AORARCHIVIA

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WINGER

 

 

  • SAHARA (1988)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:buona

 

Uno dei passatempi preferiti dei musicisti è sputare sulla propria produzione passata e magnificare oltre ogni decenza quella fresca di stampa. Avrò letto fino ad oggi forse un migliaio di interviste, e non ho trovato MAI qualcuno che accostasse per bellezza, grandiosità o quant’altro l’ultimissimo album - che aspettava di essere acquistato negli scaffali dei negozi - al disco uscito magari solo un anno prima: quello (e tutti gli altri che l’avevano preceduto) era pura merda, ma non per colpa della band (ovviamente). Il più classico capro espiatorio per quell’immane disastro che invariabilmente è stato il penultimo album è sempre il produttore, poi viene la casa discografica, lo stess da tour, il manager, qualche ex compagno fraterno diventato acerrimo nemico, e via così. Il più delle volte non ci si ingegna neppure a trovare una spiegazione più o meno razionale: i vecchi dischi, semplicemente, fanno schifo e basta, mentre l’ultimo è un capolavoro da ascoltare a occhi, bocca e orecchie spalancate. Se qualche incauto intervistatore si azzarda a ricordare all’intervistato che le stesse, identiche parole erano state spese l’anno prima per mandare alle stelle il disco ora rinnegato con orrore e/o disgusto, si ritroverà trattato come minimo con freddezza, accusato di essere un provocatore, e poi, magari, minacciato di non venire mai più convocato al cospetto dei musicisti della casa discografica che ha avuto l’onore di pubblicare il nuovo masterpiece, e - sopratutto - privato dei pass per i concerti e dei promo-CD, ossia le uniche cose che possono indurre qualsiasi individuo dotato di normali facoltà mentali a intraprendere il fetentissimo mestiere di giornalista musicale (fanno eccezione i signori che lavorano per i quotidiani, naturalmente: per loro, il mestiere è tutt’altro che fetente; e qui mi fermo...). Neppure Kip Winger è sfuggito a questo delirio da marketing: quando, diversi anni fa, intervistato in occasione dell’uscita del suo primo album solista, dichiarò che i primi due album del gruppo che portava il suo nome non rispecchiavano minimamente ciò che voleva fare davvero e che la responsabilità per quell’indirizzo musicale era tutta del chitarrista Reb Beach, lui aveva un’anima soft, gli interessava molto di più sussurrare languidamente che urlare a squarciagola. Premesso che lambiccarsi sulla reale sincerità delle dichiarazioni di un musicista mi pare un esercizio quanto mai futile, e ammesso e non concesso che il nostro Kip dicesse la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, bisogna ammettere però che urlare a squarciagola gli riusciva dannatamente bene, e che il suo cantato nient’affatto soft è uno degli elementi cardine di quello che si può a ragione ritenere uno dei cinque più grandi dischi di class metal mai incisi ( gli altri quattro? posto che questo genere di classifiche lasciano sempre il tempo che trovano, per il sottoscritto sono: ‘Under lock and key’ dei Dokken, ‘Out of cellar’ dei Ratt, il primo dei Firehouse e il primo degli Hurricane). Prodotto dal mago Beau Hill nel 1988, ‘Sahara’ è un album che riesce ad essere nello stesso tempo massiccio e arioso, violento e melodico; insomma: metal e pop, secondo quella formula rivoluzionaria che combinava elettricità ad alto voltaggio ed easy listening, suoni cromati e muri di chitarre, testi leggeri ed un’atmosfera scanzonata. La band aveva il suo fulcro nella figura del nostro Kip, bassista oltre che validissimo cantante, fuggiasco dalla band di Alice Cooper in cui militava assieme a Paul Taylor, che si alternava alla chitarra ritmica ed alle tastiere e costituiva, apparentemente, l’anima più melodica della band, dato che su tutte le ballad dei primi due album c’era la sua firma (lo ritroveremo poi nella band di Steve Perry). Dietro i tamburi martellava Rod Morgenstein, musicista non proprio di primo pelo, dato che la sua carriera era cominciata negli anni ’70 con i Dixie Dreggs di Steve Morse (a cui si riunirà dopo la fine dell’esperienza Winger), mentre il chitarrista era Reb Beach, già nel Brian McDonald Group e prima ancora nella band di Fiona e poi turnista nel giro pop con collaborazioni che vanno dai Bee Gees a Chaka Khan ad Howard Jones, oltre che possibile sostituto di Jake E. Lee nella band di Ozzy.

Il disco si apre con “Madalein” e anche se non credo che un singolo brano possa mai giustificare l’acquisto di un intero album, si può ben dire che questa sola canzone già valga interamente la spesa: l’intro di chitarra acustica dal mood un po’ western, il primo “yeah” di Kip e poi quel riff monumentale, che sale, palpita, ondeggia avvolgendosi fino al punto di partenza... pura leggenda! “Hungry” e l’hit “Seventeen” riverberano sfumature Dokken, pesante e aggressiva la prima, agile e anthemica la seconda. “Without the night” è una sublime power ballad che pur ricca di suggestioni Journey riesce a trovare una propria personalità definita nell’intreccio chitarre/tastiere e nella vocalità - nient’affatto soft - di Kip, mentre la cover di “Purple haze” con l’ospite Dweezil Zappa alla chitarra solista è una prova di forza che la band affronta con disinvoltura e supera a testa alta: almeno in questa occasione, Jimi non ha motivi per rivoltarsi nella tomba... Ombre Van Halen e Black’n’Blue su “Time to surrender “ e “Poison angel”, mentre suggestioni Bonjoviane spuntano su “Hangin’on”, e sottolineo ombre, fantasmi, assorbiti e metabolizzati dalla band che distilla lungo tutto l’arco del disco un’alchimia sonora realmente originale, grazie sopratutto alle invenzioni ed alla creatività di Reb Beach, uno di quei rari chitarristi realmente in grado di fare la differenza: spettacolare, anticonvenzionale, fantasioso. Su “State of emergency  e “Headed for a heartbreak” la band si muove libera, ed è arduo individuare ascendenze o parentele nel sound: questi sono gli Winger, semplicemente, destinati essi stessi a diventare punto di riferimento: i riff spezzati, il divagare suggestivo, un po’ cupo ed un po’ maestoso delle tastiere...

