recensione
Dopo le stranezze di ‘Diamond dealer’ (se non ricordate o sapete, seguite il link per un ripasso), nutrivo qualche aspettativa per questo nuovo album di Steve Overland dopo aver scoperto che la produzione era passata dalle mani goffe e maldestre di Martin Kornlund a quelle geniali di Mike Slamer. ‘Epic’ risulta molto più piacevole di quel disco ma lascia comunque perplessi in più di un frangente, e non risponde ad un interrogativo di base, ovvero: perché Steve Overland insista nel volersi cimentare con l’AOR. Difatti, quando esce dal contesto soul/blues che da tanti anni caratterizza il sound degli FM, la sua voce troppo spesso risulta di una monotonia senza pari: è intonata, certo; è carezzevole, sicuro; ma molte volte diventa anche noiosa, monocorde, piatta. Gli impasti vocali a base di cori e controcori si ripetono con una regolarità metronomica che fa sembrare i ritornelli tutti uguali (e magari non è solo un’impressione…); aggiungiamo poi che le melodie di ‘Epic’ sono prelevate per la più parte dal songbook di FM, Shadowman e The Ladder, così che in sostanza ci ritroviamo a risentire spesso cose arcinote trapiantate su una base di hard melodico, in questa occasione il trapianto è stato fatto in maniera molto meno maldestra rispetto a ‘Diamond dealer’, e la produzione di Mike Slamer è riuscita a vivacizzare un album che è comunque lontano dall’essere perfetto. Le danze vengono aperte dalla melodia fresca e totalmente FM di “Radio Radio” che (l’avrete intuito) niente di nuovo dice, proprio come “Stranded” che prende a prestito invece quanto fatto da Steve sotto il monicker Shadowman. Molto meglio procede “If Looks Could Kill”, col suo bell’arrangiamento policromo che alterna momenti d’atmosfera ad altri quasi anthemici in mezzo a cui si incunea un piacevole refrain ultramelodico. “Rags To Riches” ha un bel riffing vivace, canzone pimpante e divertente, e se Steve fosse riuscito a variare un po’ il suo registro, il risultato finale sarebbe stato ancora migliore. “Liberate My Heart” è bluesy e soft, sempre del tutto FM come “Down Comes The Night”, che è invece robusta, con un riffing serrato ed un pulsare di tastiere molto Toto. Pregevole e vario l’impasto chitarre/tastiere di “If Your Heart’s Not In It”, appesantita però da un canto di Steve veramente monotono. Altra storia su “Rock Me”, un hard blues con pianoforte ed organo Hammond, sinuosa, sexy nel suo crescendo, con un gran bel refrain: qui Steve si esalta, è di nuovo nel suo ambiente naturale, e la sua voce di colpo si fa autorevole e trascinante. “So This Is Love” ha di nuovo un piano martellante alla Toto, una chitarra scoppiettante, e va tutto bene finché non arriva il refrain, che avremo già sentito due o trecento volte sui dischi di FM e Shadowman. Stesso difetto presenta “Wild”, con una piacevole scansione ritmica che si fa ancheggiante nei versi, l’arrangiamento colorato, ma quando si arriva al ritornello, Steve ci spara la solita rifrittura di cose fin troppo note facendo sgonfiare una canzone potenzialmente formidabile. “The End Of The Road” è il pezzo dove sento di più la mano di Mike Slamer, la ritmica nervosa e moderna con tanto di percussioni sintetiche sembra prelevata dal disco di Chris Ousey (che fu prodotto e suonato da Mike), ci sono belle parti d’atmosfera ma al momento del refrain, Steve non trova niente di meglio che plagiare se stesso come aveva già fatto su quasi tutto l’album. ‘Epic’ è un’occasione sprecata? Forse. Mike Slamer ha fatto quello che poteva ma non si può cavare sangue da una rapa. Se Steve voleva rimettersi in discussione nell’AOR doveva cercare soluzioni melodiche diverse, non affidarsi alla sua solita vocalità soul che – è innegabile – gira da anni sempre attorno ai medesimi temi. Paradossalmente, questo disco ha più probabilità di piacere a chi gli FM li conosce pochissimo, mentre anche i fan della band britannica – ed io sono senza dubbio fra questi – non potranno non avvertire una sensazione di deja vu che alla lunga rischia di irritarli o annoiarli.
Sempre più giù: allo sbando, alla deriva. E niente fermerà il tracollo. Parlo… già, di cosa? Certo, quell’etichetta, “industria discografica”, è ormai solo questo. Non c’è più davvero niente, label, distributori, promoters, per non parlare dei dischi… È rimasto solo il caos, un rumore bianco in cui si fatica a percepire alcunché. Una band come gli Steelshine, che vede alla chitarra Dave Henzerling dei King Kobra, non ha una label, e se volete comprare questo album potete solo scaricarvelo da Amazon. Se proprio desiderate un CD, quelli di Amazon molto gentilmente ve lo masterizzano, anche se non si capisce perché uno dovrebbe pagare per un’operazione che potrebbe fare benissimo da solo e a casa propria dopo essersi scaricati gli .mp3. Anche la promozione è inesistente, l’album era fuori fin da giugno, ma io ne ho scoperto l’esistenza solo da pochissimo. E il bello (anzi, il brutto) è che questo è un gran bell’album (non posso dire “un gran bel disco”, dato che non ci sono dischi di sorta, a meno di non farseli, da soli o chiedendo ad Amazon). Forse la colpa è di Dave e compagnia, che hanno preferito fare tutto da soli anziché appoggiarsi a qualcuna delle label superstiti, ma in maniera decisamente maldestra per quanto riguarda la voce “promozione”. Tutto il