Fossero
tutte le ristampe come questa, quanti dolori in meno ai nostri poveri (e
sottolineo poveri) portafogli. Tre
album ed un EP a poco più del prezzo di uno. Fenomenale! Questa riproposta
non spicca ovviamente solo per quantità ma sopratutto per la qualità del
materiale, dandoci la possibilità di gustare in tutto il suo splendore
l’opera omnia dei Bad Moon Rising, creatura del duo Doug Aldritch/Kal
Swann. Chiariamo
subito che i BMR sono stati un nome minore, bravi ma non stratosferici,
ottimi interpreti ma non capiscuola. Imprescindibili per chiunque ami
l’hard rock melodico ottantiano più hard
edged, al confine col metal, ma non indispensabili come potrebbero
esserlo gli House of Lords (con cui Doug Aldritch collaborò ai tempi di ‘Sahara’). La
storia di questa band comincia in effetti con quella di un’altra band, i
Lion, dove Kal e Doug suonavano assieme al batterista Mark Edwards. I Lion
pubblicarono due dischi nel 1987 e nel 1989... e facevano la stessa,
identica musica dei Bad Moon Rising. Ripeto: assolutamente la stessa. Ma i
Lion non vendevano abbastanza in USA, anche se si erano conquistati un
following notevole in Giappone. Si sciolsero per questioni di soldi e
contrasti con la label, la piccola Grand Slamm. Doug si unì agli Hurricane
e poi agli House of Lords, Kal cominciò a lavorare ad un album solista. Ma
ecco che salta fuori un’offerta della giapponese Pony Canyon, così Kal
ricontatta Doug e il disco solo diventa il parto di una nuova band. La
scelta di un nuovo monicker forse fu strategica, i Lion s’erano ormai
bruciati in america, dov’erano passati più o meno inosservati (anche se
poi il secondo album ‘Trouble in angel city’,
fu ristampato addirittura nel 1992 dalla MFN), e fare tabula rasa
ricominciando da zero era idea non tanto peregrina. La Pony Canyon poi non
lesinò yen per la band, mettendogli a disposizione un produttore di vaglia
come Mack (Rainbow, Queen, Black Sabbath) e quattro studi di registrazione
per incidere il primo album. Come sezione ritmica venne arruolata pro
tempore quella degli House of Lords del periodo, ovvero Ken Mary ai tamburi
e Chuck Wright al basso, le keys furono affidate ad un paio di session men e
non mancarono ospiti prestigiosi (Michael Shencker, James Christian, Kelly
Hansen, Robin McAuley) ad aggiungere pepe ad una pietanza che già si
preannunciava particolarmente infuocata. Peccato solo che tutto questo bel
piatto fosse riservato in esclusiva alle tavole giapponesi. ‘Bad
moon rising’ (preceduto di qualche settimana dall’EP a cinque
pezzi ‘Full moon fever’) arrivò in Europa
solo come prodotto d’import, con un prezzo di conseguenza... Essendo Ken
Mary e Chuck Wright sempre impegnati con gli House of Lords (anche se non
per molto ancora, comunque), Kal e Doug reclutarono per i concerti quella
che diventerà brevemente la sezione ritmica fantasma dei Bangalore Choir,
Ian Mayo e Jackie Ramos (“fantasma” nel senso che i due suddetti,
sull’unico disco dei Bangalore Choir non suonavano una nota, ma si
limitavano a posare nelle fotografie: le tracce di basso e batteria erano
state incise da altri musicisti; per i dettagli, seguite questo
link). Nel 1993
andò in porto il secondo album, ‘Blood’,
sempre prodotto da Mack, che vedeva ancora la coppia Mary/Wright come
sezione ritmica mentre quella Mayo/Ramos continuava a venir riservata al
palcoscenico. Anche in questa occasione venne pubblicato un EP, ‘Blood
on the streets’, stavolta di soli tre pezzi. La nota lieta veniva
dall’accordo per la pubblicazione in europa che la Pony Canyon aveva fatto
con la Under One Flag (distribuita dalla MFN). La label britannica, molto
opportunamente ristampò anche il primo album. Il terzo disco, ‘Opium
for the masses’ uscì nel 1995. Prodotto stavolta da Noel Golden,
con Mayo e Ramos finalmente ad incidere assieme a Doug e Kal, ‘Opium...’
fu pubblicato dalla bellezza di quattro etichette diverse, in versioni
differenti per numero di pezzi e scaletta: una giapponese e francese, una
coreana, una europea, ed una americana (ma stampata poi anche in giappone).
Aggiungiamo a questo l’EP a sei pezzi ‘Junkyard
haze’, stampato esclusivamente in Francia, e il caos è completo.
