizionale. Motley Crue, Ratt,
Aerosmith, Twisted Sister, Kiss, Malice, Black & Blue, Y&T, Poison
venivano uniti e shakerati ottenendo un cocktail assolutamente perfetto,
come non era riuscito a bands pure dotatissime come Leatherwolf o Rough
Cutt. “Big guns”
apre le danze martellando al ritmo degli AC/DC ma con un flavour
californiano che rende gli Skid dei Ratt incattiviti o dei Malice più
selvaggi, mentre “Sweet little sister”
risulta più dinamica e meno serrata. “Can’t
stand the heartache” porta direttamente nella Los Angeles di Mötley
Crüe, Quiet Riot e Poison ma la successiva “Piece
of me” cambia subito rotta verso la costa est e l’hard rock
selvaggio degli Aerosmith pre-‘Permanent vacation’. “18
and life” risulta ancora oggi una delle più belle power ballad
metalliche mai incise, con quella sua rudezza acre su cui si staglia la
melodia non edulcorata del refrain. I Van Halen ispirano “Rattlesnake
shake” (con qualche ombra glam nel refrain) mentre “Youth
gone wild” è il magnifico anthem del disco, tra i Crüe ed i
Twisted Sister. Ancora i vecchi Aerosmith ed i loro figli illegittimi
della west coast, Ratt e Crüe, battezzano
“Here I am”, ma anche “Makin’
a mess” è un bel saggio di metal californiano, veloce e
scanzonato. “I remember you” è l’altra
ballad, sempre molto power, maschia e ruggente (qualche rimembranza
Scorpions?) e chiude “Midnight/Tornado”,
finale arrembante, un up tempo che ricorda i Tesla più metallici. Con il successivo ‘Slave to the grind’ la band accentuò il fattore pesantezza a scapito di quello melodico, il disco risultava considerevolmente più violento rispetto a ‘Skid row’, ma la scelta venne largamente premiata dal pubblico: se l’esordio si era fermato al numero 6 della classifica di Billboard, ‘Slave...’ toccò addirittura il numero 1. Molto peggio fece ‘Subhuman race’, che arrivò appena al numero 35. Dopo, con le fortune commerciali del metal in caduta libera, gli Skid Row galleggiarono discretamente ma con l’abbandono di Sebastian Bach le difficoltà si moltiplicarono e la band trovò ospitalità solo presso le etichette indipendenti. A fine 2006 è uscito ‘Revolutions per minute’, per la SPV, con Johnny Solinger alla voce, che prosegue lungo la (pessima) direzione del precedente ‘Thickskin’, ovvero un brutto misto di hardcore punk e nu metal con strane influenze country (?!). Insomma: un’altra grande band alla deriva.
P.S. Questa recensione è dedicata a Paolo. Lui sa (ovviamente) perché.
La vita è tutta un giro di ruota.
O un tiro di dadi, come amano dire gli yankees. Insomma: per quanto
uno possa darsi da fare, impegnarsi, correre, sbattersi, il fattore
decisivo nella scalata al successo (di qualunque proporzione) rimane
sempre la quantità di mazzo che la dea bendata c’ha fornito. I
sostenitori ad oltranza della meritocrazia non hanno vita facile,
almeno nel campo musicale. In definitiva: puoi anche essere
bravo, avere il look, il management e la casa discografica pronti a
sborsare quattrini per promozionarti... ma se ti manca quel certo
fattore imponderabile e inafferrabile, il risultato dell’operazione
sarà sempre un bello zero tondo. Una dimostrazione eclatante di
quanto scritto sopra viene dal destino di questa band. I Cold Sweat
facevano un genere di musica parallelo a quello dei Firehouse, i
relativi dischi di esordio uscirono più o meno nello stesso periodo,
entrambi zeppi di canzoni di livello superiore. Domanda: perché il
pubblico preferì i Firehouse e ignorò i Cold Sweat? Risposta: non
c’è risposta. Almeno, non ad un livello razionale. Se invece ci
lasciamo alle spalle razionalità, logica e buon senso, possiamo dire:
perché i Firehouse erano nati con la camicia, mentre i Cold Sweat
erano venuti al mondo sotto una cattiva stella. La band nasceva per volontà di
Mark Ferrari, la ex chitarra solista dei Keel, il gruppo messo su dal
singer Ron Keel dopo il prematuro scioglimento degli Steeler (la band
creata appositamente da Mike Varney per sgrezzare un Yngwee Malmsteen