resto, invece, è davvero rimarchevole, e colloca quest’album ai vertici per quanto riguarda le produzioni di hard rock di tipico stampo americano del 2013. “Laughing With the Sinners” apre le danze con una dose di puro metal da Sunset Strip, lento, cadenzato, duro e melodico, nel segno di Ratt, Keel, Rough Cutt, fate un po’ voi... “Paparazzi”, mi dicono, è la cover di un successo di Lady Gaga: non conosco l’originale, ma qui c’è un riffone zeppeliniano, panneggi di keys sinfoniche ed un refrain solenne ed imponente che fa tanto Scorpions. “Kick It Around” è adrenalina pura nel segno dei WASP, selvatica e maleducata con un rovente assolo di armonica, mentre “Psychedelic Girl” risulta una deliziosa power ballad dall’arrangiamento policromo al crocevia di Warrant, Def Leppard e Danger Danger. Rapida puntata nel Far West con “Ain’t Getting Any Younger”, grandissimo hard southern caldo e polveroso, e immediato ritorno a L.A. grazie a “B.F.A.”, metal de luxe dalle suggestioni Van Halen, con un riff grattante e chitarre nervose. “Rough & Tumble” è senza mezzi termini un masterpiece, boogie metal micidiale che rende questa canzone un party anthem da urlo, sculettante ed irresistibile. “Devil Moon” è, almeno nello spirito, debitrice a quella band superba che furono i Dirty White Boy, un country blues elettroacustico, nello stesso tempo ruvido e suadente, misterioso e spietato, mentre i Warrant fanno di nuovo capolino su “Wrap Your Love Around Me”, un hard melodico dalla melodia fresca ed un refrain dall’anima soul. Gran finale con “Rock ‘N’ Roll Made a Man Out of Me”, un hard ‘n’ roll diretto e anthemico su riff di base AC/DC. A questa prima prova degli Steelshine non manca proprio nulla: ci sono le canzoni, una produzione impeccabile, una resa fonica perfetta. Chiunque ami l’hard rock americano non potrà non trovarlo superlativo. Il vero problema, è far sapere alla gente che esiste. Io la mia parte l’ho fatta, ma se di questa band non si sentirà più parlare, stavolta non potremo tirare in ballo la iella o i gusti strambi di un pubblico che sembra preferire i surrogati scandinavi agli originali yankee. Se gli Steelshine finiranno sotto due metri di terra, insomma, non potremo avere dubbi riguardo il fatto che la fossa se la sono scavata con le loro mani.
Ogni volta che mi metto all’ascolto di questo unico (da quel che so) album dei Red Siren (al principio e sulla copertina del CD, Siren e basta), mi ritrovo vittima di quella che uno psicanalista potrebbe interpretare come una chiara “sindrome conflittuale con il padre”. Non il genitore biologico (che l’AOR non sa neppure cos’è) ma quello – diciamo così – spirituale, almeno limitatamente al campo del rock melodico. Nel mio ricordo dei bei tempi di Metal Shock, ho anche sottolineato con quale e quanta devozione leggessi le recensioni firmate da Beppe Riva, quale illimitata fiducia avessi per i suoi giudizi. Se Riva scriveva che il disco era buono, doveva essere buono, e basta. Se nella recensione il disco veniva da lui equiparato ad una cacca di cane, cacca di cane era, senza discussione. Quando prese in considerazione i Red Siren, nel numero 49 di MS, Riva fece dell’album una recensione tiepida, di certo non entusiastica. La cantante sapeva cantare ma la sua voce era “carente di personalità”, sul grosso del disco la band suonava come degli “Heart in tono minore” e in definitiva il lavoro era consigliato unicamente a “esteti & amateurs dell’AOR”, in quanto giudicato solo “accettabile”. La lettura di questa review, l’avrete intuito, non fu uno sprone a mettermi alla ricerca di ‘All is forgiven’. Me ne dimenticai in fretta, dimenticai una band di nome Red Siren. Anni dopo, frugando fra gli scaffali del solito negozio di CD usati, saltano fuori proprio loro, un ricordo vago dell’ immagine di copertina non mi illuminò però sul contenuto. Per farla breve, presi il CD, perché era venduto a prezzo vile e non avevo trovato altro di stuzzicante o interessante e non volevo andarmene via a mani vuote, sapete com’è... Tornato a casa, seguì la solita ricerca della recensione, e la delusione per non avere tra le mani una lost gem ma solo qualcosa che – a giudizio del mio mentore – era poco più di una mezza ciofeca. Comunque, il CD era lì, ormai, e sentirlo non mi avrebbe fatto danno, forse solo aumentato il cattivo umore. Invece, l’ascolto provocò sopratutto sconcerto, perché mi parve che la band non fosse affatto malvagia e la cantante di personalità ne avesse in abbondanza, addirittura che proprio la sua voce fosse l’elemento più interessante nel quadro dipinto dai Red Siren. Ma Beppe Riva non la pensava così, e allora, chi si era bevuto il cervello, io o lui? D’accordo che in musica c’è ben poco di oggettivo e quello che a me pare sublime ad altri provoca il mal di stomaco, il mal di testa o un colpo di sonno e viceversa, ma quando la tua Guida Illuminata, qualcuno che ha gusti simili ai tuoi e che oltretutto quei gusti ti ha aiutato a forgiarli, ricava da un album un’impressione tanto lontana dalla tua, non puoi che rimanere perplesso e chiederti se c’è qualcosa che a te è sfuggito, se la tua capacità di giudizio non si sia abbastanza raffinata, se dopo aver tanto ascoltato e letto e analizzato tu, in sostanza abbia ancora le idee confuse su ciò che è buono e ciò che è appena