Nel successivo ‘In the heart of the young’, sempre supervisionato da Beau Hill, la band si sposta in territori più AOR, il sound si fa più vario, c’è molta, forse troppa carne al fuoco, ed a grandi canzoni si alternano momenti più deboli. ‘Pull’ chiuderà l’avventura, in piena tempesta grunge, senza molta gloria. Un’avventura tutt’altro che trascurabile o da cancellare dalla memoria, o da sacrificare sull’altare di quel pop insipido a cui il buon Kip si è ormai votato.

 

 

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VON GROOVE

 

 

  • CHAMELEON (1998)

Etichetta:MTM Reperibilità:in commercio

 

Per un certo periodo di tempo sono stato più o meno tempestato di mail da un tizio che mi chiedeva per quale motivo non parlavo mai degli Harem Scarem; le sue missive erano più o meno di questo tenore: ma come, sono la più grande band del nuovo AOR e non gli dedichi neppure una riga, evidentemente non capisci un cazzo, altro che quelle mezze seghe dei Ten... eccetera, eccetera.

Ora, le ragioni di una tale idolatria per questa band non sono mai riuscito a metterle a fuoco, e neppure quelle che hanno mantenuto i Von Groove fuori dal giro che veramente conta. Il parallelo non è pretestuoso: le band sono entrambe canadesi, hanno esordito su major più o meno nello stesso periodo e frequentato inizialmente gli stessi generi. Ma mentre gli Harem Scarem hanno spiccato subito il volo, i Von Groove sono rimasti nel mucchio, Dio solo sa perché. Per quanto riguarda la proposta musicale, il mio modestissimo e sommesso parere è che tra le due band non ci sia confronto. Hanno cominciato ambedue con esercitazioni del più classico hard rock melodico, per poi cercare nuove strade, ma mentre gli Harem Scarem si sono buttati in un crossover  (per me) indigesto e che ormai di AOR ha ben poco, i Von Groove sono approdati su questo ‘Chameleon’ (anno 1998) a soluzioni interessanti e realmente originali pur nel rispetto della matrice più autentica dell’hard rock. 

I quattordici episodi che compongono questo disco svariano tra le molte facce dell’hard melodico, da quella più anthemica e dinamica (“Calling the world”, la title track, “All for rock’n roll”, “Two nights in Tokio”, “Disbeliever”) alle rifrazioni metalliche di “Mission man”, dalla ballad elettroacustica (“April May”) a quella aoreggiante (“When love comes back”,“Stop dreaming your dreams away”) o più drammaticamente power (“Without you”, che ruba l'andamento alla "Ten years gone" dei Led Zeppelin ), e sempre con un’autorevolezza straordinaria (anche se - non si può negarlo - con un suono a volte molto leppardeggiante). Ma è negli episodi più avventurosi che i Von Groove riescono a suscitare - almeno nel sottoscritto - un autentico entusiasmo. Se “Propaganda” è un notevolissimo esercizio di hard zeppeliniano (l’alternanza di quel riff a là “The Wanton Song” con fascinosi bridge d’atmosfera, e quella parte centrale funkeggiante...) sono “Barely human” e sopratutto “The snake” a far rizzare le orecchie, perché su queste due canzoni i Von Groove diventano la versione AOR dei Muse! E - questo è il bello - ottengono qualcosa che è perfettamente riconducibile a tutto ciò che siamo abituati a riconoscere come hard rock melodico: basso pulsante, voce a tratti filtrata su un groove quasi techno, eppure è sempre, incredibilmente, AOR.

Se vogliamo a tutti i costi trovare un punto debole in questo disco dobbiamo andare a leggere il testo di “Soldier of fortune”, un bell’hard melodico guastato da dei versi veramente cretini ( I’m soldier of fortune (...) riding with the sun/ into the arms of America/ I’ll be moving on... Gesù, ma cosa stavano fumando mentre scrivevano ‘sta roba? Calzini vecchi? Gambi di cipolla? Bah...), mentre le altre lyrics oscillano fra il già sentito ed una perfida fascinosità ( Peace is an illusion whose time’s about to past/ your closest friends are enemies hiding in the grass...The snake”, ovviamente...).

In 'Driving off the edge of the world' la band - dopo la pausa AOR di 'Test of faith' - spostava il tiro verso l’hard rock vero e proprio, sempre cercando di aggiornare la propria cifra stilistica in maniera originale e riuscendoci in più di un frangente, mentre l’ultimo 'The seventh day' - complice forse il frettoloso addio di Matthew Gerrard, il bassista che solo poteva vantare un qualche pedigree, essendo stato membro a suo tempo dei grandi The Works - è più altalenante, con qualche episodio non all’altezza delle possibilità della band frammisto ad ottime pieces che riconfermano la capacità dei Von Groove di esprimere un suono classico e moderno nello stesso tempo. Che questo gli abbia poi guadagnato i consensi che i loro conterranei hanno ottenuto a man bassa è un altro discorso: per me, Mladen (chitarra) e Michael Shotton (voce e batteria) stanno un buon palmo sopra Harry Hess e compagni. E se con quest’ultima affermazione mi sono attirato un’altra valanga di Mail piene di livore, pazienza...

