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Chi dice che una band nata a tavolino, messa su per assecondare un trend e ramazzare un po' di soldi non sia in grado di sfornare un capolavoro? Piccolo, magari, ma pur sempre capolavoro. E tale è l'unico album degli Shadow King.
Già parlare di 'band', per cominciare, è improprio. Gli Shadow King erano la creatura di Lou Gramm e Bruce Turgon, il polistrumentista che aveva accompagnato il cantante dei Foreigner in tutte le sue scorribande soliste. Il problema stava nella fissazione del buon Lou di presentare a proprio nome degli album al limite dellla musica pop, dischi che lasciavano l'amaro in bocca ai vecchi fans e totalizzavano vendite ben poco soddisfacenti. Con l'hard AOR che andava ormai per la maggiore, a Lou e Bruce non rimaneva che convertirsi a questa dimensione musicale se volevano assicurarsi una fetta di quella ricca torta che di lì a poco il Grunge gli avrebbe soffiato di sotto il naso. Bruciatosi ormai per quel mercato come solista, Lou Gramm pensò bene di adottare un moniker diverso per la nuova avventura, e cercò un paio di comparse per dar credito e sostanza a questa rinnovata incursione nei territori già battutissimi del melodic rock. Venne pescato Vivian Campbell, che dopo l'esperienza durata tre dischi nella band di Ronnie James Dio ed il lunghissimo tour ed i videoclip con gli Whitesnake di ‘1987’ si era conquistato una discreta notorietà e poteva dare alla band la giusta immagine di compromesso tra melodia ed energia. Purtroppo, la funzione di Campbell era sopratutto decorativa, dato che il Nostro non contribuiva al songwriting, salvo che in una canzone, la conclusiva "Russia", e la sua chitarra faceva capolino esclusivamente negli assoli, sempre brevissimi e accademici, mentre tutte le altre parti di chitarra ritmica le incideva Bruce Turgon (oltre a quelle di basso e tastiere). Alla batteria, l'ex drummer degli Harlow (non l'AOR band di Tommy Thayer e Teresa Straley) Kevin Valentine, ma quanto contino generalmente i batteristi nell'economia compositiva di una band lo sappiamo tutti.
Questa band fantasma ebbe vita breve e travagliata: suonò un solo concerto, all'Astoria di Londra, e l'arrivo di Kurt Cobain e compagnia brutta la sfracellò in men che non si dica. Il disco divenne quasi subito il re delle offerte speciali e fino ad un paio di anni fa si poteva ancora trovare nei forati, ad un quarto del prezzo che costava all'uscita.
Insomma: erano arrivati tardi. Ma se ‘Shadow King’ fosse stato pubblicato soltanto un paio d'anni prima, non è follia supporre che avrebbe potuto dare molto fastidio a Bad English e Whitesnake nelle charts americane. Assistiti alla produzione da Keith Olsen, Gramm e Turgon sfrondano il suono dei Foreigner di tutta la sua mestizia, Lou smette finalmente di sussurrare e alza il volume, ritrovando un'aggressività che pareva definivamente archiviata già dopo '4'. Intendiamoci: siamo sempre lontani dall'hard melodico più battagliero, ma la sterzata AOR è netta e le tentazioni mainstream che hanno sempre contraddistinto le produzioni dei Foreigner qui mancano del tutto. La forza degli Shadow King stava sopratutto nel riuscire a coniugare un songwriting raffinatissimo con arrangiamenti lineari, essenziali, su cui troneggiava la grandissima voce di Lou Gramm. Se cercate una derivazione più diretta ed aggressiva, meno notturna e più elettrica della band di "Jukebox hero", qui c'è pane per i vostri denti.
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Per capire ed apprezzare fino in fondo questo disco bisogna essere stati li, nel 1995, ad attenderlo con l'acquolina in bocca, a contare i mesi, a tempestare i vari importatori per sapere quando, maledizione, quando sarebbe stato finalmente pubblicato.
Se questa fosse una favola, si potrebbe cominciarla con la classica frase su cui Snoopy, in procinto di dare l'avvio al suo romanzo, finiva sempre per incagliarsi: Era una notte buia e tempestosa... E lo era davvero. Se mai c'è stato un momento in cui sembrava che il melodic rock dovesse sparire dalla faccia della terra, quello è stato il periodo, grossomodo, tra il '94 e il '96. Le uscite si contavano sulle dita di una mano e venivano dal Giappone (a quali prezzi...) o da microscopiche labels praticamente prive di distribuzione, e spesso erano lavori di personaggi di secondo o terzo piano, mediocri e/o dalla resa sonora orrenda.