passabile... Ebbene, dopo non pochi ascolti di questo disco, io proprio non posso trovarmi d’accordo con il mio mentore. A me, ‘All is forgiven’ pare un album di AOR addirittura sopra la media. Alle voci “arrangiamenti” e “produzione” non gli manca nulla. La vocalità di Kristin Massey, come ho già scritto, mi sembra poi il plus che proiettava questo lotto di canzoni più in alto della concorrenza. Immaginate un incrocio tra Lee Aaron e Alannah Myles, una voce di gola, potente, con appena una punta d’acido eppure sempre suadente, inesplicabilmente calda e gelida nella stessa misura. Forse una punta d’espressività in più nelle interpretazioni avrebbe giovato ma non ne sono certo, perché quella voce aveva un tale spessore da bastare a se stessa, riesce a riempire le canzoni con le sue sfumature sottili e discrete: ascoltarla, insomma, è in sé un piacere (almeno per me, che amo proprio quel tipo di voci, diventate tanto rare nel panorama rock odierno). E le canzoni? Sarebbero buone anche se non le cantasse Kristin Massey, ma con lei dietro il microfono... La title track è solenne, cromata, un arena rock sui generis di grande suggestione, mentre “One Good Lover” possiede un gran ritmo ed una melodia stuzzicante spiegata sul tessuto elettroacustico. “Don’t Let Go” è una power ballad con uno sviluppo classico ed un magnifico crescendo, la splendida “Master of the Land” richiama un po’ gli Headpins con il suo riffing geometrico e linee vocali vicine all’R&B, l’intensità di “Stand Up” risulta invece molto Heart (periodo ‘Heart’ / ‘Bad animals’). Su “Good Kid” abbiamo un telaio di metal cromato ed essenziale a fare da supporto per le evoluzioni vocali di Kristin che culminano in un notevole refrain melodico, poi gli Heart tornano in ballo per la deliziosa “How Dare a Woman”, con la sua melodia fresca corretta con una punta di country & western. Una sofisticata eleganza accomuna “Rock-A-Bye” e “Love Shut Down”, la prima ancheggiante alla maniera degli Headpins su cui spadroneggia quella voce tremendamente sexy e cool, la seconda sinuosa e sensuale nella sua struttura funky AOR. Chiude “So Far Away”, una notevole ballad che guarda ancora all’universo sonoro degli Heart (magari con qualche sfumatura Beatles). I Red Siren non sono l’unica band su cui io e la mia Guida Illuminata non andiamo d’accordo (tanto per fare un altro esempio, lui mandò in paradiso il primo disco dei Vain, che a me non è mai sembrato niente di speciale), ma certo ‘All is forgiven’ resta l’album che mi mette psicologicamente più in imbarazzo nel confronto con questa figura paterna (nell’ambito della critica musicale, of course). Tutti desideriamo, più o meno inconsciamente, approvazione da parte dei genitori, ed il piacere che ricavo da ogni ascolto di questo album temo che continuerà sempre a darmi un vago senso di colpa…
Un'altra band di cui si sa quasi niente, neppure la nazionalità. Anche se registrarono questo loro unico album per una indie label canadese e si fecero produrre dall'altrettanto canadese Paul Dean, pare che venissero tutti dagli USA (l'Oregon, per la precisione, uno degli stati confinanti con il Canada). L'unico dettaglio biografico noto riguarda il bassista, che aveva militato (come chitarrista, però) negli Annihilator all'epoca del primo album. Altro, come detto, non è dato sapere. Ci resta il disco, ed un buon disco, che è poi quello che conta. Comincia un po' in sordina, con un paio di canzoni che fanno pensare a dei Ratt più cromati, "Feel the Fire" e "Blinded" (la seconda con belle marezzature di tastiere), piacevoli ma tutt'altro che memorabili, inframmezzate dalla ballad AOR in crescendo "I Can't Wait", tutta chitarre acustiche e pianoforte, suggestiva e ruvida quanto basta. Il disco si incendia davvero con "Hot N' Cold", party e scanzonata, con riffing e cantato molto Kix, la temperatura si mantiene altissima anche su "Hard As a Rock", dove i ragazzi suonano come degli Autograph più heavy, tra un riff geometrico ed agile, una scansione ritmica fluida ed il refrain di metal da spiaggia. Se "Backside of Love" è un hard melodico deciso che fa tanto Hurricane, "Reach Out" rappresenta il masterpiece dell'album, dipanandosi tra fascinosi chiaroscuri di marca Tangier che sfociano in un refrain cromato di metal melodico, ancora con qualcosa degli Hurricane. Torniamo a L.A. con "One Summer Night", gallopante e un po' Firehouse, ben bilanciata fra aggressività e raffinatezza, "Hold On (Forever Tonight)" è invece una power ballad discreta e ben rifinita a cui fa seguito il martellare totalmente Ratt di "Waiting for the Money", ma anche "Burn Out the Night" prende a riferimento la band di Stephen Percy, più varia e divertente della track che la precede e con il plus di un assolo spettacolare. In chiusura, "Bad Girls" è di nuovo metal da spiaggia, ma alla maniera dei Van Halen (quelli di D.L. Roth, naturalmente), su cui spicca il contrappunto delle tastiere. In definitiva, 'Hard as a rock' era un lavoro di discreta caratura, ben prodotto ma inevitabilmente destinato all'oblio nella combattutissima scena rock yankee dei primi '90. Oggi gira su eBay a cifre nell'intorno dei quaranta dollari, quotazione che ne indica senza equivoci la rarità ed il fatto che ad oggi nessuna label specializzata in ristampe lo abbia preso (purtroppo) in considerazione.