 

 

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SHORTINO/NORTHRUP

 

 

  • AFTERLIFE (2004)

Etichetta:MTM Reperibilità:in commercio

 

Chi ha letto le note che ho dedicato al precedente, formidabile parto di questa coppia, potrà essersi immaginato con quale velocità mi sia fiondato sul suo nuovissimo lavoro, e forse si sarà chiesto come mai non c’era ancora traccia in questo sito della corrispondente recensione. Ma questo ‘Afterlife’ ai primi ascolti mi ha convinto solo in parte, e tuttora non credo rappresenti quanto coloro che avevano consumato i solchi di ‘Back on track’ attendevano o potevano desiderare. Il ritmo è molto meno infuocato, c’è più AOR che metal, le tastiere non si limitano a qualche comparsata ma sono ospiti fisse e - sopratutto - il songwriting non sfavilla come quello del disco di dieci anni fa. Le prima track, “Here I am” è più anonima di un recapito fermo posta, e quella che la segue, “Afterlife”, ha un bel refrain ma, come la canzone precedente, ci restituisce un Paul Shortino in qualche imbarazzo vocale, credo perché costretto qui ( e solo qui, per fortuna) a cantare fuori dalla sua  tonalità naturale. “Like a stone” è una ballad tutta acustica e tastiere che ripropone qualcosa dei tempi di ‘Back...’, ma su un registro molto più AOR. Poi arriva “Crazy mind”, un duetto con Johnny Edwards, hard zeppeliniano di squisita fattura (anche se qualche ulteriore sovrincisione di chitarra non avrebbe guastato affatto). Anche “Feel again” si presenta forse troppo rilassata, pare proprio che stavolta JK non abbia voglia di play it on eleven. Molto meglio “Crossfire”, splendente incrocio tra gli  Zep più bluesy e gli Aerosmith, rifinito da una slide sgusciante (gran bell’assolo), mentre “Slave” ritorna alle solite matrici Whitesnake tanto care a Northrup, condendole con un pizzico di Heaven & Earth. “Gipsy soul”, ha un flavour più moderno ed un po’ cupo pur mantenendosi fedele ai canoni dell’hard melodico ottantiano. “Mark my words” è uno strumentale dove JK sembra divertirsi a fare il verso a Joe Satriani, quello meno cerebrale e più melodico di ‘Flying in a blue dream’ e ‘The extremist’, ed è se non altro l’ennesima conferma del fatto che la personalità continua a fargli difetto: un buon interprete, ma incapace di imbastire un proprio discorso al di fuori di matrici già definite da qualcun altro. “As I fall” è la cosa più sui generis, dark metal alla Ozzy o Black Sabbath periodo Tony Martin, c’è perfino un hammond che fa capolino nel coro e dà al pezzo una certa patina anni 70: carino, sì, ma col resto del disco c’entra poco o niente. Conclude “Prisoner”, ballad elettroacustica ben arrangiata ma con un refrain opaco...

Un disco, insomma, con alti e bassi, che patisce forse troppo il confronto con il suo predecessore, così elettrico e veemente: t’aspetti di essere aggredito da una montagna di watt, e tutto quello che ottieni sono poche scintille qua e là. Ma sgombrare il campo da un passato tanto glorioso non è facile e  il songwriting di questo nuovo album è oggettivamente zoppicante: l’essenzialità e gli arrangiamenti scarni puoi permetterteli se ti chiami Mark Spiro, ma JK, scegliendo di esprimersi su un registro più pacato, meno elettrico, rinunciando alla pura forza del volume, alla pressione di una montagna di riff in overdrive, non ha ottenuto altro che scoprire inesorabilmente i propri limiti. Chi esce a testa alta da questo lavoro è Paul Shortino, che qui si limita a cantare e basta, e fa del suo meglio per dare un po’ di carattere ad una raccolta di canzoni che probabilmente aveva soltanto bisogno di un produttore di vaglia per spiccare il salto da una dignitosa sufficienza verso solo Dio sa cosa.

Forse, chi non ha gustato le delizie di ‘Back on track’ si troverà meglio predisposto al gradimento di ‘Afterlife’, che rimane comunque un album godibile anche se non esattamente superlativo.

 

 

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RANDY JACKSON'S CHINA RAIN

 

 

  • BED OF NAILS (1991)

Etichetta:Dig It International Reperibilità:scarsa

 