giovanissimo ma già ammalato di egocentrismo terminale). I Keel
avevano questo di particolare: erano una band di cui si parlava
parecchio, sempre molto citata, una di quelle cool
nella Los Angeles degli anni d’oro, ma di cui nessuno si sognava
di comprare i dischi: il fatto che siano riusciti a mettere assieme
addirittura quattro album tra l’84 e l’87 (tre per una major
label) è sempre stato per il sottoscritto motivo di grande
meraviglia. La ragione dell’insuccesso commerciale stava
probabilmente nel vizio dei Keel di concentrarsi su due-tre canzoni
veramente buone e riempire poi il resto del disco con abominevoli
cacate registrate male e suonate peggio. Dopo quattro anni di questo
andazzo, Mark Ferrari se ne andò, credendo forse di poter fare di
meglio in proprio, almeno dal punto di vista artistico. I Keel erano
assistiti dal Niji Management, e Ferrari mantenne i contatti con
l’agenzia della moglie di Ronnie James Dio che riuscì a procurargli
un contratto con la MCA. Il primo moniker prescelto fu Ferrari, ma la
filiale locale della fabbrica di Maranello minacciò azioni legali se
il povero Mark avesse osato utilizzare il proprio cognome per
battezzare la sua nuova band. Si passò allora a Cryin’ Shame, ma,
quando già l’artwork del disco era stato preparato, venne fuori che
quel nome era stato registrato da un’altra band. Dato che il logo
con la “C” e la “S” ormai era pronto e non si potevano buttare
via soldi per pagare di nuovo il grafico e farsene disegnare un altro
(a quell’epoca non c’erano software che ti facevano un logo in tre
minuti) si optò per un moniker che avesse per iniziali quelle due
lettere, e arrivò così Cold Sweat (“sudore freddo”... non
proprio beneaugurante, se vogliamo). Ma i casini non erano finiti.
Mark Ferrari aveva preso come singer un tale Jesse Logan – Oni per
gli amici – che, pochi giorni dopo la firma del contratto con la MCA,
mollò la band per unirsi ai Lynch Mob lasciando Mark nelle peste (e
George Lynch, per ringraziare Oni di questa scelta di campo arrivata
in un momento così delicato della sua carriera, lo caccerà dai Mob
dopo il primo tour dicendo alla stampa che non sapeva cantare dal
vivo). Dopo aver provato con il futuro Queensryche Mike Stone e Ralph
Saenz, arrivò Rory Cathey, anche lui come Logan alla sua prima
esperienza professionale (cantava in una cover band). Il secondo
chitarrista era l’ex-Waysted Eric Gamans, mentre la sezione ritmica
era composta dal bassista Chris McLernon (che aveva preso il posto di
Marc Normand, anche lui scappato appena dopo la firma per la MCA... ma
che gli aveva preso, a tutti quanti?) e Anthony White, un esperto
drummer che aveva militato, fra le altre band, anche nei Jag Wire.
Finalmente, i ragazzi poterono entrare in studio con Kevin Beamish
dietro il banco del mixer per registrare il disco, che venne poi
mixato da Kevin Elson. La somiglianza con i Firehouse
veniva non solo dall’orientamento musicale, ma anche dalla voce di
Rory Cathey, molto simile a quella di C.J. Snare, ma più chiara e per
niente acida come quella del singer dei Firehouse (e ben diversa da
quella al catrame di Oni Logan: considerato il genere di rock a cui i
Cold Sweat si dedicavano, questo cambio di front man non venne affatto
per nuocere). Se la band di ‘Hold your fire’
prediligeva una certa essenzialità metallica e faceva un uso
massiccio dei cori a più voci, i Cold Sweat preferivano arrangiamenti
meno diretti mentre i cori erano più lineari e lo smalto melodico
veniva affidato alle sovraincisioni di chitarre e ad un fondo molto
discreto di tastiere. L’atmosfera, in linea di massima, è più
patinata, c’è meno fragore metallico, e qua e là spuntano
suggestioni a-là Poison, e
qualche vaga ombra Autograph. Apre in velocità “Four
on the floor”, bella serrata, con qualche riverbero Dokken, a
seguire “Cryin shame” è un classico
mid tempo melodico, molto californiano (la somiglianza con la
“Don’t walk away” dei Firehouse non può che essere casuale).
