AORARCHIVIA

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DIAMOND HEAD

 

 

  • CANTERBURY (1983)

Etichetta:MCA Reperibilità:in commercio

 

Quella dei Diamond Head di ‘Canterbury’ è una storia che sfiora l’enigmatico. Nascono come band heavy metal, riescono a farsi notare in quel magmatico calderone che fu la New Wave of British Heavy Metal spuntando un contratto addirittura con la major MCA e sembrano l’unica realtà spuntata dal calderone suddetto capace di raggiungere gli stessi livelli di popolarità che stanno conoscendo Iron Maiden e Saxon. Invece, fin dal secondo album decidono di cambiare sostanzialmente rotta. Perché? Pare che nessuno dei protagonisti di quella storia sia in grado di spiegarlo. In un’intervista pubblicata su HM nel 1989, mentre era in tour con la sua nuova band, i Radio Moskow, Brian Tatler dichiarò: «Verso la fine della carriera […] la nostra musica stava diventando veramente leggera. Stavamo diventando una sorta di Go West, ancora prima che loro esplodessero. […] Credo che questo portò la gente a fare una certa confusione riguardo le nostre intenzioni. La sequenza delle canzoni era sbagliata. La MCA fece un gran casino, i singoli erano nelle posizioni sbagliate e sembravamo più una pop band che i Diamond Head. […] Eravamo più bravi, potevamo fare quello che volevamo, andare via per la tangente e indulgere in situazioni nuove. La MCA ci diede carta bianca e noi ci perdemmo un po’. […] C’era qualcosa di sbagliato a livello di casa discografica o di management. […] La MCA voleva spendere soldi ma, non so, forse li spese male. Non so cosa successe, ma non siamo mai andati né in USA né in Giappone. Nessuno ci doveva nulla, non c’erano favori da restituire». Insomma, dopo sei anni dal disastro (come altro definirlo?) di ‘Canterbury’, Brian Tatler in pratica ancora stava a chiedersi per quale motivo era andato tutto a puttane. Di chi era la colpa? Sua e di Sean Harris? Della MCA? Del pubblico? Tatler prima dice “ci perdemmo un po’”, come se la svolta melodica fosse stata una sorta di sbandata, la conseguenza di una perdita di lucidità, poi però si lamenta di non aver potuto far conoscere il nuovo materiale in USA e Giappone, mercati d’elezione per il melodic rock. Quel “Credo che questo portò la gente a fare una certa confusione riguardo le nostre intenzioni” è poi semplicemente paradossale: un musicista può dire alla stampa quello che gli pare, ma alla fine è sempre la sua musica che parla davvero per lui, e la musica che veniva fuori dai solchi di ‘Canterbury’ (e in parte di ‘Borrowed Time’) non mi pare che potesse generare molta confusione riguardo le intenzioni della band di lasciarsi dietro le spalle l’heavy metal puro e duro. Il paragone con i Go West è poi del tutto campato in aria: forse Brian Tatler citò soltanto la prima band pop che gli venne in mente per rendere al meglio il concetto che stava cercando di trasmettere.

Riguardo poi il valore assoluto di questo disco… diciamo che la critica resta divisa, e i giudizi generalmente sono abbastanza netti e divergenti: chi lo giudica più o meno una irredimibile ciofeca (la maggioranza), chi un capolavoro incompreso (una minoranza piuttosto ristretta, che per qualche motivo su cui mi riservo di tornare in futuro si concentra sopratutto nel nostro paese). Una cosa è certa: ‘Canterbury’ era un album “non allineato”, che non si rifaceva più o meno sfacciatamente a correnti musicali in voga. La musica qui contenuta è sicuramente “leggera” – come la definì Brian Tatler – nel senso che si allontanava con una certa decisione dalla metallurgia pesante (come veniva fatta all’epoca, naturalmente) ma non va né verso l’AOR e neppure in direzione sfacciatamente pop. “Makin’ Music” poteva suonare quasi come una dichiarazione di intenti: il riffing era di marca AC/DC, ma suonato ad un volume più basso e senza la frastornante aggressività della band di Angus Young, la melodia vocale ricordava i Bad Company degli ultimi album con il plus di un refrain moderatamente anthemico, e anche “Out of Phase” seguiva la medesima rotta, elettroacustica e con qualche tocco zeppeliniano: era, insomma, un rock melodico per cui non c’erano riscontri, ma la sua formula l’avremmo ritrovata quasi integralmente riprodotta qualche anno dopo nei Firm (a cui neppure avrebbe portato fortuna). “The Kingmaker” era una marcia dai toni cupi, scandita da un organo da chiesa, con le chitarre che entravano a sprazzi con riff geometrici e metallici: non facile da definire: doom? Prog? “One More Night” era quasi un hard’n’roll, ma molto patinato, “To The Devil His Due” una power ballad drammatica in cui risuonavano con una certa decisione i Led Zeppelin, come nella cavalcata epicheggiante e gotica “Knight of The Swords”. “Ishmael” era sempre molto cupa, segnata da qualche sfumatura arabeggiante ma sostanzialmente opaca. “I Need Your Love” era più vivace, possedeva una buona cifra melodica e rappresentava la cosa più vicina all’AOR, mentre la title track chiudeva l’album con una stesura pomposa e solenne guidata da pianoforte, organo e tastiere in un clima al limite del prog.