Un giorno di ordinaria follia... era il titolo di un film con Michael Douglas, e potremmo prenderlo in prestito per qualificare in qualche modo quel giorno del 1991 in cui Doug Morris, presidente dell’Atlantic, decise che questo disco, parafrasando il Manzoni, non s’aveva da far pubblicare. Pare che la decisione non avesse nulla a che vedere con l’esplosione del grunge - che sopraggiungerà in effetti diversi mesi dopo - ma fosse mirata piuttosto a non intralciare la strada verso le top ten di due bands all’epoca prioritarie per la major, ossia Skid Row e White Lion, che avevano appena fatto uscire i loro nuovi lavori (‘Slave to the grind’ per gli Skid e ‘Mane Attraction’, per i White Lion, album questo che avrebbe dovuto rilanciare la band di Vito Bratta e invece ne segnerà il definitivo affossamento: ne riparleremo). Ciò non aiuta comunque a dipanare i processi mentali piuttosto contorti dell’individuo in questione, il quale prima dette il via libera ad un’operazione discografica che sicuramente non dovette svolgersi all’insegna dell’economia, considerato che coinvolse cinque produttori, sette studi di registrazione ed una quantità enorme di session men e songwriters, e poi decise di chiudere il disco pronto per la stampa (erano stati già distribuiti i promo-tape con la copertina definitiva!) in un armadio e di lasciarlo lì a prendere polvere, e questo nonostante le recensioni positive e l’ottimo responso che i primi passaggi alla radio dei singoli avevano dato. Sarà solo nel 1993 che questo ‘Bed of nails’ vedrà la luce, grazie all’italiana Dig It International, che non ne stamperà comunque un numero esorbitante di copie: se sia stato ristampato in seguito, non lo so, ma non mi pare di averlo mai notato nei cataloghi di alcun rivenditore specializzato. Una rarità, insomma, che immagino spunti quotazioni importanti,  - come si usa dire, pudicamente, da qualche tempo - fra chi si occupa di reliquie dei Big 80s

Il Randy Jackson che la Dig It ritenne opportunamente di includere nel moniker della band era, ovviamente, il cantante/chitarrista degli Zebra, hard rock band nota sopratutto per la sua devozione al suono dei Led Zeppelin, che ha pubblicato ad oggi appena quattro album di studio ma gira i palcoscenici USA da più di vent’anni, e questa propensione per la dimensione live è testimoniata da ben due dischi dal vivo. Jackson è anche un apprezzatissimo turnista e produttore, ed il progetto China Rain nasce durante una pausa dell’attività degli Zebra - poco dopo l’uscita del primo live album, nel ‘90 - su proposta del noto A&R man Jason Flom che offrì a Randy la possibilità di mettere su una band (la line-up includeva Ronnie Snow come seconda chitarra, Teddy Cook al basso e Brian Tichy alla batteria) ed impostare un nuovo progetto più AOR oriented. La scelta dei vari produttori è un chiaro segnale della volontà di ricercare un approccio meno ruvido rispetto agli Zebra, più spiccatamente commerciale ma sempre vigorosamente hard rock, a cominciare da sua maestà Jack Ponti e dal suo team (Vic Pepe come produttore associato e Randy Cantor alle tastiere), che “lavora” personalmente quattro brani sui dieci complessivi (in tre Jack è anche songwriter), regalando a Randy una lussuosa fotocopia del suono già collaudato l’anno precedente con i Baton Rouge. La title track sembra schizzata direttamente da ‘Shake your soul’, con quel suo andamento kisseggiante, l’atmosfera scanzonata e festaiola (per la verità, il refrain è impudentemente simile a quello di “Walks like woman”, ma di fronte a tanta magnificenza si può anche chiudere un occhio...), stessa ricetta per la scatenata “Psychedelic sex reaction” (ripresa poi dai Babylon A.D. sul loro ultimo e bellissimo ‘Nothing sacred’ in una versione più violenta e chitarristica e con il testo parzialmente variato) e “Valerine”, mentre “Last forever” ripropone la ricetta Ponti per le power ballad: Scorpions a manetta e tastiere che s’innalzano affilate e drammatiche, al confine del pomp. Tocca poi alla coppia Mark Slaughter/Dana Strum sedersi dietro il banco del mixer per “Before it’s too late”, più metallica ma con un coro che è pura goduria. Stephen Benben e Randy in persona producono “I love you lied”, una ballad squisita, l’unica del disco, e “You’re only lonely today”, spettacolare saggio di arena rock con un coro ispirato agli Yes più commerciali. Dei tre pezzi restanti si occupa John Sonneveld (Golden Earring, Robbie Valentine), a cui si devono le indiavolate trame funky di “Light of my love” (scritta da Randy con Rachel Bolan e Dave Sabo), le ombre zeppeliniane dell’anthem “Bang on the wall”, e l’efficace alternanza di elettricità e melodia che anima “Love calls”, di cui è anche autore.

Voglio concludere con un paio di considerazioni: questo scritto può apparire un incitamento a fare spese pazze, ma mi vengono in mente davvero pochi altri dischi di hard rock melodico per cui valga la pena di saltare un pasto pur di procurarseli (sempre che riusciate a trovarlo). E poi, mettiamola in questi termini: è meglio spendere per acquistare tre o quattro CD di bands contemporanee, spudoratamente derivative, prodotti in maniera approssimativa, oppure investire la stessa cifra su un capolavoro? E’ il solito dilemma fra quantità e qualità. Decidete voi come scioglierlo.

 

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GTR

 

 

  • GTR (1986)

Etichetta:Arista Reperibilità:scarsa

 