“Love struck” è ariosa ed agile, con
un bel retrogusto Steelheart, mentre la power ballad “Waiting
in vain” e l’hard melodico “Take
this heart of mine” si possono descrivere come routine
competente e di ottimo gusto. Altra musica su “Killing
floor”, sofisticata stesura metallica che procede su un riff
rotolante e “Long way down” un class
metal avventuroso e insinuante aperto dal breve strumentale per sola
chitarra “Riviera”. “Let’s
make love tonight” ha un refrain che da solo vale un miliardo
di dollari, “Fistful of money” è un
favoloso class rock tra Ratt e Quiet Riot, “Jump
the gun” un altro fast selvaggio ma controllatissimo,
impreziosito dagli interventi di una slide guitar feroce. La chiusura
è affidata alla cover di un vecchio blues di Willie Dixon (che fu un
hit di Muddy Waters nel 1954, già recuperato dai Foghat negli anni 70) “I
just want to make love to you”, che la band rende con una
forza stratosferica, trasformandolo in un anthem spaccaossa alla AC/DC,
con un Rory Cathey davvero da urlo. Il supporto a questo disco
fenomenale non mancò: tour come apripista per Savatage, Malmsteen e
Dio, e poi un giro da headliner con i Child’s Play come backing
band. Wendy Dio riuscì a trovargli posto anche nell’importantissimo
Monsters Of Rock tedesco, e – già che si trovavano in Europa – a
fargli suonare uno show a Londra. Il videoclip di “Let’s
make love tonight” venne regolarmente passato da MTV. Niente
da fare. Le vendite andarono così male che prima della fine del 1991
la MCA stracciò il contratto. Fine della storia. Certo, a voler fare i pignoli si può puntualizzare che il Niji Management non era potente come l’agenzia di Doc McGee né efficiente come il Concrete Marketing di Bob Chiappardi (uno che - se qualcuno lo pagasse per farlo - riuscirebbe a vendere dischi dei Napalm Death anche in Pakistan o agli aborigeni australiani), e pure che la MCA non era rinomata per la fiducia che concedeva alle proprie band (i maligni dicono che quell’acronimo, in realtà, significa: Musician Cemetery of America, cimitero dei musicisti americani, in relazione al numero di band affossate dall’etichetta), e che se non ci si fosse messa di mezzo anche la recessione, e il grunge... Ma resta un fatto, nudo e crudo, assoluto e incontrovertibile: i Cold Sweat ebbero la possibilità di far ascoltare alla gente la propria musica, e la gente rimase sorda alla proposta della band. Inspiegabilmente, assurdamente sorda, per me. Mark Ferrari può consolarsi almeno con le valutazioni elevatissime che ‘Break out’ ha oggi su ebay. Difficile trovarlo a meno di una quindicina di euro, e presso i rivenditori specializzati si va dai trenta dollari in su... e stiamo parlando del disco di vinile. Il tempo, si dice, è galantuomo. I Cold Sweat hanno dovuto aspettare quindici anni per vedere riconosciuto il proprio valore. Meglio tardi...
La prima cosa che mi è venuta in
mente dopo aver ascoltato questo disco è stata la frase con cui un
noto giornalista musicale dallo stile particolarmente estroso apriva
la recensione su un altrettanto noto magazine nazionale del terzo
album degli Shotgun Messiah: this is a big imbroglio... Anche ‘Bombshell’
è un big, molto big imbroglio. La presa per il sedere è tutta nella
copertina e nell’artwork. La cantante Julie in tenuta supersexy ed
in pose variamente puttanesche, un titolo stesso come “bombshell”
(che in inglese significa “granata” o, in senso lato, una notizia
bomba)... Uno pensa (legittimamente!)
ad un bel disco gaio (non nel senso degli Scissors Sisters...),
festaiolo, sguaiato, glam, riffoni rimbombanti, testi provocatori, un
bel clima anni 80, sesso, sesso, sesso... Nada!