Non posso dire che Adrian Vandenberg sia uno dei chitarristi per cui ho mai provato chissà quale stima o soverchia passione. Ho sempre considerato l’incidente che gli impedì di suonare su ‘Slip of the tongue’ più un colpo di fortuna che un infortunio, dato che lasciò campo libero a Steve Vai su quell’album e con quali, stratosferici risultati è superfluo ricordarlo. Su ‘Restless heart’ offrì una prova poco significativa, in certi momenti addirittura deprimente (ma era poi tutta colpa sua se il songwriting di quel disco era così debole?), molto meglio fece sull’unico album dei Manic Eden (per saperne di più, seguite i link), poi di lui persi le tracce, me lo immaginavo da qualche parte nella natia Olanda, magari a strimpellare in qualche cover band degli Whitesnake... Invece, eccolo qui con un nuovo moniker ed un lotto di canzoni molto interessanti. Nella band si segnala positivamente (molto positivamente) il cantante, Jan Hoving, una specie di David Coverdale più acuto (parliamo del Coverdale dei tempi d’oro, naturalmente, non di quello che canta – come può – l’ultima canzone del disco), un vocione straripante che si incastra alla perfezione al centro del materiale sonoro imbastito da Vandenberg, con un’irruenza che in certi momenti richiama altri notevoli Coverdale clones come Paul Sabu e sopratutto Ken Tamplin. L’iniziale “Lust And Lies” sembra ripresa dal disco dei Manic Eden, aggressiva con basso e chitarra sporchissimi in perfetto stile anni ‘70, e in quella decade restiamo con “Close To You”, una interessante variazione sul tema di “Black Dog” ma con refrain e bridge melodici alla vecchi Whitesnake e assolo tirato. "Good Thing" ha un ritornello solare incastonato fra piacevoli chiaroscuri ed un bello smalto soul nelle melodie vocali mentre “Breathing” ci porta nel rock melodico attuale con una eccellente power ballad alla Shinedown / Black Stone Cherry arricchita da archi e keys. Ritorno ai ‘70 con “Steal Away”: un altro riffone tagliato con l’accetta e il singer che imperversa sopratutto grazie al notevole refrain. Su “Line Of Fire” rientrano in campo i vecchi Whitesnake in una versione più ruvida e heavy ma con una grandissima cifra melodica (con un risultato finale che mi ha ricordato in qualche modo anche gli Snakes in Paradise). “Out Of Reach” percorre gli stessi sentieri moderni di “Breathing”, ma è più morbida e suadente, “Feel It” e “Leave This Town” richiamano invece le atmosfere grandiose dei Beggars & Thieves, “One Step Behind” è un’altra power ballad, impostata in questo frangente su un classico telaio elettroacustico zeppeliniano, e da quelle parti restiamo per “Leeches”, con il suo riff essenziale ed i piacevoli tocchi funk, mentre “Nothing Touches” è un hard’n’roll semplice e diretto. Chiude l’album “Sailing Ships”, proprio quella di ‘Slip of the tongue’, che vede dietro il microfono David Coverdale in persona. Purtroppo, come ho sottolineato nelle recensioni dei due ultimi album degli Whitesnake, è nel registro basso che la voce di David oggi è ridotta male, e “Sailing Ships” richiede proprio quelle armoniche che dall’ugola di David Coverdale escono tutt’altro che perfette. L’interpretazione, alla fine, è dignitosa e nulla più, e non ammette confronti con quanto inciso ventisei anni fa, anche perché la canzone è proposta in una versione per chitarre acustiche e tastiere che la rende sognante e romantica, ma tralascia tutti i sublimi chiaroscuri tessuti dal sitar e dalla chitarra elettrica di Steve Vai, il crescendo, la seconda parte maestosa e potente e quell’acuto finale che ormai è (temo) fuori dalle possibilità vocali di David. Non posso, naturalmente, fare a meno di chiedermi se non fosse proprio questa la veste originale che “Sailing Ships’”doveva prendere su ‘Slip...’. E, se l’ipotesi fosse esatta, rallegrarmi ulteriormente per l’infortunio che mise fuori gioco Vandenberg e permise a Steve Vai e David Coverdale (per tacere di Mick Clink e Keith Olsen) di creare un capolavoro assoluto. Messo da parte questo poco accorto tentativo di rinverdire glorie passate, ci restano dodici, ottime canzoni che se non proiettano Adrian Vandenberg nel settore dell’empireo riservato ai grandi chitarristi ci consegnano perlomeno un tre quarti d’ora di hard rock molto ben fatto.
Questa band è stata per me la prima, vera bella sorpresa del 2014. Hanno tutti i numeri per diventare delle superstar, ed io forse, un giorno, potrò addirittura vantarmi di averli scoperti prima degli altri. L’anno scorso mi avevano dato una scossa del genere i Burning Crows, li recensii per Classix!, questi invece sono tutti in esclusiva per i miei fedeli lettori (se esistono, come mi auguro), anche perché la rivista non può darmi un paio di pagine per scrivere di un solo album e rinchiudere questo ‘Badlands’ in poche righe non si può, non è giusto, non si deve. I Cage The Gods sono britannici, incidono per un’etichetta americana ed hanno un cantante – l’irlandese Peter Comerford – che è una sorta di Jon Bon Jovi più selvatico e per nulla retorico nelle sue interpretazioni. La loro bravura (la loro grandezza?) sta nella capacità che posseggono di fondere (ma proprio fondere) l’hard rock degli anni ‘80 e quello dei nostri giorni, senza che si riesca mai a percepire una linea netta di divisione, un confine preciso, una sia pur minima giuntura. In queste dodici canzoni c’è un’autorità, un’impressione di “mestiere” addirittura stupefacente per degli esordienti (e se consideriamo che ‘Badlands’ è stato inciso in totale autarchia dalla band nella casa del chitarrista James ‘Jam’ Moncur, lo stupore diventa quasi timor panico), ed una sicurezza nel forgiare la materia che si può definire solo con una parola: talento. Che altro pensare quando parte “Favourite Sin” e si viene immediatamente travolti da quella trama ritmica funkeggiante, convulsa e fluida nello stesso tempo, che sembra ispirata dagli ZZ Top più cromati (quelli di “Give it Up”, per esempio) e dagli ultimissimi lavori degli Whitesnake, in cui si insinua un refrain un po’ sleaze un po’ street alla maniera dei Tora Tora o dei Babylon A.D.? “The Ending” è moderna nello stile degli ultimi Bon Jovi, e anche qui sento qualcosa dei Tora Tora, sopratutto nella bella melodia del refrain, mentre “Sacrifice” parla la lingua del più classico hard rock americano, un po’ southern, con i nostri che sembrano dei Black Crowes più aggressivi o dei Tesla più sudisti. La ricetta di “The Ending” viene replicata sulla title track, con una cifra melodica ancora più Bon Jovi, poi irrompe “Trouble Reigns”, cupa, heavy, decisamente moderna ma con vocals di pretta matrice ottantiana. Giro di valzer con “Bruce Willis”, hard blues e southern, ruvido, polveroso, grandissimo, mentre “Falling” è un’altra incursione nei temi dell’hard rock moderno, condotta da una chitarra pulsante, un’alternanza di momenti ipnotici e furibondi scoppi di energia. L’apoteosi la raggiungono “A Thousand Times” e “One More Taste”, l’ideale crocevia di vecchio e nuovo, come fondere nello stesso crogiolo Shinedown e Dirty White Boy, la seconda con un fenomenale sovrapporsi di riff presi dal songbook di ZZ Top e U2 (e un risultato finale non tanto dissimile da certe cose degli Steelhouse Lane). Gli Shinedown tornano a farsi sentire sulla power ballad (più elettrica che acustica) “What’s Left Of Me”, ma ibridati con il gusto melodico dei Big 80s, e sulla stessa rotta ma con più velocità ed energia procede “Promises”. Chiude “From The Start”, un hard rock senza tempo impostato su un altro telaio vincente di riff, dal flavour bluesy, ancora un po’ Black Crowes. Non bisogna essere spiriti particolarmente avventurosi per apprezzare i Cage The Gods, ma certo, se ritenete che l’ultimo grande album di musica rock comparso sulla Terra sia il primo dei Led Zeppelin o ‘Wheels of Fire’ dei Cream ed i musicisti di oggi abbiano come unico compito quello di fotocopiarli all’infinito, fino ad impazzire (come pare abbiano intenzione di fare The Answer o i Graveyard), forse ‘Badlands’ non è pane per i vostri denti. Se invece credete che l’hard rock abbia un futuro anche lontano dalle più becere e patetiche operazioni di revival, che si può davvero guardare avanti senza doversi lasciare dietro le spalle tutto quello che è venuto prima, i Cage The Gods saranno una rivelazione.