I Big 80s non sono stati un periodo particolarmente favorevole al rock progressivo, è notorio. Quel genere che aveva finito per diventare un po’ il simbolo degli anni 70 s’era trovato al giro di boa del nuovo decennio praticamente ridicolizzato dalla critica trendista e lasciato a se stesso dal grande pubblico. Le band più importanti si sfasciavano o andavano alla deriva, e la stessa forma musicale codificata dai vari Yes, Genesis, King Crimson, Van Der Graf Generator, ELP, Gentle Giant, Camel, UK, eccetera diventava un filone per nostalgici irriducibili - concentrati sopratutto in Gran Bretagna - aborrita dalle grandi case discografiche e meno vitale di una mummia ammuffita. La New Prog Wave fu nulla più del sussulto di un malato in agonia: il grosso della scena rimase confinata nel più underground degli underground (qualcuno si ricorda degli album pubblicati solo su cassetta?), e tutto si risolse in un trampolino di lancio per i soli Marillion, bravi finché si vuole, ma irrimediabilmente derivativi e che trovarono larghi consensi internazionali soltanto quando allentarono un po’ in direzioni radiofoniche il loro sound. I reduci dei 70 si ritiravano dalle scene, sceglievano altre rotte oppure tentavano difficili attualizzazioni, flirtando con il nascente AOR o con la musica pop. Le due band simbolo di questa tendenza furono Asia e Yes: entrambe queste formazioni (nuova di zecca la prima, anche se formata da più o meno illustri veterani; rifondata largamente la seconda) puntarono sul rock da FM inseguendo un difficile equilibrio fra il suono romantico e cerebrale ed i facili refrain. Si giocava la carta della canzone, ma senza rinunciare all’arabesco, allo svolazzo, al fronzolo, al ricamo, al gusto per l’accordo ribaldo che si sperava avrebbe fatto sorridere chi dormiva ancora con ‘Fragile’ o ‘Selling England by the pound’ sotto il cuscino. Se al principio le cose parvero funzionare (e un disco come ‘90125’ degli Yes meriterebbe comunque una trattazione a parte), bastò relativamente poco perché i consensi e l’entusiasmo si affievolissero, e chi tentava opportunisticamente di stare con un piede di là ed uno di qua dalla barricata finisse per perdere il consenso di entrambe le fasce di pubblico abbordate con la propria proposta. Questo dei GTR (anno di pubblicazione: 1986) fu probabilmente l’ultimo tentativo di conciliare prog e AOR in grande stile. Tutto nasceva dall’unione di due eccellenze del prog settantiano: Steve Howe  e Steve Hacket, le chitarre rispettivamente degli Yes e dei Genesis degli anni d’oro. Se Howe veniva dall’esperienza Asia, Hacket era nuovo a contesti sfacciatamente commerciali, e difatti la sua impronta sul disco è più che mai vaga: ci pensò poi Geoff Downes, mente e keyboard man degli Asia, qui presente in veste di produttore, a rilegare il tutto secondo una linea prevalente che rendeva i GTR una versione più chitarristica e roboante della band di “Heat of the moment”. Alla voce venne chiamato Max Bacon, ex Bronze, con la sua bell’ugola chiara e potente, la sezione ritmica era formata da Phil Spalding al basso e Jonathan Mover (transitò brevemente nei Marillion) alla batteria.

Al contrario di quanto era stato fatto tre anni prima dagli Yes, che avevano distillato e spremuto il proprio classico sound fino a concentrarne lo spirito in un solo riff secco (ricordate quello, esemplare, di “Owner of a lonely heart”?), in un giro di basso avvolgente, in un brusco lampeggiare di tastiere, i due Steve preferirono seguire il concetto-Asia, ossia un bombardamento serrato, polifonico, che nello specifico perdeva un po’ di magniloquenza ma restava sempre indeciso su quale strada percorrere: a volte è pomp, altre AOR o timidamente prog. Insomma: non si arriva mai ad una sintesi, forse anche perché - in fondo in fondo - nessuno la credeva attuabile, e i due Steve meno degli altri. Così tutto si riduce ad un continuo fare il verso all’arena rock di matrice americana, cosa che riesce discretamente solo in qualche occasione (“Here I wait”, “Jeckyll and Hide”, “You can still get through”), in un continuo rimbombare di riff e accordi equamente distribuiti sui due canali stereo con una tattica di mixaggio che sembra volta più a stordire l’ascoltatore con il volume che a coinvolgerlo, tattica a cui i nostri eroi non rinunciano neppure nella scheggia più prog dell’album, “Imagining”, che sembra anticipare (in peggio) i momenti più duri degli Yes di ‘Big generator’. Le cose migliori si rivelano infine l’introduttiva “When the heart rules the mind”, dove la sintesi prima invocata pare davvero realizzarsi in un bel brano fluido, arrangiato con intelligenza, e “The Hunter”, suggestiva ed ariosa, in puro Asia-style (e non è un caso, dato che questa canzone l’ha scritta Geoff Downes). Ci sono anche due strumentali, uno per ciascuno degli Steve. Quello di Howe si intitola “Sketches in the sun” (e come altro poteva intitolarsi, poi...) ed è la solita sequela di accordi luminosi e note cristalline che in ogni fan degli Yes più classici immagino induca sospiri e lucciconi agli occhi, mentre il secondo Steve si produce in “Hackett to bits” in un’isterica e serratissima cavalcata che non si capisce proprio da dove parta né dove voglia andare.

Dopo una discreta attività live, dei GTR si perse ogni traccia, e non credo che qualcuno li abbia mai rimpianti a calde lacrime. Il progetto era palesemente mirato ad un sostanziale incremento dei conti bancari dei due Steve, che dopo questa esperienza tornarono alla musica che gli era più congeniale e di AOR e affini non vollero più sentir parlare.

 

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BON JOVI

 

 

  • SLIPPERY WHEN WET (1986)

Etichetta:Polygram Reperibilità:in commercio

 

Verso questa band, molti fan accaniti dell’hard rock melodico nutrono sentimenti contrastanti, che generalmente si coagulano in una vaga diffidenza ed in quel certo senso di nausea che monta in chi bazzica territori per eletti quando in quegli stessi territori vede infiltrarsi non invitato il grande pubblico. Quando poi questo pubblico è composto in prevalenza da ragazzine schiamazzanti, la nausea può diventare puro e semplice schifo. E allora, la band viene cancellata, rimossa come un brutto ricordo: è capitato ai poveri Europe, passati da un giorno all’altro da pomp-gods nordeuropei ad idoli per teenagers a falliti.