L’annuncio ufficiale dello scioglimento della band viene nel 1998 e
l’anno seguente la solita Pony Canyon dà alle stampe una compilation di
quindici canzoni, ‘Flames on the moon’. Dalla
presente ristampa mancano in effetti solo quattro pezzi: “Message”,
presente sull’EP ‘Full moon fever’,
“Union” dall’EP francese, “Millwall brick” e “Free” dalla
versione francese di ‘Opium...’ e
"Father's son" da quella coreana. Di
quest’ultimo album è stata scelta proprio la versione
francese, orbata però delle due canzoni già nominate. E
dopo tante chiacchiere, veniamo (finalmente) alla musica. ‘Bad
moon rising’ era un’autentica festa per chi amava un hard rock
melodico e metallizzato, fatto di melodie muscolari e chitarre ruggenti
cavalcate da una voce simil-Coverdale. Tutto chiaro fin dall’iniziale “Hands
on heaven”, in bilico tra gli Whitesnake periodo ‘1987’ e gli
XYZ, ricetta replicata anche su “If it ain’t dirty”
(che ha un flavour più sleaze, con un bel bridge funkeggiante ed un assolo
dal tempo velocissimo) e “Lie down”
(sinuosa, con qualche ombra Motley Crüe). Se “Without
your love” è una ballad elettroacustica poco ispirata, vicina a ciò
che faranno poi (meglio) i Bangalore Choir, “Old
flames” è l’inevitabile ma riuscito omaggio a “Is this
love”, riletta su una trama meno vellutata, arricchita da un refrain molto
heavy. “Full moon fever” è l’anthem del
disco, clima spettacolare con un gran spiegamento di tastiere, come dei
Baton Rouge più grezzi e diretti o degli House of Lords ripresi in chiave
minore. Il fast d’obbligo si intitola “Built for
speed” (notevole per il bell’intreccio di melodia e chitarre
velocissime), “Sunset after midnight”
ricalca felicemente le orme dei Dokken mentre “Wayward
song” mi ricorda i Fifth Angel del secondo album ‘Time
will tell’, heavy ma melodici, con un occhio agli House of Lords
nella parte finale. Ed è
proprio la band di Greg Giuffria ad ispirare il top del disco, “Dark
side of Babylon”: il clima rudemente solenne, l’alternanza tra i
morbidi fraseggi acustici ed i riff elettrici zeppeliniani, gli intarsi di
keys... Nel coro si vira nuovamente verso il più classico heavy americano e
l’assolo di Doug si tinge di sfumature Lynchiane. Le due bonus tracks sono
“One night in Tokyo” e “Alter
ego” (riprese dall’EP ‘Full moon fever'):
la prima è un live che urla “Dokken!” a più non posso, la seconda uno
strumentale per sola chitarra, uno sfogo solista di Doug afflitto da un pan
pot (l’oscillazione del suono tra i due canali stereo) pazzesco e quasi
insopportabile e tanti rumoracci in sottofondo: trascurabile. ‘Blood’
è un passo avanti come songwriting, sia in qualità che per la varietà dei
temi. Non manca il solito class metal californiano, sempre autorevole e
sempre impostato sulla rotta Whitesnake/Dokken/Crüe (“Dangerous
game”, suadente, elettrica, insinuante, davvero grande; “Blood
on the streets”, più sbilanciata verso l’universo sonoro del
serpente bianco; “Time will tell”, con un
riff portante di netta marca zeppeliniana, semplice, efficace, potente; “Heart
of darkness”, il peso massimo del disco, marezzata di piacevoli
echi arabeggianti), ma Kal e Doug si concedono diverse puntate (felicissime)
in altre direzioni. Se “Servants of the sun”
replica le atmosfere di “Dark side of babylon”,
“Devil’s song (While our children cry)”
riprende gli House of Lords di “Demon’s down” (la canzone) ed i Blue
Murder di “Jelly roll”, snodandosi magicamente tra fraseggi acustici
western doppiati dalle chitarre elettriche, riff zeppeliniani e bei panneggi
di keys. Superbe anche “Chains”, che si
sviluppa su un rude telaio country & western, ma tramato di blues
notturno, risolvendosi poi in un coro alla Dokken, mentre “Till
the morning comes” è un hard rock polveroso, vigorosamente
bluesato, elettroacustico, tra i Badlands ed i Riverdogs. Le ballads sono
“Tears in the dark” e “Remember
me”: la prima è morbida ed elettrica, sempre su base Whitesnake;
la seconda, tutta acustiche e tastiere, è forse un po’ anonima, comunque
poco incisiva. Le bonus tracks di questo secondo disco sono prelevate
dall’EP ‘Blood on the streets’: “Sweet
satisfaction” è un gustoso class metal che - pur senza esibire
ricalchi clamorosi - potrebbe passare per una outtake di ‘1987’;
tutt’altra musica, invece, su “Can’t wait until
tomorrow”, fotocopia senza pudore della “Hole hearted” degli
Extreme (da ‘Pornograffitti’)... ‘Opium
for the masses’ è del 1995, e la data già può dirci tanto sui
contenuti di questo disco, molto, molto più heavy dei due precedenti.
L’hard melodico viene messo quasi del tutto da parte, ma non a favore del
grunge, come qualche recensore abituato ad operare secondo il metodo C (vedi
recensione di Oliver Hartmann) scrisse all’epoca, piuttosto per
un hard rock ispido, a tratti debitore verso i Metallica di ‘Load’,
sporcato qua e là di umori settantiani. L’apertura dell’album è
affidata a quelli che mi sembrano i pezzi più interessanti, “Belligerant
stance” e “Monkey”, dove i BMR
diventano una versione cupa e incazzatissima dei Ratt. Convulsa e
adrenalinica la prima, con un solo che si attorce su un wah wah impazzito,
funk e cadenzata la seconda (pare quasi una versione ultra heavy di “Back
for more”), rappresentano il top dell’album assieme a “Moonchild”,
aperta da armonie indiane, sinuosa, ancora sulla direttrice
Badlands/Riverdogs con un pizzico di Cult era ‘Sonic
temple’: grande! Sempre i Cult, ma piuttosto quelli di certi
episodi di ‘Ceremony’, occhieggiano su “Into
the pit”, quasi una ballad, ipnotica e suadente, con un bel refrain
anni ’70 che contagia anche “Free”, tutta
acustiche zeppeliniane, chitarre elettriche ed hammond, quasi soul in certi
momenti: entrambe notevoli. “Believe” è un
hard funkeggiante ed abrasivo, “Holy war”
praticamente un classico heavy metal americano, con un cantato furibondo e
quasi street, atmosfera replicata poi su “T.B.O.M.D.”