L'annuncio del progetto F/P, la notizia che i due avevano raccolto attorno a loro una quantità sterminata di ospiti di lusso, accese un lume in quella notte, fu una boccata d'ossigeno per noi che soffocavamo tra i miasmi del Grunge e dell'Alternative, che non volevamo o potevamo rassegnarci alla fine di un'era musicale di splendori e magnificenze.
E la statura dei frontmen giustificava le aspettative per un prodotto che non si supponeva di onesto artigianato, ma assemblato con materiale di prima qualità. Ricky Phillips era fresco reduce dai due dischi dei Bad English, in cui non si limitava a suonare il basso ma partecipava attivamente alla composizione delle canzoni, ed era già stato con John Waite l'anima degli assi del pop-rock Babys. Fergy Frederiksen era stato la voce dei Toto nel loro capitolo più duro, 'Isolation', del 1984, e dei pomp-rockers Le Roux in 'So fired up'. La lista degli ospiti era da infarto: Neal Schon, Bobby Blotzer, Bruce Gowdy, Guy Allison, Dean Castronovo, Tim Pierce, Alan White, Pat Torpey, Steve Farris, Mike Finnigan, Marcus Nand... Tiriamo il fiato un attimo e prepariamo i cardiotonici, perché Fergy e Ricky riescono a tirare dentro come songwriters oltre a Bruce Gowdy anche Greg Giuffria e Punky Meadows!
Adesso dovrei, secondo consolidata consuetudine, cominciare a parlare delle canzoni suonate e composte da questo Dream Team dell'AOR, spiegarle e descriverle, dirvi dove questo suona la batteria e quest'altro la chitarra e così via. Trattare quest'album come se fosse un disco qualsiasi. Ma non lo era. F/P era, innanzitutto, una prova d'amore, una testimonianza che non esito a definire appassionata, di devozione verso un genere musicale bistrattato e accusato di ogni nefandezza. Non a caso, Ricky Phillips ringrazia tutti i musicisti che hanno collaborato con lui e Fergy per - traduco letteralmente dalla nota del booklet - "lo spirito con cui hanno partecipato a questo progetto". In quel momento così nero, tanti artisti si associano e registrano un album che è una provocazione ed un grido di speranza. Questo disco è un gigantesco dito medio alzato in faccia al mondo musicale trendista, a MTV, alle mode, ai Nirvana, ai Pearl Jam. É un minuscolo ma imprendibile baluardo innalzato a difesa del Class Rock: the last in line, come nella canzone di Ronnie James Dio, l'ultimo castello, l'ultima linea di eroi prima del vuoto e del nulla. Un prodotto che si sapeva in anticipo destinato a pochissimi fruitori appassionati, stampato forse appena in qualche migliaio di copie,pubblicato dalla piccola label svedese Empire e distribuito regolarmente solo in cinque o sei paesi europei, che a stento avrebbe ripagato le spese per la sua incisione.
Se l'AOR oggi esiste ancora, è mia ferma convinzione che una parte non indifferente del merito della sua sopravvivenza vada a questo disco, in cui tanti artisti ritrovatisi quasi da un giorno all'altro ai margini di una scena musicale in cui avevano dettato legge, celebrano ancora una volta i riti del suono lussuoso e cromato, della raffinatezza aggressiva del rock destinato agli over-18 in tutte le sue multiformi sfaccettature. Un disco enorme, con un songwriting da infarto e che in un altro momento storico avrebbe buttato giù a spallate qualunque concorrente alla vetta di Billboard.
Se vi capita di trovarlo negli scaffali di qualche negozio di CD usati - ma ne dubito, ne dubito fortemente... - non esitate a farlo vostro.
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Da questa band mi ero tenuto fino ad oggi a distanza perchè il passato del suo leader, il chitarrista Ralph Santolla, non mi convinceva del tutto. Me lo ricordavo con i prog-metallers Eyewitness, e non era proprio un bel ricordo. Ma ho letto cose talmente buone riguardo quest'ultimo lavoro della sua nuova band che ho deciso di rischiare e investire un po' dei miei sudati quattrini in ‘Hourglass’. E sono felice - e molto sollevato - di poter scrivere che non sono stati soldi buttati.