Qualunque cosa pensiate di questi signori e della loro musica, non si può comunque negargli un’importanza storica grandissima. Perché è con i Bon Jovi e con questo ‘Slippery when wet’ che di AOR si comincia seriamente a parlare nel vecchio continente, e perfino in Italia. Prima che arrivassero loro, dalle nostre parti l’hard melodico era un genere confinato alle attenzioni di pochi intimi. Dischi di bands che in USA già vendevano a milioni di copie si trovavano da noi solo come import, nomi come Journey o Foreigner erano virtualmente sconosciuti, Motley Crue, Ratt e Dokken vivevano confinati in una cerchia ristrettissima di fan dell’heavy che continuavano a venerare Saxon ed Iron Maiden e consideravano con obbrobrio quegli americani che “non facevano il vero metallo”, arrivando al punto di bersagliare di sputi il povero Don e la sua band durante un celebre concerto romano per dimostrargli come si trattano i “traditori della fede”... Era l’epoca in cui se chiedevi un disco di hard rock al commesso di un negozio, quello ti squadrava come se sospettasse di avere di fronte un individuo in uno stato di completa alterazione mentale, oppure ti indirizzava ad uno scaffale etichettato “heavy metal” dal quale i clienti “normali” (come se poi, uno che comprava dischi dei Pooh o di Baglioni si potesse ritenere normale…) si tenevano alla larga quasi pensassero di trovarci dentro scarafaggi o topi morti, ed in cui, mescolati ai vari Manowar, Riot, Exciter, Venom eccetera eccetera spuntavano fiori solitari come Boston o Twisted Sister. E fu proprio da quell’infame scaffale che le mie mani tirarono fuori questo ‘Slippery when wet’ nel 1986: poco più di un anno dopo, lo scaffale spariva, semplicemente perché tutto ciò che era rock duro vendeva tanto ed era ricercato da tanta gente che non si poteva più confinarlo in un angolo in ombra. Bon Jovi sdoganò l’hard rock per il grande pubblico, lo fece arrivare perfino a DJ Television, che sembrava considerare i Mr. Mister come limite estremo della durezza sonora e quasi da un giorno all’altro si ritrovò a mandare in onda videoclip di Def Leppard, Whitesnake, Motley Crue e Guns’n’Roses. Insomma: senza il nostro bel Bon del New Jersey, la strada dell’hard rock sarebbe stata molto, molto più in salita, almeno nel nostro paese, dove ancora oggi la cultura rock è una chimera e un Vasco Rossi si può permettere di assemblare i suoi dischi scopiazzando vergognosamente a destra e a manca senza che nessuno se ne accorga o, peggio ancora, gliene importi qualcosa. E più in generale, fu grazie al successo dei Bon Jovi che l’AOR uscì una volta per tutte dai confini degli USA e si diffuse nel mondo (e se è vero che il consenso che l’Europa accordò al melodic rock fu in principio molto tiepido, sappiamo tutti come sia finita: senza le labels ed il pubblico europeo, oggi, nel XXI secolo, l’AOR semplicemente non esisterebbe più). Che poi questo risultato straordinario in termini di popolarità e vendite (si parla ad oggi di quasi trenta milioni di copie vendute del solo ‘Slippery...’) non sia da accreditare esclusivamente alla bontà del disco, ma anche a fattori di immagine e di “clima”, mi pare tutto da dimostrare. Le ragazzine crescono e diventano donne, e difficilmente le nuove schiere di adolescenti si metteranno a sbavare di fronte agli idoli della generazione che li ha preceduti: dei Bon Jovi tutto si può dire tranne che siano stati un fuoco di paglia, continuando tra alti e bassi un’avventura ormai ventennale. E se ‘Slippery when wet’ non è stato il picco della loro carriera, poco ci manca.

Band predestinata al successo, pilotata abilmente verso le Top Ten? ‘Slippery...’ era stato sicuramente pianificato per ottenere un grosso consenso, ma credo che lo stesso Doc McGhee, il potentissimo manager che prese sotto la sua ala protettrice i ragazzi del New Jersey, non si aspettasse di ottenere un risultato tanto straordinario. Il primo album della band aveva totalizzato vendite discrete fruttando anche un minor hit, ma '7800° Fareneith' aveva rischiato di sciupare tutto, registrato in fretta e furia per cavalcare l’onda del successo e gettare in pasto ai fan qualcosa che tenesse vivo comunque il nome della band. Forse Paul Dean, il chitarrista dei grandi Loverboy, si deve considerare il maggior responsabile indiretto - diciamo così - di tutto ciò che è accaduto, perché fu lui a raccomandare Bruce Fairbairn  a Jon per la produzione del nuovo album. Le due band avevano collaborato fra l’85 e l’86, e Jon era rimasto (giustamente) impressionato dalle capacità di Fairbairn, che aveva prodotto gli ultimi tre dischi dei Loverboy (includendo nell’elenco ‘Wildside’, che è dell’87). Se qualcosa veramente era mancata ai due primi album dei Bon Jovi, questa era proprio una produzione attenta, mirata, lucida. Bruce Fairbairn – assieme a Bob Rock, che all’epoca gli faceva modestamente da ingegnere del suono – riuscì a mettere a fuoco quello che prima era confuso ed approssimativo, a dare ai ragazzi un suono. Toccò poi a Desmond Child fornire l’apporto di giusta ruffianeria nel songwriting, firmando con la band tre dei pezzi migliori del disco. Questo è tutto: non poco, ma neanche tantissimo. Dunque: il telaio era OK, il motore anche: tutto quello che occorreva per vincere la corsa era una messa a punto, una bella lucidata alle cromature e la benzina giusta.