Ma quant’era bellino Johnny Van Zant sulla back cover di questo disco, con la faccia liscia ed una pettinatura di riccioloni cotonati in puro stile metal californiano… Già, perché prima di rimettere assieme i Lynyrd Skynyrd e prendere il posto del defunto fratello maggiore Ronnie dietro il microfono, Johnny era un artista AOR, e con una discreta discografia alle spalle, quattro album a partire dal 1980, i primi tre con il moniker Johnny Van Zant Band, il quarto siglato “Van Zant” e basta. La carriera solista non dovette dargli grosse soddisfazioni (economicamente parlando), così nel 1987 ci fu la resurrezione del glorioso moniker, doveva essere solo un tour in ricordo di Ronnie a dieci anni dalla sua morte ma la risposta del pubblico fu tale da spingere Johnny ed i superstiti degli Skynyrd a rifondare stabilmente la band (con strascico di polemiche a causa della ferma opposizione della vedova di Ronnie), si cominciò a parlare di un nuovo disco in studio che, a causa degli strascichi di cui sopra, prenderà forma solo nel 1991; l’anno precedente, per sfruttare comunque la ritrovata celebrità del marchio Skynyrd, Johnny aveva pubblicato un nuovo disco solo, ‘Brickyard Road’, ottenendo stavolta un più che discreto riscontro (la title track fu al numero uno della U.S. Mainstream Rock Chart di Billboard per tre settimane), ma l’AOR era ormai solo un ricordo per il nostro, tutto preso dal suo nuovo personaggio di rude rocker sudista. Dunque, i primi album solisti non proiettarono Johnny nell’empireo del rock, ma erano più che discreti prodotti discografici, l’ultimo prima del ritorno a Jacksonville è senza dubbio il migliore del mazzo, non un capolavoro di quelli da prendere come punto di riferimento ma, ripeto, una raccolta di canzoni tutt’altro che da dimenticare, l’unico vero punto debole di ‘Van Zant’ stava nella assoluta mancanza di personalità del prodotto, praticamente ogni scheggia dell’album rimandava al sound di questa o quella band, esagerando anche un po’ nell’iniziale “Midnight Sensation”, divertente ma senza dubbio sfacciata nel suo ricalco della “Jump” di Vanhaleniana memoria. “She's Out With a Gun” e “You've Got to Believe in Love” seguivano le orme dei Loverboy nei loro momenti più vellutati (la prima, con un grande refrain), ma anche “2+2”, col suo squisito intreccio di metal e pop music, rimanda senza equivoci alla band di Mike Reno. Se “I'm a Fighter” era un class metal cromatissimo, “Two Strangers” esplorava l’universo del rock da FM con lo stesso spirito di Bryan Adams, e sulla stessa falsariga, ma con un vago, indefinibile flavour Southern, procedeva “Right on Time”, solida e ariosa nello stesso tempo. “Heart to the Flame” è la stessa che due anni dopo farà Jeff Paris sul suo inestimabile ‘Wired up’: la versione di Jeff mi pare nettamente superiore a questa – per l’arrangiamento, la produzione, l’intensità dell’interpretazione – è come se Johnny e compagnia non riuscissero a spremere dalla canzone tutto il suo potenziale, finendo per sembrare semplicemente dei Surgin’ meno ruvidi. “Does a Fool Ever Learn” è un impeccabile esercizio di stile Autograph mentre “Lonely Girls” chiude l’album con del classicissimo AOR contraddistinto dall’eccellente impasto chitarre / tastiere. Pubblicato da una indie label canadese, ‘Van Zant’ mi risulta mai ristampato, non è proprio una rarità ma neppure uno di quegli album che su eBay praticamente regalano a novantanove centesimi di dollaro. Non è uno di quei dischi da scapicollarsi per averlo, ma se vi ci imbattete a buon prezzo, fateci almeno un pensiero.