In linea generale, è chiaro che Tatler e Harris volevano fare qualcosa di diverso dal solito, forse qualcosa di nuovo. Elaborarono un sound inedito, certo, ma la mia impressione è che, più che sulle canzoni, si concentrarono sul sound. E le atmosfere di questo disco erano troppo tetre: se c’è qualcosa che chi ama il rock melodico proprio non sopporta è la tetraggine, e questo dovrebbe bastare a spiegare per quale motivo ‘Canterbury’ non ha mai fatto breccia nel cuore degli aficionados del genere. I metallari che seguivano le gesta di Maiden, Saxon, Tigers of Pan Tang abbandonarono la band al suo destino e la MCA, assodato che l’album non aveva neppure recuperato i costi di incisione, stracciò il contratto che la legava ai Diamond Head, che si sciolsero ufficialmente nel 1985, dopo un tentativo fallito di registrare un altro disco. Anche le varie reunion e gli album pubblicati dal 1990 in poi non hanno suscitato, a torto o a ragione, molto interesse, e i Diamond Head restano per i più quelli che voltarono le spalle all’heavy metal per fare un disco “strano” che solo un cult following modesto ha salvato dall’oblio.

 

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THE KITE

 

 

  • THE KITE (1991)

Etichetta:Spy Records Reperibilità:scarsa

 

Che quasi nessuno si ricordi di citare i The Kite quando si fanno i nomi delle grandi band canadesi di AOR è… singolare? Okay, il loro unico disco uscì nell’anno fatale per il rock melodico, il 1991, e per una label indipendente (che però poteva contare sulla distribuzione major della A&M). E il contenuto di ‘The Kite’ lo collocava nei territori dell’AOR e del pop rock, mentre alla fine degli anni ’80 la tendenza era quella di alzare in maniera sostanziosa il volume delle chitarre. Dettagli? Be’, un qualche motivo, una ragione per la scarsa rinomanza che questa band ha riscosso fra il popolo dell’AOR dobbiamo pur trovarlo… Perché ‘The Kite’ era un album davvero superbo, che collocava i suoi artefici quasi sullo stesso livello di giganti come Honeymoon Suite e Boulevard.

Prodotto nientemeno che da Terry Brown (Rush, Max Webster, IQ, Fifth Angel, Fates Warning), l’album partiva con “Days of Youth” che, dopo un bell’intro alla Vangelis, proponeva AOR dalla melodia accattivante, con begli sprazzi funky e una chitarra tagliente e fascinosa. Anche “The Road of Hope” era impostata su un funky leggero e melodico in cui andava a incunearsi un refrain glorioso alla Honeymoon Suite o Glass Tiger, ma “These Four Walls” cambiava registro, aperta da accordi insinuanti che portavano in un AOR bluesy ritmato e divertito in cui organo Hammond, piano, chitarre di volta in volta cristalline o rugginose si sposano alla perfezione. Il funky in versione hi tech tornava con “Peculiar Donna”, con un refrain che si infiammava di rock al limite del sinfonico e un assolo di pianoforte dal sapore jazz, mentre “Raging Sea” era fatta di keys e chitarre che disegnavano accordi geometrici dal sapore prog. I Rush era ‘Power Window’ e ‘Hold Your Fire’ echeggiavano attraverso il robusto AOR “Breaking Point”, poi “Diamonds To Dust” esibiva strofe morbide e un refrain che saliva elettrico e fascinoso, mentre “World of Lies” era hi tech nelle strofe, calda e impetuosa nel coro. “Masquerading” suonava quasi come un omaggio ai Toto, squisita esercitazione su quel modello di sound, con una certa dose di Glass Tiger nel refrain e il solito trocco funky. Chiusura con “Pages Turn”, che adagiava veli prog e pomp sul tessuto AOR.