Slippery when wet’ deve essere considerato un classico non tanto per il numero astronomico di copie vendute, ma sopratutto perché riuscì a creare uno standard, a diventare fonte di ispirazione o di saccheggio per innumerevoli aspiranti ad un posto nei quartieri alti dell’AOR. La formula adottata non era certo rivoluzionaria, ma comunque affascinante: se i Ratt avevano iniettato di melodie pop geometriche e quasi ballabili l’heavy metal, i Bon Jovi metallizzarono il rock yankee più mainstream, quello che partiva da Bob Seger, John Mellecamp e Springsteen ed arrivava fino a Bryan Adams, appropriandosi di un modello e fornendone una propria interpretazione originale e nient’affatto scontata o semplicistica. ‘Slippery...’ è un album pieno di invenzioni, variegato, fatto di arrangiamenti tutt’altro che banali, eppure scorre via liscio, diretto, incalzante. “Let it rock”, con quell’intro spettacolare di tastiere mezzo rubato ai Supertramp, diventa all’istante la nuova misura di perfezione dell’anthem, e Dio solo sa quante volte il riff ondeggiante di ‘You give love a bad name’ è andato a formare l’ossatura di canzoni in cui si cercava di coniugare aggressività e melodia senza debordare troppo in una direzione o nell’altra. Di “Livin’ on a prayer” si può solo dire che è diventata una specie di Bibbia per chiunque professi la religione dell’hard rock melodico: il ritmo palpitante del basso ripreso dalle tastiere alla fine dell’intro, il clima drammatico, il coro urlato... “Social desease” varia il passo con un tono più scanzonato e ricchi interventi di una sezione fiati prima di “Wanted dead or alive”, il capolavoro dell’album, la power ballad che veleggia sul limite della perfezione fra acustiche western ed elettriche lancinanti, chiudendo una prima side dell’LP che definire straordinaria è perfino riduttivo. Il lato 2 si apre con “Raise your hand”, ancora un anthem, ma più violento ed accelerato, a cui segue “Without love”, eccellente power ballad. “I’d die for you” riprende a macinare riff prima di “Say goodbye”, ancora una ballad robusta, romantica senza essere sdolcinata, per chiudere con “Wild in the streets” che - almeno nel coro - anticipa la deriva springsteeniana del successivo ‘New Jersey’.

Non voglio certo ridurre vent’anni di carriera della band ad un solo album, ma la carica dirompente di ‘Slippery...’ è rimasta - mi pare - ineguagliata. E  non è certo un caso che il recentissimo e discutibile ‘This left feels right  sia composto per il grosso da canzoni riprese proprio da questo disco e da ‘New Jersey’. Travalicare i propri stessi classici non è certo  impresa da poco, ma i Bon Jovi sembra purtroppo  che non ci abbiano mai neppure provato.

 

AORARCHIVIA

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WHITE LION

 

 

  • MANE ATTRACTION (1991)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:buona

 

Strana storia, quella dei White Lion. Una band fatta fuori con l’arma più crudele: l’indifferenza. Eppure, avevano tutto: l’immagine, il sostegno di una grande casa discografica e - non ultima - la musica. Il passo falso, si dice, fu il terzo album, ‘Big game’, uscito nel 1989, registrato dopo un anno e mezzo di tour spaccaossa nel ruolo di opening act per colossi come Aerosmith, Kiss e AC/DC. Un disco non esaltante, ma certo non un pozzo senza fondo come lo giudicarono alcuni. Ma dopo la magnificenza di ‘Pride’ (due milioni di copie vendute in USA), nessuno volle perdonare ai ragazzi la sbandata. Con ‘Mane attraction’ tornavano in carreggiata alla grande, ma parve che non gliene fregasse più niente a nessuno. Dov’erano finiti tutti quelli che avevano fatto diventare ‘Pride’ un double platinum? Il disco uscì nel ferale 1991, ma per l’esplosione del grunge si dovettero attendere ancora diversi mesi, quindi non si può dare del tutto ad Alice In Chains e compagnia brutta la colpa del (parziale) fiasco di ‘Mane attraction’. Di sicuro, la pioggia scesa da Seattle contribuì a sciogliere rapidamente la band, spingendo poco dopo Mike Tramp a formare i trendy Freak Of Nature per cercare di portare a casa almeno i soldi dell’affitto...