con qualche sprazzo più class (forse grazie alle parti di tastiere: sono
identiche a quelle dalla “Sex child” dei Blue Murder) sfregiato però
dai bridge dove Kal Swann si mette a fare l’imitazione di Phil Anselmo...
Su “Godforsaken” e “Underground” la
bussola punta verso i Metallica di ‘Load’,
con Kal che forza il suo bel vocione blueseggiante su toni più abrasivi per
un cantato alla James Hatfield, “Rivers
run red” ha acide sfumature Trouble, mentre “Summer rain”
parte più morbida (Metallica meets
AOR? Uhm...) fino a che irrompono dei chitarroni giganteschi che sanno
parecchio di Soundgarden: efficace! Conclude “Crown
of roses”, un notevole hard rock, tostissimo ma dal coro melodico,
semplice ma coinvolgente. Che
poi la band si sentisse realmente coinvolta da questa musica è un dubbio
legittimo, se pensiamo che con i suoi Burning Rain, Doug Aldritch tornerà a
fare praticamente le stesse cose che faceva nei primi due album dei BMR, con
una dose massicia di blues in più. ‘Opium for tha
masses’ resta comunque un album godibile, in qualche episodio
perfino entusiasmante: se ogni tanto vi viene voglia di mettere nel lettore
qualcosa dove si pesta sodo, questo terzo disco sarà manna dal cielo. Non
so se sia stato fatto un remastering, l’ascolto denuncia un’ottima
qualità audio ma con un volume di uscita basso per ‘Bad
moon rising’ e ‘Blood’, tipico dei
CD fine anni ’80: probabilmente sono stati usati i masters originali,
senza trattamenti aggiuntivi di cui - in ogni caso - non si sente il
bisogno. Peccato solo che non siano state inserite anche le lyrics, ma per
ospitare i testi di trentasei canzoni il booklet avrebbe dovuto avere lo
spessore di un volume dell’elenco telefonico. Comunque,
standing ovation alla Frontiers
per questo preziosissimo recupero che vede la label finalmente attiva anche
sul fronte ristampe, un settore che negli ultimi tempi mostra una notevole
vivacità, con riproposte di qualità sempre più alta e il ritorno alla
luce di perle che temevo destinate all’oblio.
Dovevamo capirlo subito che in questa band covava qualcosa
di curioso, caotico, balzano. Bastava soltanto leggere le note stampate
sulla busta del vinile o nel booklet del CD per rendersi conto che c’era
una vena di follia pura che pulsava nel cuore dei Danger Danger. Perché
cosa si può pensare di una band in cui i songwiters sono il bassista ed
il batterista (Bruno Ravel e Steve West), che perde il suo chitarrista
ancora prima dell’uscita dell’album ed ha un cantante (Ted Poley) che
prima faceva esclusivamente il batterista? Folli! Sul loro futuro non
avrei puntato un centesimo, ed in un certo senso ho vinto la scommessa,
perché anche se i Danger Danger sono ancora oggi tra noi, della band di
questo primo album autointitolato non è rimasto proprio niente. Peccato.
‘Danger Danger’ fu, per citare i Pink
Floyd, un momentary laps of reason davvero straordinario, un piccolo (ma
neanche tanto piccolo, poi) capolavoro di ispiratissimo songwriting che la
band non seppe o non volle replicare, mettendosi prima alle calcagna del
pubblico di Poison e Warrant con il più metallico ‘Screw
it!’ e poi aggiornando il proprio sound con innesti moderni. E
tutto ciò, nonostante questo album di esordio sia uno di quei dischi
degni di figurare in quelle (stupidissime, comunque) classifiche del
genere “i migliori cinquanta AOR album di tutti i tempi” o roba
simile, con un risultato in termini di vendite stimato sulle
quattrocentomila copie nei soli Stati Uniti. Un autentico masterpiece
che trae la propria forza quasi esclusivamente dalla straordinaria
efficacia del songwriting e dalla raffinatezza degli arrangiamenti, non
proponendo soluzioni tanto distanti da quelle già sperimentate da altri
in campo rock melodico. Undici canzoni da antologia, insomma, senza filler
o pause. Da dove cominciamo? Dal principio, da “Naughty
naughty”, straordinario impasto di (prendete fiato) Loverboy/Aldo
Nova/Jeff Paris/Legs Diamond, con quel suo ritmo nello stesso tempo così
anthemico e così indolente, magnificamente cool,
il basso che rotola lento e sinuoso... super! “Under
the gun” offre sprazzi di pomp robusto, un piano martellante,
l’atmosfera viene dai pianeti (un altro respiro profondo, please)
Journey/Survivor/Bon Jovy/Surgin. Ancora Jeff Paris ed i Loverboy (quando
mi deciderò a scrivere di questa band sarà sempre troppo tardi) vengono
chiamati in causa nello sfrenato rock’n’roll anthemico di “Saturday
night”. Fantastica “Don’t walk away”,
una ballad che fa tanto canuck aor,
con un pizzico di Def Leppard ad insaporire la pietanza. Sempre il desaparecido
Aldo Nova ed ancora i primi Bon Jovy ispirano il ritmo di “Bang
bang”, notevole anche per l’intreccio dei cori. Su “Rock
America”, solenne e ariosa, i Danger Danger diventano dei Journey
o dei Survivor simultaneamente più duri e più pomp, “Boys
will be boys” impasta alla grande Loverboy e Kiss, con keys heavy
e spettacolari su un coro agile e stuzzicante (i Baton Rouge prenderanno
nota...). “One step from paradise”: la
ballad, classica, ispiratissima, un crescendo ed un refrain di perfezione
assoluta. Poi c’è la mia track preferita, “Feels
like love”: la melodia sublime, quel coro struggente, gli
squisiti tocchi pomp... Chi è riuscito a fare di meglio? Pochi, pochi...