Quando i Doc Holliday esordirono, nel 1981, il southern rock pareva già un genere musicale sul viale del tramonto. Eppure, il primo disco omonimo della band (prodotto da Tom Allom e pubblicato dalla major A&M) arrivò nei Top 30 della Billboard Rock Chart ed un risultato altrettanto buono ottenne (sempre nell’81) il successivo ‘Doc Holliday Rides Again’, permettendo ai ragazzi di aprire per molte band prestigiose (The Outlaws, Black Sabbath e Loverboy, fra gli altri) durante vari tour negli USA. Ma la convinzione che il rock del sud avesse ormai i giorni contati spinse i Doc Holliday a cambiare pelle e ripresentarsi nel 1983 con un disco, 'Modern Medicine', che strizzava l’occhio all’AOR keyboard oriented del periodo, lasciando praticamente da parte il Southern propriamente detto. Il pubblico non apprezzò la svolta AOR e le vendite disastrose portarono addirittura allo scioglimento la band, anche se solo per poco tempo. Nel 1986, difatti, ci fu la prima reunion ed un nuovo album, ‘Danger Zone’, pubblicato però solo in Europa, per l’indipendente Metal Masters. Con questo disco i Doc Holliday sembravano voler dare un colpo al cerchio dell’hard melodico ed un altro alla botte del southern, recuperando una parte del loro classico sound ma insistendo nel proporsi al pubblico del genere che spopolava le classifiche USA in quegli anni d’oro. Così, la title track apriva l’album con un bell’impasto tra Kiss e Toto, aggressiva e metallica, mentre “Ready to Burn” sparava un metal californiano quintessenziale un po’ alla maniera dei Crüe, ma appesantito da un’atmosfera cupa. Ben altro clima su “Redneck Rock and Roll Band”, galoppante boogie southern da saloon, con un corretto coro femminile e parte solista divisa tra pianoforte e chitarra, seguito dall’altrettanto eccellente “Run to Me”, un country & western cromato tramite una bella melodia AOR. Ancora southern, breve e vivace, con “Southern Girls”, mentre “Automatic Girl” era un hard funk rauco e vibrante e “Tijuana Motel” due minuti di hard’n’roll strumentale, scanzonato e divertente. Il momento più significativo del disco arriva con “Thunder and Lightning/Into the Night”, quasi sette minuti potenti e epici in cui i Doc Holliday riescono nella missione apparentemente impossibile di fondere nello stesso telaio Lynyrd Skynyrd, Triumph e Rainbow. “All the Right Moves” sarebbe un grande anthem alla AC/DC se solo il ritornello dondolante non ricalcasse in maniera tanto sfacciata quello di “I Love Rock and Roll”, mentre “Easy Goin' Up” chiudeva il disco con una piece acustica e westcoast. Nella ristampa del 2001 vennero aggiunte due bonus tracks, una ripresa live di “Redneck Rock and Roll Band” e la cover di “Rollin' and Tumblin'” di Muddy Waters (anche questa dal vivo). Purtroppo per loro, ‘Danger Zone’ non riuscì a riportarli nei quartieri alti di Billboard (e neppure in quelli bassi, comunque), dandogli però una più che discreta notorietà nel vecchio continente, al punto che tutta l’attività live della band è rimasta concentrata fin dalla fine degli anni ’80 in Europa. Gli album successivi hanno poi riportato i Doc Holliday al southern puro e duro (l’ultimo di studio nel 2006, un live nel 2008), nel 2011 c’è stato un tour d’addio che ha girato Germania, Francia, UK, Svezia e Belgio ed ha scritto la parola fine all’avventura di una band che spesso viene catalogata fra quelle di retroguardia ma pagò solo una scelta malaccorta in fatto di direzione musicale che finì per relegarli ad un mercato marginale per il Southern: senza dubbio, meritavano di più.
Nuovo album per gli H.E.A.T, una delle migliori band AOR uscite dalla Svezia negli ultimi anni. Peccato che con questo ‘Tearing Down The Walls’ non si possa parlare più di vero e proprio AOR in relazione agli H.E.A.T. Su ‘Tearing…’, difatti, la band alza di brutto il volume delle chitarre, creando un muro di suono anche grazie ad un mixaggio spavaldo e al limite dell’assordante, e mi pare che questa scelta più che altro penalizzi le canzoni, non tutte ispirate e convincenti come sul precedente ‘Address The Nation’. L’iniziale “Point Of No Return” è esplicita nell’annunciare il cambiamento di rotta: dopo l’intro lirico e suggestivo entriamo difatti in un clima di grandeur aggressiva un po’ alla House Of Lords, dominato dal bell’impasto tra chitarre e tastiere. L’eccellente “A Shot of Redemption” è un rude anthem dal flavour western che fa tanto FM, mentre “Inferno” è durissima, incalzante, con il bel refrain melodico a dare un po’ di ariosità. “The Wreckoning”è uno strumentale d’atmosfera che porta direttamente nella title track, con una linea melodica classica, un po’ Beatles, inserita a forza in un tessuto davvero troppo heavy che finisce per svilirla con un arrangiamento inutilmente pesante, e lo stesso difetto (almeno, alle mie orecchie suona come un difetto) ha “Mannequin Show”, anche questa debitrice degli House of Lords. Più equilibrata mi risulta “We Will Never Die”, che si rifà ancora agli FM con le sue tentazioni bluesy ed il refrain sempre molto anthemico. “Emergency” è agile, spettacolare e con la solita freschezza melodica (ma anche più svedese del solito), “All The Nights” è invece una ballatona drammatica per archi e piano che un’interpretazione meno enfatica del cantante avrebbe sicuramente nobilitato. Molto interessante “Eye For An Eye”, dove i ragazzi suonano come dei Ratt più pomposi, cromati e melodici, decisamente sul moderno vira invece “Enemy In Me”, che ha un gran ritmo ed un refrain di chiara marca Halestorm (se non sbaglio – e se sbaglio, la vita va avanti lo stesso… – lo hanno prelevato da “Freak Like Me”). Chiude l’album “Laughing At Tomorrow”, un altro anthem dal refrain corale e urlato. Questo cambio di rotta, ripeto, mi ha lasciato perplesso in più di un episodio di ‘Tearing Down The Walls’. Con ‘Address the Nation’ avevano raggiunto un equilibrio invidiabile negli arrangiamenti e messo a punto una ricetta melodica deliziosa e policroma. Su ‘Tearing…’ li ritroviamo invece anthemici ed heavy, con Erik Gronwall che strilla come un forsennato praticamente dal principio alla fine. Qualunque cosa volessero dimostrare con questo cambio di passo, a mio parere non ci sono riusciti.