I punti di riferimento di questa band internazionale (i due chitarristi sono americani, il cantante - Jorn Lande - è norvegese, mentre la sezione ritmica viene dall'Austria) sono quanto mai vari, ma se dovessi fare un nome a tutti i costi, direi che le similitudini più spinte sono con i Giuffria di ‘Silk + Steel’, anche per un uso costante delle tastiere, suonate da ben cinque ospiti fra cui spicca il sempreverde fuoriclasse Don Airey. E la band tende in effetti al suono solenne, anche se rifugge dall'epico, basta sentire l'iniziale "Power to love", l'incedere decisamente zeppeliniana della title track, o "Rocket ride", con un coro stile Queen. Detto che la band si disimpegna brillantemente anche nelle ballads, il top dell'album mi pare senza dubbio "Masquerade", un hard melodico levigato e raffinatissimo, dal refrain struggente: una direzione su cui la band dovrebbe insistere con maggior convinzione, dato che i mezzi per eccellere nel settore meno aggressivo del genere li ha ampiamente. Buona la produzione curata da Santolla e Lande, e di grande spessore il suono che però penalizza a volte - stranamente - i solos di chitarra. Promossi con lode.
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Fare la storia di questa band equivale a ripercorrere la parabola dell'AOR fine anni '80: i fasti, la gloriosa decadenza, il silenzio. Gli House of Lords compongono con Giant e Bad English quella magica triade che ogni appassionato di rock adulto dovrebbe conoscere a menadito, i fondamentali, il top assoluto che questa musica ci abbia dato. Potrebbe apparire addirittura superfluo affrontare una disanima del loro materiale. Diciamo, allora, che queste note sono dedicate a chi s'è accostato da poco al genere, e magari crede che l'AOR inizi con i Ten, ma anche ai più vecchi, a cui farà forse piacere farsi rinfrescare la memoria.
La band non nasce dal nulla, ma rappresenta una versione riveduta e corretta dei Giuffria, il gruppo che Gregg Giuffria aveva messo su dopo la fine degli storici Angel. A parte il nome, oggettivamente arduo da pronunciare e memorizzare per gli yankees, i Giuffria non avevano alcun particolare difetto o manchevolezza che potesse decretarne la fine prematura. Semplicemente, non vendevano abbastanza dischi. Complice Gene Simmons e la sua neonata etichetta discografica, Gregg decise di rinnovare l'immagine della propria band e rilanciarla alla grande, a partire dal nome che fu mutato nel più suggestivo e pomposo House of Lords, e di ridisegnare leggermente i confini del sound, concedendo più spazio alla chitarra del virtuoso Lenny Cordola - che aveva preso il posto di Craig Goldie, emigrato con poca fortuna alla corte di Ronnie James Dio - che sull'ultimo Giuffria, ‘Silk + Steel’, era tenuta decisamente a freno. Alla produzione rimase il veterano Andy Jones, si provvide ad acquistare un paio di canzoni da illustri songwriters e tutto sembrava a posto quando Mr. Simmons decise che David Glen Eisley, il collaudatissimo cantante dei Giuffria, non era adatto alla nuova identità della band, e pretese la sua sostituzione. Cosa avesse il povero David che non andava, proprio non lo so, e basta sentire le versioni delle canzoni del primo album cantate da lui e recentemente pubblicate a suo nome nell'album ‘Lost tapes’, per sospettare che ci fossero motivi extramusicali alla base del licenziamento, o uno di quei capricci da Gran Capo che trovano giustificazione solo nella voglia di imporre i propri giudizi agli altri. Comunque sia, Eisley venne allontanato e fu reclutato in fretta e furia lo sconosciuto James Christian, cantante di quegli L.A. Rocks che avrebbero esordito su disco qualche anno dopo con il nome mutato in Eyes e l'onnipresente Jeff Scott Soto alla voce. Anche la sezione ritmica venne rinnovata per intero. Alla batteria arrivò il jolly Ken Mary, già visto in azione nei Fifth Angel e nella band di Alice Cooper, uno strumentista di grande abilità e talento, mentre dai Quiet Riot rientrò Chuck Wright, già autore delle parti di basso sul primo Giuffria.
Il primo, omonimo album della band, uscito nel 1988, è la logica prosecuzione di quanto i Giuffria avevano fatto, e non potrebbe essere altrimenti, anche se il suono è a tratti più metallizzato, molto meno pomp, e James Christian e Lenny Cordola ne rappresentano le vere rivelazioni. Il chitarrista, finalmente sciolto dai vincoli ultramelodici e pomp dell'incarnazione precedente della band, è libero di scatenare tutta la propria inventiva di autentico guitar hero, fortunatamente lontana dal neoclassicismo di Malmsteen e compagnia, e molto più vicina - fatte le debite proporzioni - alle invenzioni ed alla fantasia di un Joe Satriani o di un George Lynch. Il singer - che, paradossalmente, ha una voce non tanto diversa da quella del suo predecessore, anche se rifugge da quei toni alla Steve Perry in cui spesso e volentieri amava esibirsi Einsley - si rivela un interprete maturo, dalla voce potentissima ed espressiva, con delle sfumature enfatiche alla Robert Plant che si faranno sempre più accentuate nel prosieguo della carriera del gruppo.