Altro che granata! “Iceberg” dovevano intitolarlo! Questo è un
disco di hard rock contemporaneo, ossia tetro/lamentoso. I punti di
riferimento della band sono i più attuali: Lacuna Coil, Evanescence,
riff monolitici e spezzati, atmosfere plumbee. La cosa più ottantiana
è la cover di “18 and life” degli
Skid Row, che gli Hydrogyn risolvono ottimamente, e mi sarei
meravigliato del contrario, dato che li produce Michael Wagener... E
il resto? Mandato giù il rospo, bisogna ammettere che la band fa bene
il suo compitino, anche se talvolta la pur bella voce di Julie suona
un po’ troppo fredda, quasi frigida, come nell’opener “Vesper’s
song”, un heavy rock comunque interessante. “Blind”
si appoggia su un bel riff spezzato e moderno e gode di un cantato più
incisivo, mentre “Look away S.P.”
corre su un riff ipnotico con un coro dalla bella melodia che accende
qualche vago barlume AOR. Per
“Breaking me down”, Amy Lee e gli
Evanescence dovrebbero chiedere i diritti d’autore (sembra
un’alternate version di “My tourniquette”), “I’ve
been waiting” ricorda invece le cose più commerciali di Joan
Jett, ma manca di mordente, il cantato è troppo frigido, “Confession”
è un’altra marcia funebre (bella melodia, però), “Love
spoke” propone una timida versione hard rock di Avril Lavigne,
ma si poteva fare di meglio e di più. Della cover di “18
and life” ho gia
detto, voglio solo notare che qui Julie tira fuori una grinta che
avrebbe fatto un gran bene anche al resto delle canzoni. “The
sand” è pesante, moderna, ma anche piuttosto teutonica:
tutto sommato, non spiacevole. “Whisper”
è una power ballad elettroacustica al crocevia tra vecchio e nuovo:
la trovo eccessivamente dolente, ma può essere una questione di gusti
personali. “Circle” potrebbe essere
il top del disco, un buon hard rock con una certa vena settantiana
(qualche guizzo nell’arrangiamento non poteva che giovare). “Book
of names” è un nu-metal commerciale alla Lacuna Coil:
carina. Chiudono “Come back to me” e
“Mutilated mind”, la prima acustica e
la seconda elettrica: due inni alla depressione tagliati su misura di
quindicenne alle prese con il mondo crudele. Resta l’interrogativo: cosa ha
spinto questi Hydrogyn a darsi un’immagine che non corrisponde
minimamente al genere musicale affrontato. Cui prodest? A chi giova? I
fans del rock neo-depresso che tanto va per la maggiore avranno dato
un’occhiata alla cover e saranno passati oltre. I vecchi mandrilli
dei Big 80s, dopo essere rimasti scottati, passeranno la voce in
giro... E allora? Come cantava tanti anni fa Robert Plant: heaven
knows...
Chi
dice che le bands scandinave erano (sono) tutte uguali, che i loro
dischi sembravano fatti con lo stampino? Molti, tanti, ed io sono
(non lo nego) uno di quelli. Ma ci sono state delle eccezioni. E
quelle più clamorose si verificavano quando i vichinghi, lasciate
le loro fredde lande, sbarcavano nuovamente in America,
registrando con produttori americani. I norvegesi (con chitarrista
svedese) Sons Of Angels tentarono la carta della scena yankee,
passando una decina di giorni a Los Angeles che occuparono
soprattutto pubblicizzando un proprio demo. La trasferta in
California non era naturalmente una garanzia di successo, Dio sa
quante bands hanno preso la residenza a L.A. senza realizzare
alcunché, sopratutto straniere (e anche italiane, come gli
Astaroth, che salivano sul palco del Gazarry’s vestiti da
soldati dell’antica Roma ed erano evidentemente convinti che
ostentare un look burino fosse un elemento chiave per ottenere un
contratto major). Sia stata la pura e semplice
fortuna o la qualità del loro live show, in un niente vennero
scritturati dalla Atlantic (che in quel periodo era molto attiva
sul fronte dell’hard rock) e registrarono un disco sotto la
guida di nientemeno che Kevin Elson. Come al solito, a tanto
entusiasmo della label nel chiudere il contratto non corrispose un