“Turn it on” parla di nuovo la lingua del
miglior melodic rock californiano e chiude alla grande “Live
it up”, party rock tostissimo, alla Black’n’Blue, ma più
colorato, tutte quelle tastiere e chitarre che si intrecciano,
l’orchestrazione dei cori ed il suggello finale, la voce super sexy di
Monica (il cognome della ragazza, i Danger Danger se lo sono tenuto per loro) che
chiude l’album carezzandoti i timpani con un “thanks for coming at the
party...” che ti fa subito premere di nuovo il tasto play
perché la festa ricominci immediatamente... Se avete commesso il peccato mortale di ignorarli, correte a
redimervi; se li avete (colpevolmente) dimenticati, recuperateli. Fin
dalla splendida copertina, quest’album può far capire in un colpo solo
ai profani perché quello straordinario decennio della storia dell’ hard
rock viene chiamato The Big ‘80s...
La storia di questa band è
troppo lunga per riassumerla interamente in questa sede. Comincia nel 1977
e - pare - non si è ancora conclusa. Attualmente i Foreigner dovrebbero
essere in giro per gli states
con una nuova line up che vede il solo Mick Jones superstite degli anni
d’oro, ed alla voce il bravo Kelly Hansen, mentre la sezione ritmica è
oggi formata da Jason Bonham e Jeff Pilson. Solo dettagli, almeno finché
non ci sarà del nuovo materiale da ascoltare. L’ultimo disco
in studio della band è uscito addirittura nel 1994. Undici, lunghi
anni... I Foreigner sono stati una delle
colonne portanti del nostro genere, non si discute. Con ‘4’ hanno
firmato un capolavoro assoluto, l’album che ancora oggi è il più
venduto di tutti i tempi della Atlantic. Ma dopo quel masterpiece ci fu
uno scivolone sul versante pop che fece inorridire tutti coloro che
vedevano nella band di Mick Jones e Lou Gramm l’unica possibile
antagonista dei Journey. ‘Agent provocateur’ gli regalò quello che è
stato forse il loro più grande hit, la canzone che li fece (finalmente)
conoscere fuori dagli USA, “I want to know what love is”: una ballad
favolosa, ma non certo una ballad rock.
Pareva insomma che i Foreigner fossero più interessati ad abbordare il
pubblico di Whitney Huston e Michael Jackson che proseguire sulla strada
dell’AOR. Le smanie soliste di Lou Gramm avvelenarono lentamente il suo
rapporto con Jones e gli altri, e già durante le registrazioni di
‘Inside Information’ Lou meditava di mollare la barca e prendere il
largo da solo, con il risultato di dare a quest’album un input davvero
minimo e fornendo una performance che talvolta risulta piatta e
plastificata: proprio lui, il prototipo del cantante intenso...
Globalmente, ‘Inside information’ è un disco a corrente alternata:
fra ottime pieces spuntano momenti di routine (sia pur competente) e
almeno una irredimibile ciofeca, proprio il singolo prescelto per lanciare
l’album, “I don’t want to live without you”, pop smorto ed
evanescente, senza una sola nota di chitarra, una vera e propria fiera
della banalità cantata da Lou con una voce mai tanto spenta e distante.
Ma anche sulla splendida “Say you will”, un pop rock che veleggia sul
limite della perfezione, il cantante non spinge, limitandosi a fare il suo
compitino con la testa Dio solo sa dove. La title track è tutta keys e
percussioni sintetiche quasi dance (la dance dell’epoca, naturalmente),
con la chitarra che si limita a rifinire e rilegare: simpatica, dinamica,
ma uno non compra un disco dei Foreigner per ascoltare questa
roba... Per fortuna, il discorso pop si conclude praticamente qui.