Il glorioso intro di tastiere che fa da preludio alla prima track, è l'unico sfogo solista che Gregg Giuffria si concede lungo tutto l'arco del disco, preferendo saggiamente l'impatto globale in un lavoro che si muove lungo il sentiero del rock adulto in tutte le sue diramazioni, da quello più anthemico e spettacolare ( "Pleasure Palace") al puro AOR ( "Love don't lie", scritta da Stan Bush e già incisa su un suo album, "Jealous heart"), dallo sfacciato metal californiano ( "Slip of the tongue") a quello che potremmo definire 'pomp muscolare' ( "Under blue skies", che si apre con quelle trombe barocche che fanno tanto Asia, "Edge of your life", "Hearts of the world", anthemica e battagliera), dall'hard melodico ("I wanna be loved", scritta da Mandy Meyer) al puro e semplice hard rock, ossia "Lookin' for strange", dove la band si scatena in un indiavolato saggio di tecnica strumentale condotto con una leggerezza, una spontaneità ed un sincero divertimento da lasciare letteralmente a bocca aperta, qualcosa che solo i Deep Purple ed i Led Zeppelin prima ci avevano offerto su un tale livello, con il duetto nella parte centrale della canzone tra la chitarra di Lenny Cordola ed i vocalizzi planteggianti di James Christian da consegnare agli annali del genere.
I primi responsi di vendita furono buoni, ma la band decise di complicarsi la vita rifiutando di intraprendere grossi tour negli USA e limitandosi a girare un solo videoclip per sostenere la promozione dell'album. Forse le difficoltà nell'organizzare i concerti stava nella frenetica attività di session man di Ken Mary, che poco tempo doveva lasciargli per seguire i compagni nella meno remunerativa dimensione live, fatto sta che non mancava un pizzico di superbia nel voler affidare le proprie sorti come band unicamente al disco, per quanto superlativo fosse, ed al pedigree di chi lo aveva inciso.
Le vendite si attestarono ad un livello tale da permettere comunque alla band di lavorare con tranquillità al successore dell'acclamato esordio, che uscì nel '90 e venne intitolato 'Sahara'. La formazione era per quattro quinti invariata, Lenny Cordola aveva infatti abbandonato la band per motivi mai chiariti, ed era stato sostituito da Michael Guy, il quale era stato il chitarrista di un gruppo bravo e sfortunato, i Fire, che fece molto parlare di sé per un demo tape e lasciò un'unica testimonianza discografica della propria esistenza nella fondamentale compilation ‘Street survivors’. Non è chiaro però se Guy abbia effettivamente suonato sul disco, o se sia arrivato solo a registrazioni concluse, e la totalità delle parti di chitarra non sia invece da attribuire al ricco stuolo di ospiti e session man, che annovera Doug Aldrich, Chris Impelliteri, Mandy Mayer e Rick Nielsen. E tutta questa gran schiera di virtuosi della chitarra è un preciso indizio della volontà del gruppo di emigrare verso lidi ancora più metallici di quelli abbordati col primo album, al punto che questo secondo disco si può tranquillamente catalogare alla voce 'class metal', un album potentissimo eppure sempre agile e spettacolare, dove tutte le ultime schegge dell'eredità pomp di Angel e Giuffria vengono liquidate a favore di un suono cromato, perfettamente in linea con il metal sound di fine anni '80 ma arricchito e 'dilatato' dalle tastiere di un Gregg Giuffria che non si fa problemi a fare un paio di passi indietro per lasciare spazio alle bordate chitarristiche dei vari session man (il più presente dei quali sembra sia stato Doug Aldrich).