impegno adeguato in fase di promozione, così che ‘Sons
of Angels’ divenne in breve il principe dei forati, ed
oggi è sicuramente più reperibile in Europa, all’epoca
periodicamente inondata dai dischi a metà prezzo che il mercato
americano non voleva saperne di consumare. La mancata promozione di
quest’album sarebbe stata passibile di un’accusa di negligenza
criminale, perché in un momento in cui i Warrant sbancavano le
classifiche con il loro disco d’esordio, i SOA avrebbero avuto
ottime probabilità di imporsi con il loro sound spiccatamente party
oriented, illuminato da un songwriting di straordinaria
efficacia: melodico, spruzzato di funky, agile, stuzzicante. Un
sound, oltretutto, che possedeva anche una certa dose di
originalità, combinando riff ruvidi e flash di tastiere a melodie
fresche e accattivanti. L’unica concessione all’ovvio che la
band si concede è rappresentata da “Could
it be love”, una fine stesura melodica dal carattere però
sfacciatamente Leppardeggiante,
tutto il resto procede in direzioni meno derivative, a partire
dall’iniziale “Cowgirl” un
coinvolgente anthem, non tanto da stadio ma tagliato piuttosto per
uno di quei club losangeleni letteralmente tappezzati di bionde
alte un metro e ottantacinque che portano reggiseni della quarta
misura (quando si prendono il disturbo di metterseli, of
course), subito replicato da “Spend
the night” in un clima più diretto ma con una seconda
parte avvolgente e danzereccia. Ed è proprio nella dimensione più
spiccatamente dance che
la band mette a segno i colpi più notevoli, perché “Trance
dance” e “Fight” sono
fenomenali schegge funky impostate su irresistibili ritmi
danzabili pur senza perdere un grammo di energia ed aggressività
hard rock. “Look out for love” è
ancora funk, come dei Bang Tango più levigati, in cui si va ad
incastonare un morbido bridge AOR che culmina in un lungo assolo,
mentre su “Rock ‘n’ roll star”
il ritmo accelera per uno sfacciato hard rock sospeso tra Queen e
Faster Pussycat. La grande estensione melodica di “Fly”
ci riporta alla penisola scandinava senza gli eccessi pomp a cui
le bands nordeuropee solitamente sottopongono le proprie canzoni,
mentre il comparto ballads è occupato dalla leggiadra “Lonely
rose” e dalla stratosferica “Would
you die for me” grandiosamente Zeppeliniana, drammatica e
molto power. Qualche anno fa, i Sons Of Angels si
sono rifatti vivi con ‘Slumber with the
lion’, un disco che pare risulti da un collage di brani
registrati fra i primi anni 90 ed i nostri giorni, di cui non
posso riferirvi nulla perché, confesso il mio peccato, non l’ho
ascoltato. Ma le recensioni sono state tutte buone, e, come
tradizione, è finito nei dischi a metà prezzo a tempo di record,
perciò...
Immaginatevi un’arena, una di
quei grandi spazi da cinque o seimila posti che si trova in ogni
città americana di dimensioni almeno medie. Immaginatela
gremita di gente che grida, balla, canta: in generale, si agita
allegramente a suon di musica. Alla metà degli anni 80, sul
palco di quell’arena, sotto le luci colorate, ci sarebbero
state ottime probabilità di vedere i Kix. I Kix non sono mai stati dei geni,
dei capiscuola. Non hanno inventato niente, si sono sempre
limitati a ricamare sopra quanto altri avevano già fatto (ma
non necessariamente meglio di loro). Che dormissero con i dischi
degli AC/DC sotto il cuscino lo avrebbe capito anche un sordo.
Che non volessero essere altro che una party band, idem. Benone.
Benissimo. Di party bands vere,
non ce ne sono mai state abbastanza. Ad un certo punto, tutte
desideravano dimostrare di essere capaci di fare
qualcos’altro, oltre che far ballare la gente: è successo ai
Poison, ai Warrant, ai Motley Crue, perfino ai Ratt. I Kix, ben
consci dei propri limiti, non hanno mai voluto spingersi oltre
il riff martellante, il clima anthemico, il coretto glam.
