Fino alla provvidenziale ristampa proposta dalla Bad Reputation l’anno passato, per entrare in possesso dell’unico album dei Deadringer ci si doveva svenare: le quotazioni arrivavano ai 200 dollari per i vinili ancora incellofanati, e il giro d’affari era talmente ghiotto da spingere i falsari a replicare il CD (ovviamente il tarocco – di provenienza russa – porta l’etichetta originale, quella della indie Grudge). Per inciso, è strano che ‘Electrocution Of The Heart’ sia diventato così raro, dato che, pur essendo una indipendente, la Grudge aveva i suoi mezzi e ha pubblicato tanti dischi di interpreti più o meno prestigiosi (fra gli altri, contiamo Little Richard, Crack The Sky, Godz, Frank Marino, Brian Auger, American Angel) che rari non lo sono mai stati. Il fatto poi che ci sia gente disposta a sborsare cifre – come si dice pudicamente oggi – “importanti” per qualcosa che si può ottenere nella sua essenza con la massima facilità e senza pagare un soldo visitando uno dei tanti siti consacrati al downloading illegale dice cose interessanti (ma anche un pelo inquietanti, se vogliamo) sulla natura umana. Ma chi erano i Deadringer? A leggere i nomi della line up e gli autori delle canzoni che compongono ‘Electrocution Of The Heart’, appaiono una sorta di succursale dei Blue Oyster Cult: alle tastiere figurava Joe Bouchard, e tra i songwriter c’erano (oltre a Joe) suo fratello Albert e Donald “Buck Dharma” Roeser. E il resto della band non era certo formato da giovanottelli appena arrivati dal paese con la chitarra sotto il braccio: al microfono troviamo Charlie Huhn (Ted Nugent, Humble Pie, Foghat, Gary Moore, Victory), Jay Jesse Johnson (Arc Angel, Cannata, Rossington Band) alle chitarre, Neal Smith alla batteria e Dennis Dunaway al basso (la sezione ritmica della band di Alice Cooper). Tutta gente navigata, insomma, che tentava la sorte con il rock melodico nel momento storico che vedeva il genere al top del gradimento negli USA, facendosi produrre da un altro veterano, John Stronach (già al lavoro con Joe Walsh, Keith Moon, REO Speedwagon, Roadmaster). Il risultato? L’album non comincia bene: anzi, diciamo pure che comincia malissimo con “Everybody Rock”, melodic metal tra l’anthemico e l’epicheggiante che riassume in peggio Malice, Dio e Y&T, e già in quel 1989 che vide l’uscita di ‘Electrocution…’ non poteva che suonare banale, sorpassato e stantio. Facciamo (per quanto è possibile) finta di niente e passiamo a “When You’re In You’re In”, track senza infamia e senza lode che fa pensare a dei Twisted Sister in una versione più commerciale e patinata, e comincia a suscitare dubbi sinistri nell’ascoltatore, che (legittimamente) si chiede: questo non doveva essere un disco di rock melodico? E allora, il rock melodico dov’è? Arriva – infine – con “Love’s a Killer”, power ballad dalla bella melodia che procede fra chitarre acustiche e tastiere che si fanno via via più presenti, salendo al proscenio nel finale con toni quasi pomp. Se “Secret Eyes” è un riuscito innesto Journey / Survivor, “Balls Out” ci porta dalle parti degli Autograph, ruvida, divertente, con un refrain da un milione di dollari. “Summa Cum Loud” (che i Blue Oyster Cult eseguiranno più volte dal vivo) è un classico metal californiano, melodico al punto giusto, un po’ Ratt, un po’ Keel, e su quella falsariga si muove “Double Talk”, con il plus di un trascinante ritmo boogie. “Dangerous Love” è un’altra pregevole power ballad, drammatica e potente, mentre “Bring on the Night” ci serve una melodia molto Journey su un tessuto di solido hard rock punteggiato di keys. Chiude l’album “Unsung Heroes”, arena rock dallo spettacolare impasto chitarre / tastiere, condizionato però da un mixaggio incoerente che ne smorza la carica. Non per caso, proprio di questa canzone viene offerto nella ristampa un nuovo mix che corregge il difetto principale della versione già edita (la voce troppo avanti nello spazio sonoro) però guasta la qualità audio, dato che il suono risulta qui un po’ impastato. Escludendo quel mezzo obbrobrio in apertura (quale demone abbia spinto la band a scriverla, inciderla e piazzarla addirittura al primo posto in scaletta non è dato sapere: forse è solo un caso – tutt’altro che infrequente – di black out dello shit detector), ‘Electrocution Of The Heart’ è dunque un album di buona caratura. Una produzione più brillante e multilayered l’avrebbe senza dubbio incrementata, ma la Grudge non era label che potesse permettersi di mandare una band in studio a registrare per sei mesi o piazzare dietro il banco del mixer a dirigerla gente come Bruce Fairbairn o Mike Stone. Un sentito ringraziamento, allora, alla label francese per aver cavato l’unico prodotto a nome Deadriger dall’ambito del collezionismo duro e puro.