“Heart turn to stone”, il brano che apre l’album, è un up tempo
vivace con un refrain notevole, fascinoso, ma forse troppo lineare
nell’arrangiamento, procedendo dritta, senza scossoni né sorprese fino
alla fine. “Can’t wait” propone una bella alternanza di parti
atmosferiche e quasi ipnotiche con un refrain urlato e molto blues, mentre
“Counting every minute” è il peso massimo dell’album, un boogie
anthemico alla Bad Company/ZZ Top con tante chitarrone ruggenti, la cassa
di Dennis Elliot in grande evidenza ed un Lou Gramm finalmente
coinvolgente ed aggressivo. Anche “The beat of my heart” non lesina
elettricità, e dopo un bell’intro di chitarra acustica e
spagnoleggiante spunta rombando un gran ziff zeppeliniano su cui Lou
ricama con autorevolezza mentre Mick Jones ci regala finalmente un assolo
degno di questo nome. “Face to face” è di nuovo pop rock di gran
classe smaltato di pregevoli e lucenti tocchi pomp, “Out of the blue”
è una mirabile ballad AOR dalle sfumature crepuscolari e umbratili e si
chiude alla grande con “A night to remember”, un hard melodico
spettacolare, diretto ma nello stesso tempo pieno di invenzioni e finezze. Dopo ‘Inside...’, entrambi i
leader si concedevano al disco solo, e se su quello di Mick Jones si può
tranquillamente stendere il proverbiale velo pietoso (‘Mick Jones’ si
risolveva sopratutto in una raccolta soporifera di ballad alla saccarina),
con ‘Long hard look’ (1989), Lou Gramm riusciva quantomeno a
presentare del materiale dignitoso, anche se sempre troppo sbilanciato in
direzione pop. E nonostante i riscontri a livello di vendite non fossero
poi tanto entusiasmanti, il cantante decise di lasciare in via definitiva
i Foreigner per continuare la sua carriera da solista, anche se la prova
successiva fu con una band nuova di zecca, gli Shadow King, di cui potete
trovare ampia trattazione seguendo questo link. Per Mick Jones e compagni la
situazione era, ovviamente, nero seppia. Trovare un rimpiazzo
all’altezza non era difficile, impresa ardua era piuttosto far accettare
al pubblico dei Foreigner senza Lou Gramm dietro il microfono. La scelta
cadde su Johnny Edwards, giovane e validissimo singer che si era fatto
positivamente notare sull’ultimo album dei King Kobra. Dato che tono e
stile di nuovo e vecchio cantante non erano poi lontanissimi, questa
scelta poteva suggerire che Mick Jones volesse dare una sostanziale
continuità al discorso già sviluppato con gli album precedenti. Invece,
il parto di questa line up, ‘Unusual heat’ (1991), risultò piuttosto
distante dalle atmosfere degli ultimi due dischi. Non era tanto un
recupero delle atmosfere di ‘Double vision’ o ‘Head games’, come
qualcuno scrisse all’epoca, ma semmai il risultato di quella che non si
può definire diversamente da una crisi di personalità di Mick Jones, che
per la produzione di ‘Unusual heat’ si fece affiancare (e poi
schiacciare) da Terry Thomas, il quale applicò ai Foreigner la stessa,
identica ricetta con cui aveva rivitalizzato i Bad Company, sia a livello
di suono che di songwriting. Il risultato di questa strategia fu,
ovviamente, di trasformare i Foreigner in qualcosa di estremamente
somigliante ai nuovi Bad Company... e c’era una strana, forse crudele
ironia in tutto ciò, dato che proprio Mick Jones aveva fallito come
produttore sul primo album della riformata band di Mick Ralphs, quel
’Fame and fortune’ che nel 1986 per poco non aveva affossato
nuovamente la Cattiva Compagnia.
Eppure, da questa sorta di contrappasso dantesco, i Foreigner uscirono
magnificamente. Mick Jones lasciava perdere le tastiere e ritornava a far
ruggire la sua chitarra ed a farle cantare il blues, la coppia
Elliot/Willis pestava sodo come non mai e Johnny Edwards si esprimeva come
un Lou Gramm meno raffinato e singhiozzante, venato di un’asprezza
genuinamente rock. ‘Unusual heat’ è fatto di
chitarre taglienti e cromate, di keys brillanti, di melodia e rock blues.