La band non sfugge al morbo zeppeliniano che tanti aveva contagiato alla fine di quel decennio, e "Shoot", il brano d'apertura del disco, è l'ennesimo, straordinario omaggio al riff di "Kashmir", attorno a cui si sviluppa un saggio di arena rock da manuale, bissato nella title track che può contare anche su un sontuoso intro di keys. E poi, anthem spettacolari ( "Laydown staydown", "American babylon"), puro US metal ("Kiss of fire"), party rock'n'roll ( "Heart on the line", scritta da Rick Nielsen), uno straordinario power blues - neologismo del sottoscritto - intitolato "It ain't love" ed il più pacato AOR "Remember my name". La band invece toppa completamente la cover più prestigiosa, "Can't find my way home", scritta da Steve Winwood nel 1969 per i Blind Faith,(band che durò un solo album e contava anche sulla presenza di un Eric Clapton non ancora senile e rincoglionito e di Ginger Baker, entrambi freschi reduci dall'esperienza Cream). Questa canzone che dovrebbe essere interpretata su toni soffusi e malinconici viene trasformata dalla band in un inno roboante, con una parte centrale di tastiere al limite del wagneriano, snaturandone completamente lo spirito (assolutamente impeccabile sarà invece la versione che ne daranno qualche anno dopo gli Spin 1ne 2wo nel loro cover album).
Sul destino commerciale di ‘Sahara’ ci sono voci contrastanti. Chi dice che fu un flop, chi gli attribuisce il platino, che negli States fa un milione di copie tonde tonde. Il flop sicuro fu quello della Simmons Records, che chiuse i battenti lasciando a terra la band proprio mentre il grunge cominciava a far girare la testa agli adolescenti americani. Un terzo album sembrava improbabile, anche perché le notizie sul fronte interno davano gli House Of Lords ridotti ormai alla sola coppia Giuffria-Christian. Ma nel 1992, un po' a sorpresa, ecco che il terzo disco, intitolato 'Demons down', va in porto (su etichetta Victory, sussidiaria della Polygram). I nuovi arrivati sono Tommy Aldrige, in fuga dagli Whitesnake, Sean Mc Nab, reduce dei Quiet Riot come il suo predecessore al basso, e lo sconosciuto Dennis Chick alla chitarra. La lista degli ospiti è ricchissima come al solito, anche nei songwriters ( tutte stelle di prima grandezza: Mark Baker, Mark Spiro, Bob Marlette, Tim Pierce, Mike Slamer, Alan Pasqua), e della produzione si incarica David Thoener, che già aveva mixato 'Sahara'.
La band non lesina sforzi per confezionare un prodotto sopra la media, che si pone quasi al crocevia dei primi due dischi, a mezza strada tra il furore metallico di 'Sahara' e le reminiscenze pomp del primo album. Su ‘Demons down’ la fanno da padrone l'hard melodico e l'AOR di più stretta matrice americana, solo la canzone d'apertura, "Oh father", si muove su sentieri più solenni. Ma già la title track - troppo maledettamente breve, secondo me - suona la carica, con un inizio in puro stile western ed una parte centrale di tastiere assolutamente gloriosa eppure lontana da ogni manierismo o compiacimento. "What's forever for" è una power ballad di straordinario impatto, a seguire il superbo lirismo zeppeliniano di "Talkin' 'bout love", con James Christian che dà finalmente sfogo a tutte le sue tentazioni planteggianti. "Spirit of love", AOR ritmato e arricchito dai cori di Fiona, precede la scatenata "Down, down, down", melodic metal di raffinatissima fattura ma anthemico come pochi, una canzone che senza volgari forzature allude indiscutibilmente ad uno spulzellamento... Ancora US metal in "Metallic Blue" - tirata forse un po' troppo per le lunghe - e poi una ballad da infarto, "Inside you", tutta chitarra acustica e tastiere, un'apoteosi melodica, punto d'incontro ideale tra il pomp e l'AOR, senza dubbio una delle più straordinarie, complete, regali ballad che il nostro genere abbia mai prodotto. "Johnny's got a mind of his own" procede solidamente lungo la direttrice chitarra/tastiere inaugurata su 'Sahara', e il gran finale è per "Can't fight love", divertente anthem con un bel retrogusto settantiano, dominato da cori di grandissimo impatto.
Con questo disco eccezionale - il migliore in assoluto della band, a mio parere - pubblicato quando l'AOR era già commercialmente morto si chiude l'avventura degli House of Lords. Tralascio di parlare dei dischi dei The Lords, che non ho mai avuto il piacere di sentire perché giunti ai nostri lidi solo come import giapponese, con una band ricostituita parzialmente e mancante del suo fulcro, ossia Gregg Giuffria in persona (che deteneva e detiene ancora oggi i diritti sul nome della band, e si oppose giustamente al suo uso da parte degli ex-compagni). Da qualche anno si parla di un ritorno degli House of Lords in formazione originale, ma niente di concreto si è ancora visto o, cosa più importante, sentito, fino ad oggi.