Nome collettivo adottato dai soggetti in esame (leggi: moniker della band): Gypsy Rose. Nazionalità: canadese. Titolo dell’album: ‘Prey’. Data di uscita: 1990. Questo è tutto quanto so di questa band e della sua unica testimonianza discografica. Come bio è scarsina, me ne rendo conto, ma l’unica cosa che varrebbe davvero la pena sapere riguardo i Gypsy Rose è perché una band così capace ed ispirata sia scomparsa dalla circolazione senza lasciare la minima traccia e neppure un ricordo sbiadito del proprio valore. D’accordo, l’ho scritto io stesso chissà quante volte: erano tante, erano maledettamente troppe, dopo quasi trent’anni ancora non posso vantarmi di averle ascoltate tutte, e con tutta la roba che viene di continuo esumata dagli archivi di certo non potrò dirlo mai, ma quando ti imbatti in un’entità formidabile come i Gypsy Rose davvero non puoi fare a meno di chiederti come è possibile che il pubblico sia stato così sordo o tonto da ignorare una band del genere; una band che, nonostante la nazionalità canadese, aveva un sound di netta marca yankee, dimostrando in ben quattro episodi di questo ‘Prey’ una notevole attitudine per quello più metallico e californiano codificato dai Ratt: difatti, su “Poisoned By Love”, “Borderline”, “Love Me Or Leave Me” e “Wild Reaction” i ragazzi si esercitavano con un’eccellente misura sugli stilemi metal/pop codificati da Stephen Percy e compagni, aumentandone il tasso d’inquinamento melodico con risultati eclatanti. E non era certo finita qui… La grandissima “Crawlin’” filtrava la grandeur zeppeliniana attraverso il suono country & western cromato dei Tangier era ‘Stranded’, mentre l’altrettanto magnifica “Blood ‘N Sweat” – lenta, notturna, agrodolce – si realizzava tramite un intreccio di chitarre acustiche, squarci elettrici fascinosi e taglienti ed un sottofondo irrequieto di organo Hammond. “Make Me Do Anything You Want” poteva far gridare al miracolo con il suo flavour alla Bon Jovi – quelli più spettacolari, da arena rock ma sempre piacevolmente ruvidi – in equilibrio impossibile fra l’anthem e la power ballad, mentre “Shiver Then Shake” possedeva tutta la torrida carica sleaze dei migliori L.A.Guns. La ballad di rigore era “Don’t Turn Your Back On Me Now”, ancora un po’ Bon Jovi, delicata ma tramata di fiammate power, calda ed ispirata, mentre in chiusura c’era l’hard metallico e bluesy, molto Babylon A.D., intitolato “Highway-One-Way”. Le quotazioni di ‘Prey’ (in CD) sui soliti siti web sono le più varie, l’ultima volta che ho controllato si partiva da sei dollari per arrivare a cinquanta, con un po’ di attenzione e pazienza si può dunque trovarlo a prezzo più che abbordabile e chiunque ama il grande hard melodico dei Big 80s non può farselo mancare.
Pubblicato durante il periodo più buio per il rock melodico, quest’album rappresenta l’unica testimonianza lasciataci dai canadesi Distant Cry, ed è tempo perso chiedersi perché una band formidabile come questa sia svanita nel nulla mentre tanti strimpellatori continuano imperterriti (e magari acclamati) la loro carriera sfornando un disco (schifoso, inutile o patetico) dopo l’altro. Della loro bio non so un accidente, solo che collaborarono per un po’ con Phil Naro prima di scomparire nel nulla. Ci resta questo album omonimo, e che album! I Distant Cry avevano la (rara) capacità di fondere le cose migliori dell’hard rock dei ’70 (versante Deep Purple e Bad Company) con l’hard melodico ottantiano, e lo facevano in una maniera sublime, rendendo ogni loro canzone un’operina d’arte grazie ad una produzione ed arrangiamenti variegati, densi, in ogni track c’erano riff, lick, accordi, armonie e linee melodiche bastanti per farci un disco intero, l’ascolto di ‘Distant Cry’ diventa un’avventura, si viene letteralmente trascinati e quando pensi di aver intravisto la direzione della canzone la band fa una brusca sterzata e ci si ritrova meravigliati a contemplare un altro panorama. Il viaggio comincia con “Cold Shock”, con un riff avvolgente di chiara estrazione ‘70s che scivola sullo sfrigolare dell’organo Hammond prima che entrino le vocals vellutate sul tappeto delle keys, in una sintesi quasi perfetta di hard Purpleiano e AOR anni ’80. “Missionary Woman” è introdotta da un pianoforte caldo e malizioso a cui fanno seguito le evoluzioni di una chitarra cromatissima su un lontano sfondo di tastiere prima del refrain funky. Andamento lento per la straordinaria “Lyin' Eyes”, condotta da chitarre funky e bollenti, che prende slancio nel ritornello. Elettroacustica, suggestiva e policroma, “Last Goodbye” ci porta di botto nei territori cari ai Bad Company (e le affinità a livello vocale del cantante Pat Sciulli con sua maestà Paul Rodgers aiutano non poco l’atmosfera), e in quelle stesse regioni restiamo con “One for All”, che per irruenza e calore può ricordare anche i vecchi Whitesnake. “Chain of Love” è una ballad che muta sorprendentemente, da delicata con i suoi ricami acustici di sapore classico sulle keys AOR, si fa power ed insinuante, torna di nuovo soft e si chiude con vocalizzi quasi soul: grande. E grande è pure “Love Maker”, col suo riffone diretto attorno a cui si dipana un raffinato gioco di chitarre e tastiere sempre mutevole, con la stessa ricetta viene poi cucinata (e sempre in maniera sopraffina) “Holy Water”, dove il riff è tagliente e la band riesce nello spazio di qualche battuta a passare dall’AOR più patinato all’hard rock più diretto. “Nice and Slow” è semplicemente straordinaria, prima galoppa, poi rallenta il passo diventando sinuosa, procede imprevedibilmente fra marezzature AOR e flash di riff zeppeliniani per un’altra interpretazione ispiratissima del sound di Bad Company e Free. L’effetto live riscalda al calor bianco “Know Me Better”, un riff potente, essenziale e sempre di matrice Bad Company si scioglie in un amalgama chitarre /tastiere dal sapore funk nel bel refrain, con un assolo di chitarra totalmente Blackmoore. Il funk, ma più stemperato, domina anche su “Crawl”, dove risaltano i lampi di organo Hammond e conclude il tutto l’omaggio (inevitabile?) di “Hush” impeccabile cover della cover che dette ai Purple il loro primo hit in USA. Non si vedono molte copie in giro di ‘Distant Cry’, in compenso il prezzo è sempre basso, rendendo accessibile a tutti l’acquisto di un’autentica lost gem.