Nonostante i due dischi d’oro per ‘Blow
my fuse’ e questo ‘Hot wire’,
hanno continuato a fare da apripista ai big, accontentandosi del
ruolo di supporter di lusso, senza mai montarsi la testa. Un
tour dietro l’altro, un concerto dopo l’altro, dal 1981,
quando uscì il loro primo album omonimo, la vita dei Kix è
stata praticamente solo questo, qualche mese di sosta per
registrare un disco e poi via, di nuovo on the road. Gli album
erano la scusa per risalire sul bus, il passaporto per i tour
importanti (hanno fatto da supporter, fra gli altri, a Ratt,
Aerosmith, Whitesnake, Judas Priest), o per i tour e basta, se
non erano le arene, allora i club, cento oppure cinquemila
persone non faceva differenza. Ma i dischi? Erano davvero
solo una scusa? No, per fortuna. Al principio, anzi, i Kix erano
un po’ meno festaioli, più metallici, ma col tempo (dopo la
mezza sbandata pop di ‘Cool kids’)
corressero il tiro, aiutati dai produttori, prima Beau Hill, poi
Tom Werman e dopo Taylor Rhodes, ‘Blow
my fuse’ (1988) fu il primo successo vero, mezzo
milione di copie (numero 46 su Billboard), e dopo arrivò questo
‘Hot wire’, nel 1991, che non
ebbe minor fortuna (ma si fermo al numero 64 delle classifiche).
Tra l’uno e l’altro non ci sono grandi differenze, forse ‘Hot
wire’ è solo un po’ più rifinito, ma questi due
dischi fanno quasi corpo unico e coincidono con il periodo più
felice per la band, che il grunge metterà in un angolo perché
divertirsi non era più di moda, dovevi avere un’aria depressa
e disperata anche se ti stavano facendo il solletico sotto i
piedi e avevi appena vinto il primo premio della lotteria. La materia su cui i Kix operano,
l’ho già scritto, è costituita dal patrimonio di riff e
atmosfere degli AC/DC, e praticamente tutte le canzoni di ‘Hot
Wire’ gli pagano dazio. L’intro della title track è
un vero e proprio omaggio ad Angus e soci (tanto per non fare
nomi, sembra fotocopiato da “For those about to rock”...) ma
i Kix sono americani, lavorano nella Città degli Angeli, ed
allora troviamo un tasso di inquinamento melodico gradevolmente
più elevato rispetto alla matrice originale con il singer Steve
Whiteman che può essere ben descritto come una versione
glam di Brian Johnson. Americani, dunque, e fino al midollo, non
a caso su “Girl money” fanno
capolino i sempiterni Kiss, mentre sopra il martellare di “Luv-a-holic”
aleggia una certa ombra Autograph. “Tear
down the walls” è una bella power ballad, autorevole e
molto californiana, mentre “Bump the la
la” (sembra un titolo rubato ai Sweet del periodo bubble gum) accentua felicemente il fattore glam (Bump
the la la / Shake it all night... ah, quei coretti così
stupidi, viziosi e trascinanti...) con un bel ricamo di armonica
nel finale. L’armonica torna su “Rock
& Roll overdose” accompagnando un pregevole
esercizio in perfetto stile Crüe / Ratt. “Cold
chill” svaria con un passo lento, cadenzato, tutto
molto dark alla maniera dell’Ozzy Osbourne anni 80, poi con
“Same Jane” si torna subito al
metal californiano più festaiolo, “Pants
on fire” è un altro glam anthem da urlo (en passant... ve la immaginate una band italiana che intitola una
delle proprie canzoni: “Mutande in fiamme”...? Scherzo: si
tratta di un modo di dire inglese). A chiudere,
preceduta da un divertente ma poco pertinente intro blues di
chitarra e armonica, “Hee bee jee bee
crush”, ancora una furibonda scheggia di metal
losangeleno da stadio. Dopo questo disco ci fu il live
uscito nel 1993, poi l’Atlantic li licenziò, arrivò ‘Showbusiness’
nel 1995, ed uno scioglimento inevitabile. Dal 2004, però, la
band è tornata assieme, senza il leader Donnie Purnell, sostituito da
Mark Shenker, esibendosi saltuariamente negli USA.
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