Quella patina asettica che avvolgeva troppi episodi di ‘Agent
provocateur’ e ‘Inside...’ viene spazzata via da un suono caldissimo
e scintillante, letteralmente dominato dalla splendida voce di Johnny,
mixata ad un volume insolitamente alto per una produzione rock. “Only
heaven knows” apre le danze a tempo di boogie con una miscela
perfettamente bilanciata del più classico suono Foreigner con quella dei
nuovi Bad Company, ricetta riproposta anche su “Lowdown and dirty”, più
sfacciata e aggressiva, su “Moment of truth” e “Mountain
of love”
(schegge di impeccabile rock blues interpretato in chiave AOR), su “When
the night comes down” (un po’ Bryan Adams), su “Flesh wounds”,
ancora cadenzata sul 2/4. La sola “No hiding place” (irresistibile,
peraltro) potrebbe essere scambiata per una outtake di ‘Holy water’ o
‘Nothin’ but trouble’, mentre nel comparto ballate, Mick Jones la
pianta (ed era ora) di travasare miele ad ettolitri, offrendoci grandi
spaccati di melodia muscolare. “I’ll fight for you” e “Ready for
the rain” sono power ballads gigantesche: la prima, un trionfo di
atmospheric power (il piano ed il basso che marciano assieme, il refrain
al limite del pomp, il clima drammatico...); la seconda più AOR, più
rockeggiante. “Safe in my heart” sembra prendere le mosse da “I
don’t want to live without you”, ma è infinitamente più energica ed
ispirata (e Johnny, qui, sembra davvero un clone più giovane e ruvido di
Lou). Conclude la title track, più sul techno AOR, c’è anche un synth
bass che dà un ritmo quasi danzabile, ma con le chitarre a dominare
sempre la scena. Non ho idea se ed in quale
misura questo disco sia stato apprezzato dai fans sfegatati della band, ma
così, a naso, temo che la pregiudiziale sul singer abbia di fatto
bloccato qualsiasi ipotesi di gradimento: la solita questione dei
monickers. Per me, ‘Unusual heat’ è un grandissimo album, sicuramente
da recuperare per chi lo aveva snobbato (ingiustamente) all’epoca della
pubblicazione. La band finì comunque in
naftalina per tre anni, ricomparendo un po’ a sorpresa nel 1994 con una
line up nuovamente rivoluzionata. C’era il ritorno di Lou Gramm, ma una
nuova sezione ritmica che vedeva il fido scudiero di Lou, Bruce Turgon, al
basso e Mark Shulman alla batteria, ed un tastierista titolare (dopo che
negli ultimi album le keys erano state affidate a dei sessionmen), Jeff
Jacobs. ‘Mr. Moonlight’ venne
prodotto dal grande Mike Stone ed è sicuramente l’album più maturo e
completo che la coppia Gramm/Jones abbia mai partorito. L’amalgama
perfetta tra chitarre e tastiere, le mille suggestioni che si inseguono da
una canzone all’altra compongono un quadro fatto di chiaroscuri che
possono essere scabri o suadenti, gentili o brutali. I Foreigner non sono
mai stati una party band, nel loro DNA la malinconia prevale da sempre
sulla gaiezza e ‘Mr. Moonlight’ rappresenta il top di quella poetica,
uno sguardo più che mai adulto
nelle terre crepuscolari in cui Mick e Lou avevano sempre vagato, ma forse
mai con tanta classe e sicurezza. L’ hard più roccioso ( “Under the
gun”, arrabbiata e melodica, “Big
Dog”, scanzonata e blueseggiante), la ballad (“I keep hoping”,
morbidamente - anche troppo, magari... - soul; il capolavoro “Until the
end of time”, dove Lou dimostra una volta ancora quale sia il senso vero
di quell’acronimo, Adult
Oriented Rock...) il rock quasi mainstream, un po’ westcoast (“White
lie”, “Rain”, “All I need to know”, con quelle chitarre dal
suono limpido e fragile, le carezze dell’hammond...), il pomp muscolare
e drammatico (“Real world”, solenne, dal testo spietato), l’hard
melodico (“Running the risk”, “Hole in my soul”, “Hand on my
heart”, sublimi esercizi di rock adulto, intense, ispiratissime),
l’intera costellazione del suono AOR, insomma, risplende attraverso
‘Mr. Moonlight’ con un fulgore che - ripeto - mai prima era stato così
intenso in un disco della band. Per il sottoscritto, il miglior disco in
assoluto dei Foreigner. Dopo ‘Mr Moonlight’, ci sono
state solo compilations, guai fisici per Lou Gramm, tour saltuari. Di
nuovi album di studio, per il momento, non si parla, e non mi sembra che
in questo atteggiamento della band ci sia nulla di strano od originale.
E’ solo una delle conseguenze più nefaste del peer-to-peer e della
duplicazione illegale dei CD: le bands che hanno già un seguito
consistente di fans ed una storia alle spalle non si sentono più
stimolate a registrare, ma puntano solo sui concerti. Fino alla metà
degli anni ’90 nessuno si azzardava a partire in tour se prima non aveva
pubblicato un nuovo disco. Oggi si va in tour e basta, perché i soldi
degli show sono soldi sicuri, per entrare devi pagare il biglietto e non
ci sono scorciatoie che tengano, mentre per ogni CD venduto (su cui le
bands guadagnano poi una percentuale spesso infima) devi metterne in conto
almeno tre copiati. Gli Whitesnake, tanto per fare un esempio, sono in
giro a suonare da almeno un
paio d’anni, ma David Coverdale ha più volte dichiarato di non avere
interesse a registrare nuove canzoni: perché spendere tempo e soldi per
poi farsi derubare? Meditate, gente...
Back to basic, come dicono gli yankees... Era l’anno di
non molta grazia 1985, e l’estensore di queste note un tenero (si fa
per dire) diciottenne che solo da poco si trovava alle prese con quel
fenomeno che ancora non era conosciuto dalle nostre parti come Adult
Oriented Rock. Un amico devoto alle asprezze sonore di Venom, Saxon e
Motorhead, che da poco era andato fuori di testa per una band dal nome
tutto sommato abbastanza fesso (Metallica o una cosa del genere...) la
quale era usa adornare le copertine dei propri dischi con martelli
sanguinolenti e sedie elettriche, mi chiese se conoscevo questi Dokken
ed io ammisi la mia ignoranza riguardo i soggetti in questione. «Guarda,
è proprio il genere di roba che dovrebbe piacere a te », mi fece,
memore probabilmente delle mie chiacchiere riguardo Heart e Ratt. «Fanno
metal, ma non proprio, cioè,
non come i Maiden o i Judas o i Riot, forse più una cosa alla Kiss, ma
neppure, forse più alla Scorpions, diciamo, ma più cantato
(?!)... insomma, la vuoi la cassetta? ». Ah, quella
mitica cassetta... Il nastro divenne trasparente a forza di passare e
ripassare sotto le testine. Poi ne venne un’altra ed un’altra
ancora, e infine il CD. Era il 1985 e i
Dokken avevano inventato il Class Metal. Il percorso non era stato breve
né semplice. Se già ‘Breaking the chains’
mostrava una notevole propensione alla melodia, fu con ‘Tooth
and nail’ che un certo teorema prese chiaramente forma,
arrivando alla formulazione definitiva con ‘Under
lock and key’ (merito dei produttori, Neil Kernon e Michael
Wagener?). ‘Back for the attack’ segnò
la fine temporanea della band, avvelenata dai violenti contrasti tra Don
e George Lynch, ricomposti poi per una reunion che ha prodotto fino ad
oggi solo album indigesti e modaioli, “moderni” nell’accezione
peggiore della parola. C’è sicuramente qualcosa di paradossale e
grottesco nel fatto che coloro che hanno inventato - più o meno - un
certo genere lo rinneghino preferendo seguire le rotte tracciate da
altri act più giovani: è una mancanza di personalità o di dignità?