Quella dei Billy Satellite è la classica storia della band stritolata dai meccanismi troppo spesso perversi e/o idioti dell’industria discografica americana. Messi sotto contratto dal produttore / promoter / songwriter John Carter per la Capitol, incisero il loro primo album nel 1984: riscuotendo – è vero – un successo modesto sulla Billboard 200 (numero 139 di picco) ma facendosi notare con due singoli che ottennero riscontri positivi, grazie all’esposizione che gli venne con i tour nel ruolo di supporter per Night Ranger (avevano lo stesso manager, Bruce Cohn) e Jefferson Starship. Mentre registravano il secondo album, Carter lasciò però la Capitol e si accasò alla A&M, con il suo posto preso da Jimmy Iovine, che per le band assunte da Carter non aveva il minimo interesse. Perché era così che funzionava: se l’A&R man che ti aveva portato alla label se ne andava o veniva licenziato, il tuo contratto diventava carta straccia. E così, i Billy Satellite si ritrovarono all’istante disoccupati, e nessuno dei suoi membri ritenne che valesse la pena di insistere con quel moniker, giusto o sbagliato che fosse. ‘Billy Satellite’ (pubblicato solo su LP e cassetta) finì nel dimenticatoio, recuperato solo nel 2000 dalla label tedesca ATM (che lo ristampò con una nuova immagine di copertina) mentre la Rock Candy lo ripubblicò con un bel remastering nel 2009 e oggi è disponibile su Amazon Music. Ma chi erano, i Billy Satellite? Voce e chitarra era Monty Byrom, l’altra sei corde era nelle mani di Danny Chauncey, al basso c’era Ira Walker mentre il posto dietro i tamburi era occupato da Tom Falletti. E il disco? Prodotto da Don Gehman (John Mellecamp, REM, Cock Robin e tanti altri), ‘Billy Satellite’ era un lavoro eclettico, che svariava non poco fra i territori del rock anni ottanta. “Satisfy Me” apriva le danze con un hard melodico dal bel ritmo e una melodia semplice e accattivante, seguita dalla altrettanto interessante “Last Call” con il suo riffing avvolgente e il refrain anthemico, con qualche ombra zeppeliniana e una bava di Hammond. “Do Ya” batteva (parzialmente) i territori del classic rock alla Tom Petty, “I Wanna Go Back” era invece una ballad pop rock dalla struttura lineare ma ben riuscita, con una prevalenza dei synth e le chitarre in sordina. Suggestiva “Trouble”, un po’ Bryan Adams e un po’ southern rock, elettroacustica e robusta, ma “Rockin’ Down The Highway” costituiva un vero e proprio omaggio ai Bad Company, gran ritmo e Monty Byrom che non si negava accenti alla Paul Rodgers. Arretrando verso gli anni 70, “Turning Point” era il peso massimo del disco, mentre “Bye Bye Baby” si configurava come una power ballad drammatica, tra gli accordi inesorabili delle chitarre, la melodia malinconica e l’assolo breve e incisivo. Il ritmo robotico di “Standin’ With The Kings” scandiva un classico rock melodico dei primi anni 80 e sempre in quella direzione si muoveva la conclusiva “The Lonely One”, un pop rock dalla melodia luminosa scandito dal synth bass e da una batteria elettronica, un po’ alla Van Stephenson. Dopo i Billy Satellite, per Monty Byrom ci furono i New Frontier (seguite il link per saperne di più) e il country dei Big House (con cui riscosse un successo più che discreto), Danny Chauncey entrò nei 38 Special, Ira Walker si unì alla backing band di Eddy Money. Il secondo album, prodotto da Keith Olsen, rimase inedito fino al 2016, quando venne pubblicato da AOR Heaven: non l’ho mai ascoltato, ma ‘Billy Satellite’ già basta a garantire un posto ai suoi artefici negli annali del nostro genere.