Arriva un po’ in ritardo rispetto all’uscita dell’album, questa review, ma il vostro webmaster ha avuto bisogno di ascoltarselo bene, ‘Better Days Comin’’, per poterne dare un giudizio equilibrato. Il primo impatto è stato fortemente negativo perché, mi sono reso poi conto, mi aspettavo un album che riecheggiasse ‘Karma’ al cento per cento, mentre ‘Better…’ prende da quel disco ma anche (sopratutto?) da ‘IV’. È più scuro di ‘Karma’, più heavy, meno “facile”, ma resta un grandissimo album di una grandissima band. Parte fortissimo con “Midnight Driver of a Love Machine”, party metal per il ventunesimo secolo, fresco, divertente, dal gran ritmo, ma di festaiolo non c’è altro, ‘Better…’ si snoda principalmente nei territori del class metal, un class spesso cupo ma spezzato sempre da refrain divini (“Queen Babylon”, “So Long China”), imbastito tramite complesse tessiture di riff (“Storm in Me”, con i suoi flash di tastiere, e la voce di Kip filtrata sul ritornello ritmato). Anche qui non manca un episodio atipico come il blues “After All This Time” fu per ‘Karma’, rappresentato in questa circostanza dalla title track, che viaggia su una chitarra pigra, sinuosa, solare approdando ad un refrain funky che sembra preso dal songbook di Kool & The Gang o degli Chic: grande canzone, ma che senza dubbio fa a pugni con tutto il resto. Se “Rat Race” è un classico metal californiano, feroce ma sempre raffinato nel riffing, con refrain in tema, “Tin Soldier” è impostata su un fraseggio chitarre/tastiere decisamente prog, sprezzato da improvvise irruzioni di melodia straniante ed un assolo proiettato su evoluzioni ritmiche jazzate, mentre la ballad “Ever Wonder” è caratterizzata dai suoni gelidi delle keys e da un ritornello semplice ed efficace. “Be Who You Are Now” è un trionfo di atmospheric power, tra chitarre cristalline, tastiere e sezioni d’archi, lenta, maestosa e leggiadra nello stesso tempo e a chiudere ci sono i sei minuti e mezzo di “Out of This World”, uno straordinario mosaico di dolcezza e ferocia, melodie serene e riff inquietanti e due assoli strepitosi di Reb Beach. In definitiva, un album che, lo riconfermo, è un po’ meno accessibile in certi frangenti rispetto a ‘Karma’, ma prova per l’ennesima volta la statura di una band che rappresenta un imprescindibile punto di riferimento nel panorama troppo spesso desolante dell’hard rock contemporaneo.
Immaginate dei lunghi, lunghissimi corridoi. Le pareti dei corridoi sono tappezzate interamente di scaffali. Sui ripiani, bobine di nastro magnetico: a centinaia, a migliaia… Potrebbero trovarsi, quei corridoi, nella sede di una major label, o una etichetta indipendente o anche un’agenzia di management. In quelle bobine sono custodite lo registrazioni di album celebri o poco noti, capolavori o miserabili ciofeche, ma anche musica che per i motivi più vari non è mai stata pubblicata: inediti di band famose e il frutto degli sforzi di gruppi che sono rimasti del tutto sconosciuti. Chiedersi perché tanta e tanta roba non è mai stata edita è tempo perso: i motivi potevano essere ottimi, risibili o scandalosi (in quest’ultima categoria si può inquadrare la vicenda dell’unico album dei China Rain: per saperne di più, seguite il link), conta solo che quella manciata di canzoni è rimasta inedita. Da quando l’industria discografica ha cominciato ad andare a picco, funzionari di label grandi e piccole sempre più di sovente se ne vanno a spasso disperati in quei corridoi a frugare e cercare roba da pubblicare a costo zero, il più delle volte millantando il parto di una band di caratura tutt’altro che eccelsa come un capolavoro ritrovato o gettando in pasto ai fan inutili rough mix di album celeberrimi afflitti da una resa fonica schifosa (in questo particolare settore, credo nulla batta gli inediti dei Bad English, assolutamente inascoltabili per via di una qualità audio meno che infima e che nessuno ha avuto il coraggio di pubblicare in via ufficiale, anche se da anni girano come bootleg). Ogni tanto, però, qualcosa di buono, di veramente buono, salta fuori. Come questo materiale dei The Storm che la Retrospect Records raccolse diversi anni fa, selezionando tra le canzoni contenute in due demo incisi (pare) nei primissimi anni ’90. Diciamo subito che la qualità dell’incisione non è affatto da demo, e c’è ragione di credere che la band avesse registrato queste canzoni in autonomia offrendole poi in giro per la pubblicazione: senza successo, ovviamente. Perché? Dio lo sa… Naturalmente, non stiamo prendendo in esame la band di Kevin Chalfant e Greg Rolie, ma una sua omonima (oltretutto attiva negli stessi anni) che poteva contare su una duplice presenza femminile, alla voce ed alle tastiere. La proposta musicale era improntata all’AOR hard edged, e se i The Storm non si sforzavano troppo nel cercare di distinguersi in mezzo al panorama del rock adulto di quegli anni, riuscivano in compenso a trovare un songwriting particolarmente efficace. Apre l’album “Leave Well Enough Alone”, con un ritornello dall’andamento galoppante che si incunea in spazi rarefatti e d’atmosfera, per un effetto generale che rimanda in pari misura agli Heart ed ai Witness: la voce della cantante, Kristina Nichols, ricorda in effetti quella di Debbie Davis, bella e potente e assolutamente rock. Scontata ma piacevole si rivela “I'll Be Lovin You”, una piece melodica dall’andamento molto Survivor, mentre nel vivace AOR intitolato “Hold On” il riferimento sono senza dubbio i Journey. “Keep This Love Alive” è sensuale, notturna, misteriosa, con un bellissimo crescendo, e quasi sulle stesse atmosfere viene giostrata l’altrettanto ottima “Sweet Surrender”, che fa pensare a degli Autograph più sofisticati. “Do You Wanna Know” è un serrato pop rock di buona caratura, con il suo basso pulsante ed una chitarrona rock sulle keys vellutate. Più elettriche le due track seguenti, “Walk the Line”, dinamica, con un entusiasmante refrain da arena rock, e “Broken”, drammatica e intensa (ma su quest’ultima canzone c’è un deciso capitombolo per quanto riguarda la qualità audio). “The Last Time” trova di nuovo la band sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda dei Survivor (ma con un bridge melodico nettamente Journey), ed ha un bel refrain battagliero, mentre a chiudere arriva “Someone to Love”, classico AOR perfettamente bilanciato fra chitarre aggressive e tastiere cristalline. Questa piccola gemma del bel tempo che fu è stata pubblicata nel 2010 ed è ancora reperibile in giro a prezzo onesto, e rappresenta senza dubbio una chicca per chi ama quelle voci femminili intensamente rock che nell’attuale panorama AOR sono ormai diventate una rarità.
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