Forse solo paura: paura di rimanere indietro, di sembrare - orrore! - vecchi.
Non tutti hanno la coerenza e la forza interiore dei Legs Diamond, che
tirano avanti da trent’anni e non hanno neppure goduto di quel
successo e di quegli introiti che permisero a Don di comprarsi una
Ferrari. Oggi, i Dokken vivacchiano in un limbo grigio, sfornando anche
loro dischi a ripetizione per raggranellare un po’ di valsente da
qualche fan alla disperata ricerca di echi che rimandino a quegli anni
‘80 di cui la band proprio non vuol più sentir parlare. Del class metal,
dunque, i Dokken sono stati gli “inventori”, ma che tra l’heavy
metal e la pura e semplice melodia non vi fosse alcun conflitto
l’avevano già scoperto gli Scorpions in Germania ed i grandi Starz
negli USA. Don e George Lynch partirono da questi due fondamentali
capisaldi per spiegare il loro teorema sonoro, ma accentuando
l’aspetto melodico di certe composizioni in chiave - all’epoca,
naturalmente... - contemporanea. Se nei pezzi più heavy Don si esibiva
con uno stile quasi epico in bilico tra Klaus Meine e Bruce Dickinson,
sapeva poi ammorbidire i toni senza risultare falso nelle canzoni dove
al riff assassino si sostituiva la melodia suadente, come in quel
capolavoro ancora oggi ineguagliato che s’intitola “Jaded
heart”, in cui gli allievi dimostravano di aver superato e
travalicato la lezione dei maestri Scorpions. Anche i testi - mai da
sottovalutare - si allontanavano con decisione da quell’immaginario
orroroso/sanguinolento che caratterizzava e caratterizza ancora oggi
(purtroppo) l’heavy metal: non le solite lyrics a base di squartamenti, mostri, battaglie campali, satanismi
pecorecci, stasera-ho-voglia-di-rompere-un-po’-di-teste,
sono-un-selvaggio-figlio-del-rocchenrol-ma-ho-il-cuore-buono, eccetera
eccetera, ma versi ispirati al pensiero fisso di qualunque individuo di
sesso maschile ed in buona salute (e se non avete afferrato di cosa si
tratta, consultate subito un medico). Nel nostro paese, i Dokken e più in generale tutta l’estetica del class non hanno comunque mai attecchito. Quando vennero a suonare da noi a supporto degli Accept, i metallari assatanati delle prime file non si fecero scrupolo di prenderli a sputi e lattine in faccia per fargli capire quale era il gradimento che mostravano verso quella proposta che aveva il fondamentale difetto di essere troppo intelligente e raffinata per le loro orecchie abituate ai grugniti da cinghiale in calore di Udo o a quel cantato stile sirena dell’autoambulanza di tanti heavy metal singer che ancora oggi va per la maggiore. Non parliamo poi del chitarrismo di George Lynch, che mai si è prestato al pogo o all’headbanging... Per converso, quel pubblico che a fine anni ‘80, scopriva la musica dura, trovava troppo aspra una dimensione musicale che non si concedeva alla melodia con la facilità degli Europe o di Bon Jovi, mediata poi da un frontman che non possedeva certo le qualità estetiche di Joey Tempest o del bel Jon del New Jersey. Anche nel resto d’Europa, non mi risulta che i Dokken abbiano mai avuto riscontri stratosferici, restando praticamente confinati alla classica audience nippo-americana (il live ‘Beast from the east’ non fu registrato in Giappone per caso), che ancora oggi resta il principale mercato di una band che è solo l’ombra sbiadita del colosso del (bel) tempo che fu.