Concludendo il pezzo su ‘Canterbury’ (c'è il link per chi non ricorda), scrivevo che tutto quanto i Diamond Head hanno fatto dopo quel disco è passato inosservato, a torto o a ragione. Nel caso di ‘Death and Progress’, sicuramente a torto. Il ritorno di quel moniker non venne salutato da fuochi d’artificio e salve di cannone. Si era nel pieno della bufera grunge (era il 1993). E la popolarità della band, nei suoi anni d’oro, non aveva travalicato il circolo ristretto della scena heavy metal britannica, anche se Brian Tatler e soci tentarono senza molto successo di evadere dal quel recinto angusto fin dal secondo album. Per i metallari duri e puri, la storia dei Diamond Head si concludeva già con ‘Lightning to the Nations’. E i metallari erano gli unici che si ricordassero di loro, grazie anche (o soprattutto?) alla reclame fattagli dai Metallica con le cover di “Am I Evil” e “Helpless”. Il fatto che fin dal 1983 quelle canzoni non rappresentassero più ciò che la band voleva fare o essere è sicuramente paradossale: fu una crudele ironia che il sostegno gli venisse da una direzione non più allineata a quella verso cui la loro musica si muoveva (Per inciso: non è che queste sponsorizzazioni dalle altissime sfere abbiano sempre portato grande fortuna alle band, e basta ricordare il caso dei TSOL). In definitiva, quello che accadde fu che ‘Death and Progress’ venne offerto a un pubblico che considerava i Diamond Head traditori della nobile causa metallara fin dai tempi di ‘Canterbury’ ma in maggioranza neppure sapeva chi fossero, e ciò che accadde durante lo show al Milton Keynes Bowl ne fu la (drammatica? grottesca? semplicemente comica?) conferma: i ragazzi arrivati lì per il concerto dei Metallica si trovarono di fronte questi tizi che suonarono “Am I Evil” e “Helpless” e credettero stessero eseguendo – dando prova di un cattivo gusto davvero mirabile – cover dei loro eroi… Quei pochi che si ricordavano di loro (o che avevano l’abitudine di informarsi sugli autori delle canzoni eseguite dalle band che ascoltavano), dovettero subire anche uno Sean Harris vestito da angelo della morte per significare – così almeno dichiarò Brian Tatler a Classic Rock – che la New Wave of British Heavy Metal era ormai morta e sepolta… Niente di strano che dopo quel concerto disastroso (vi è una generale concordia sul fatto che suonarono oltretutto in maniera veramente schifosa) i Diamond Head si sciolsero di nuovo. La vera vittima di queste strategie promozionali malaccorte o balorde tout court fu ‘Death and Progress’, che era un grande album, offerto però al pubblico sbagliato. Tatler e Harris avrebbero dovuto prendere il coraggio a due mani e farlo uscire con un altro moniker, accettando il fatto di essersi ormai bruciati con quello che li aveva resi celebri per qualche tempo. Dare un bel colpo di spugna al passato e ricominciare da zero. Invece credettero che sarebbero bastate le benedizioni di Lars Ulrich per convincere i metallari a comprare il loro nuovo album… che per giunta con l’heavy metal ben poco aveva a che fare. Dopo il primo stop della band, i due leader non erano rimasti con le mani in mano. Per Sean Harris ci fu la collaborazione con Robin George nei Notorious, Brian Tatler portò avanti per anni quei Radio Moskow