Prodotto divinamente da Ritchie Zito (la qualità audio di questo CD è rimasta a lungo insuperata), ‘Mane attraction’ era il punto d’arrivo di una band che trascesa l’enfasi pomp del debutto esibiva un’eccellente varietà nel songwriting, passando con disinvoltura dai toni drammatici ma definitivamente privi di ingenuità di “Warsong” al party rock “She’s got everything” (con il trucido Ron Young ai cori), all’hard blues strumentale “Blue monday” (in tributo al da poco scomparso S.R. Vaughan, ma mi piace pensarlo anche come uno sfogo del bravo Vito Bratta, che non doveva poterne più di sentirsi definire - ingiustamente, secondo me - un clone in chiave minore di Eddie Van Halen), ad una “It’s over” che dopo un intro d’effetto si risolve in un mid tempo in puro Firehouse-style, al funk metallizzato intitolato “Leave me alone”, al convulso andamento di “Out with the boys”. La riproposta di “Broken heart”, prelevata dal primo album e arricchita di sontuose tastiere (se ne occupa l’asso Kim Bullard e le keys sono ben presenti lungo tutto l’arco del disco) non suona per nulla inopportuna (e il trattamento a cui Ritchie Zito sottopone questo splendido hard melodico è ben più raffinato di quello che gli riservò il più tozzo Michael Wagener, produttore della prima versione), e gli altri episodi più spiccatamente AOR - sicuro terreno di conquista per la voce flautata del danese Tramp, quasi un Jon Anderson più rauco, stridulo e scomposto - non sfigurano affatto al suo confronto: “Love don’t come easy”, “Till death do us part” e “You’re all I need”, confermano il valore della band anche nel delicato settore della power ballad (spesso Bon Jovi inspired). Se l’apertura dell’album è affidata alla solennità pomp metal di “Lights and thunder” (ma il refrain ricorda tanto le produzioni contemporanee di Ozzy), chiude il disco la malinconia elettroacustica di “Farewell to you”, omaggio tenero ed un po’ ruffiano ai fans, che non meritavano comunque tanta considerazione visto il modo in cui lasciarono a se stessa una band che poteva dare ancora tantissimo e finì i suoi giorni circondata dal più completo disinteresse.

 

AORARCHIVIA

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HARLOW

 

 

  • HARLOW (1990)

Etichetta:Reprise Reperibilità:scarsa

Di questa band non so dirvi praticamente nulla, salvo quello che si può ricavare studiandosi le note ed i ringraziamenti sulla busta del vinile. Ricordo che avvistai il disco nello scaffale di un negozio (era il 1990), ma scoprii che si trattava del parto di una hard rock band solo diversi mesi dopo, quando ne lessi la recensione su un noto magazine nazionale. Purtroppo, l’album in questione era stato preso in esame da un giornalista che aveva la pessima abitudine di descrivere le canzoni mediante una serie di metafore contorte, ossimori improbabili ed iperboli ridicole: dulcis in fundo, molto spesso il tizio - e questo fu uno di quei casi - non si degnava di specificare il genere affrontato dalla band, così che alla fine della lettura non riuscivi a capire neppure se quel disco era fatto di thrash metal o prog rock. Dal tono generale dello scritto si poteva avere però l’impressione che gli Harlow praticassero l’hard melodico - giusto l’impressione, ripeto - e quest’ipotesi pareva avvalorata dalla presenza nella band di Tommy Thayer, reduce dei magnifici Black’N’Blue. Quello che però mi fece decidere per l’acquisto fu la presenza al canto di una ragazza, Teresa Straley, di cui il giornalista magnificava oltremisura le qualità vocali, e con ragione, come mi resi conto quando posai per la prima volta la puntina sui solchi di questo 'Harlow'. La nostra Teresa disponeva di tonsille notevolissime, di una voce potente ed un po’ acida sugli acuti, come una Stevie Nicks più nitida e molto meno rugginosa. Ed il suo impegno non si limitava a questo, dato che tutte le canzoni dell’album portavano la sua firma. Accanto a lei, oltre al surricordato Tommy Thayer, c’era Pat Regan, che si occupava delle tastiere, produceva il disco e fungeva da sound enginneer (lo ritroveremo poi alla produzione dell’ultimo album dei Rainbow), mentre la sezione ritmica era formata da Todd Jensen al basso e Steven Klong alla batteria.

L’intuizione iniziale data dalla lettura (meglio: dalla decifrazione) della recensione fu più o meno confermata dall’ascolto. Dico “più o meno”, perché gli Harlow si andavano a situare sul versante meno leggero dell’AOR, e la voce dirompente di Teresa Straley finiva per dare un notevole peso specifico anche agli episodi più easy listening. Si può parlare, insomma, di un hard rock melodico ma pieno di rifrazioni metalliche, colorato da arrangiamenti tutt’altro che lineari o banali. “Chain reaction”, l’atto di apertura, forse il pezzo più scontato col suo tipico andamento da metal losangeleno e la vena anthemica, già rappresenta un rimarchevole esempio di songwriting, poi la band si ritaglia senza fatica un suo spazio personale, svariando fra le trame affilate e geometriche di “Silence” e “Beyond control”, le melodie muscolari e nient’affatto trite di “Pictures”, “Cry murder” e “Empty  (curiosità: quest’ultima canzone veniva descritta dal giornalista di cui sopra come “una song spregiudicata dove si respira il fumo acre dell’azione (?!!)), gli echi roots e soul, a tratti vagamente bonjoviani, della fascinosa “No escape”. Sulle due ballad, la nostra Teresa si mostra un po’ insicura, forse la sua voce è troppo fredda sia sulla aoreggiante “Don’t say we’re over” che su “Edge of love”, vagamente pomp, ispirata alle song più athmosferiche degli Heart di ‘Bad Animals’. Il top, almeno per un fanatico del dirigibile come il sottoscritto, è “When you love someone”, un brano  ritmato da una deliziosa rilettura del riff di “Kashmir” scandito da basso e chitarre acustiche, su cui vanno ad incastonarsi ariosi panneggi di keys.

La storia di questa band comincia e finisce (purtroppo) con questo disco. Pur pubblicato dalla Reprise, etichetta del gruppo Warner, l’album non riscosse quel successo che meritava ampiamente, condannando gli Harlow ad un oblio confortato solo dalla magra consolazione data - spero - dall’ammirazione di quei pochi che ebbero la lungimiranza o la fortuna di entrare in possesso di un lavoro degno di ben altra considerazione da parte di chi tifava per tutto ciò che nei Big 80s chiamavamo AOR.