Certe volte è veramente difficile capire cosa passi per la testa dei discografici. Comprendere cosa ci sia alla base di certe scelte, intuire lo schema logico di strategie produttive e di marketing che paiono dettate piuttosto da schizofrenia o pura demenza. Quello dei Witness potrebbe essere un caso emblematico di strategie incoerenti e/o autodistruttive, che portarono come risultato ultimo alla fine prematura di una band che avrebbe potuto recitare un ruolo da protagonista e invece è sparita nel nulla ed è stata (ingiustamente) dimenticata. Vennero scoperti
mentre suonavano nei club della natia Georgia, il nome era in
origine Native, poi mutato (perché poi?) in Witness. L’Arista li
mise sotto contratto trattandoli da classica next
big thing, e spedendoli a San Francisco per registrare subito un
disco. L’attenzione della major s’era concentrata, immagino,
sopratutto sulla bella e bravissima frontgirl, Debbie Davis,
un’ugola fantastica che poteva essere considerata quasi
come una sorta di versione femminile di David Coverdale. Purtroppo,
il trasferimento sulla West Coast non dovette fare bene alla band,
che cominciò a sfasciarsi finché dei Native originali non rimasero
che Debbie ed il tastierista Joey Huffmann. A questo punto, anziché
dargli tempo di ricostruire con calma la line up, scrivere un po’
di canzoni - crescere come una vera band, insomma - l’Arista,
sempre più in fregola, li spedì ugualmente in studio, mobilitando
dei session men di prima grandezza (Neal Schon, Tim Pierce, Brad
Gillis, Steve Smith, Danny Chauncey) e comprando canzoni da fargli
interpretare (scritte, fra gli altri, da Neal Schon, Michael Bolton,
Desmond Child, la coppia Bon Jovy / Sambora). E’ chiaro che ormai
una band non esisteva più, ed i costi del progetto erano lievitati
in maniera pazzesca: non si trattava di prendere cinque ragazzi che
suonano assieme e chiuderli in uno studio con un produttore e poi
vedere cosa succede, ma di staccare assegni uno dopo l’altro a
favore di autentici protagonisti della scena AOR che non prestavano
certo la propria opera per qualche spicciolo. Insomma, l’album dovette venire a
costare una somma non indifferente, e l’arruolamento in pianta
stabile di Damon Johnson alla chitarra e Eddie Usher al basso arrivò
troppo tardi perché i due potessero contribuire in qualche modo al
disco. A questo punto, logica (o, quanto meno, buon senso) avrebbe
voluto che l’Arista facesse il diavolo a quattro per promozionare
i Witness, per attirare l’attenzione su di loro. Invece, l’album
fu scaricato nei negozi e la faccenda finì lì. Forse non venne
girato neppure un videoclip e sì che Debbie Davis aveva tutti i
numeri per farsi notare. E i Witness si sciolsero, in senso
letterale ed in senso lato. Già dopo qualche mese di loro non si
parlava più, Damon Johnson aveva formato i suoi Chinatown (dopo
sarebbero venuti i grandi Delta Rebels e poi i Brother Cane), Joey
Huffman passò anche lui nei Brother Cane e poi lavorò con Soul
Asylum e Matchbox 20, e Debbie Davis finì a fare la corista per i
Lynyrd Skynyrd... In tutta questa
storia assurda, l’unica certezza è la magnificenza di un disco
che avrebbe meritato ben altra attenzione di quella che poi ebbe da
un publico frastornato da un flusso continuo di album più o meno
buoni. Benedetto da una qualità audio fenomenale (i produttori
erano Kevin Elson e Bill Dresher), ‘Witness’
era un ruggito elegante di hard rock melodico suonato (ovviamente)
alla grande su cui la voce stupefacente di Debbie imponeva con
autorevolezza il proprio marchio. “Show me
what you got” apriva l’album in un clima caldissimo,
bollente, tra un riff serrato, un coro sinuoso e anthemico vagamente
Scorpions, ed una fase solista divisa tra hammond e chitarra. “Do
it till we dropӏ un grande anthem sorretto da un riff
geometrico ed un basso pulsante tagliati dalle sciabolate di keys su
cui si innesta un superbo coro a due voci. Michael Bolton firma il
robusto AOR da spiaggia “Am I wrong”,
poi c’è il refrain favoloso di “Desperate
lover”; “Let me be the one”
è come acciaio avvolto nella seta, l’alternanza chitarre/tastiere
è esemplare, il refrain da infarto. Echi root e suggestioni Heart
animano “You’re not my lover”,
sempre tostissima, poi irrompe “Jump into
the fire”, AOR corposo, galoppante, ritmato dal sinth bass,
un assolo ancora diviso tra chitarra e keys, un andamento quasi
danzabile eppure sempre all’insegna dell’aggressività
sofisticata. “When it comes from the heart”
e “Borrowed time” sono
l’apoteosi: un po’ alla Jeff Paris, refrain che stendono secchi,
la prima ha un bridge divino, una vera lezione di atmospheric power,
la seconda è illuminata da un assolo - mi ci potrei giocare la
testa che è suo - di sua altezza Neal Schon. “Back to you”
conclude in gloria con una melodia colossale, tra Journey e Bon Jovy. Mi ero
ripromesso di parlare di certi dischi solo quando sarebbero stati
ristampati, per non alimentare il gioco al massacro che e-bay ed i
rivenditori specializzati in rarità fanno sui nostri portafogli, ma
pare che tanti, troppi album non siano destinati a ritrovare a breve
(e magari a ritrovare e basta) la strada della riedizione; ed
allora, criminale sarebbe lasciarli nell’oblio, non far venire
l’acquolina in bocca a chi, smesso di leggere queste note e preso
atto della parola “scarsa” che nel box di apertura ne qualifica
la reperibilità, comincerà a mandare bestemmie all’autore,
colpevole di avergli segnalato un altro masterpiece che potrà
ottenere solo a fatica e pagando quello che pudicamente viene
definito “prezzo d’affezione”...
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