che cambiarono più volte pelle (al principio, il chitarrista voleva farne i nuovi U2), esordendo su disco solo nel 1991 e senza più Brian nella line up (che però aveva composto e suonato buona parte del materiale edito). I Notorious, nonostante la feroce promozione offertagli dalla Geffen, furono un fiasco colossale (e immeritato), i Radio Moskow non se la passarono meglio (e incidevano per la indie tedesca Bellaphone) con un album non malvagio ma privo di direzione (si saltabeccava dall’heavy metal all’AOR, dal rock melodico al funky) e con una produzione un po’ troppo sparagnina. Flop a livello commerciale, ma quei dischi dicevano che i due erano ancora capaci di far bene. E tornando a lavorare insieme, fecero davvero benissimo. Note incantate e tenebrose ci portano dentro “Starcrossed (Lovers of the Night)”, track d’apertura, un heavy metal mutante non tanto lontano dalle cose di ‘Canterbury’, che vede alla chitarra il super ospite Tony Iommi. Anche “Truckin’” può contare sulla presenza di un ospite di prestigio, Dave Mustaine: classicamente zeppeliniana, nervosa e sinuosa nella stessa misura, caratterizzata dal fluido succedersi di atmosfere sempre diverse. Di “Calling Your Name (The Light)” si può dire che è uno dei più squisiti omaggi zeppeliniani mai incisi, degna di stare affianco a quanto ci hanno dato Kingdom Come, Cult, Badlands, Heavy Bones: maestosa, elegante, con uno Sean Harris davvero impagabile. “I Can’t Help Myself”, agile, con un feeling arena rock, continua a guardare in direzione Led Zeppelin, adorna di un bel riffone rotolante ma con un refrain dal sapore r&b, mentre “Paradise” è un hard’n’roll diretto ma nient’affatto banale. Con “Dust” abbiamo un hard rock molto inglese (diciamo Who? O magari U2?), con sciabolate di chitarra nelle strofe e un coro scanzonato, seguito da “Run”, pregevole hard melodico fatto di bei chiaroscuri. Dopo il class metal rotolante “Wild on the Streets” arriva un favoloso hard blues, “Damnation Street” (insinuante, ipnotico nelle strofe, heavy nel refrain) e il sigillo finale con l’ottima “Home”, mosaico di riff che si scioglie in un bel refrain melodico, tra cambi di scenario gestiti con grande scioltezza. Produzione efficace (di Andrew Scarth, ma “Truckin’” la produsse Mustaine assieme a Max Norman), belle timbriche, un songwriting di gran classe: insomma, a ‘Death and Progress’ non mancava nulla per imporsi… se soltanto non fosse uscito per una piccola indie britannica, all’apice della sbronza grunge e non fosse stato dato in pasto a recensori per cui i Diamond Head erano quelli di ‘Lightning to the Nations’ e basta (facevano eccezione solo i recensori italiani, strenui e unici assertori dell’eccezionalità di ‘Canterbury’). Un fiasco annunciato, insomma? No, ma sicuramente prevedibile. Alla fine, i Diamond Head restano uno dei casi più emblematici di band che non sa sbarazzarsi di un’etichetta che le hanno appiccicato addosso suo malgrado: con l’heavy metal non volevano più avere a che fare ma non sapevano resistere alla tentazione di appoggiarsi in qualche modo a quell’ambiente musicale per ottenere esposizione e pubblicità gratuita, anche se la reclame arrivava poi solo a un uditorio che alla loro proposta non poteva che dimostrarsi fisiologicamente sordo.
|