Produzione (ovviamente) superba e arrangiamenti incantevoli collocavano ‘The Kite’, come già detto, tra le più belle espressioni dell’AOR made in Canada. Il CD gira tra eBay e Amazon a cifre fra gli otto e i venti euro: farselo mancare sarebbe davvero imperdonabile.

 

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NICKELBACK

 

 

  • FEED THE MACHINE (2017)

  • GET ROLLIN' (2022)

Etichetta:Nickelback II Productions/BMG Reperibilità:in commercio

 

Il penultimo album dei Nickelback, ‘Feed The Machine’, lo recensii sul numero 51 di Classix. Mi sembra opportuno riproporre qui quella recensione (nella sua forma originale, senza correzioni e aggiunte redazionali) prima di parlarvi del nuovo ‘Get Rollin’”:

 

«Da anni una larga parte della critica ha il fucile puntato sui Nickelback: li accusano di essersi infrolliti, commercializzati, li ritengono buoni per fare da sottofondo agli spot della Pepsi e poco altro. Se ‘Feed The Machine’ riuscirà a far cambiare opinione sulla band ai suoi detrattori non posso ovviamente saperlo, ma è un fatto che questo nuovo album sembra quasi una risposta alle critiche suddette. La vena festaiola e quasi solare dei loro ultimi tre dischi manca del tutto, ritroviamo qui invece le atmosfere cupe, gravi e arrabbiate che li avevano caratterizzati fino a ‘The Long Road’. I momenti più distesi non mancano (‘Song On Fire’ è una power ballad lirica, potente ma ariosa; ‘Home’ è fatta di magnifici chiaroscuri ed ha una grande estensione melodica) ma sono solo pause fra il gran macinare di riff nervosi, heavy, rotolanti, il pulsare ritmico EDM, il canto di Chad Kroeger (che nelle foto promozionali dell’album s’atteggia a sosia di James Hetfield) più nevrotico e ad un pelo dal rap che in passato. Notevole l’andamento cadenzato e quasi boogie della beffarda ‘Must Be Nice’, il refrain di puro arena rock moderno che si fa spazio fra le chitarre taglienti di ‘Coin For The Ferryman’ e del tutto inatteso lo strumentale per acustiche e tastiere ‘The Betrayal (act I)’, ma al sottoscritto, che proprio di quei Nickelback scanzonati e solari si è sempre dichiarato orgogliosamente un fan, questo imprevedibile recupero del suono violento e metallico dei primordi lascia un po’ l’amaro in bocca».

 

Feed The Machine’, è noto, non è andato bene nelle classifiche, e questa sosta nelle uscite durata ben cinque anni forse ne è stata la conseguenza. Ovviamente, ho affrontato il primo ascolto di ‘Get Rollin’’ con una certa diffidenza, anche se il titolo e la copertina del nuovo album già lasciavano intuire una marcata differenza di clima rispetto al suo tetro predecessore. E senza dubbio ‘Get Rollin’’ è un’altra storia, soprattutto a livello di sound.

San Quentin” è essenziale e diretta, anthemica, procede come se i Nostri fossero degli AC/DC danzerecci su un ritmo EDM, ma “Skinny Little Missy” sembra uscita dalle session di ‘No Fixed Address’, ricorda abbastanza “She Keeps Me Up”, quel ritmo cadenzato, il cantato quasi rap, la chitarra col wah wah. “Those Days” è una power ballad che forse segue un po’ troppo la linea di “Photograph”, almeno nello spirito, ma funziona comunque, però il primo vero colpo arriva con “High Time”: le strofe si potrebbero definire modern funk mentre nel refrain diventa praticamente country. “Vegas Bomb” è un gran riff e un atmosfera che ricorda molto il materiale di ‘Dark Horse’, mentre “Tidal Wave” è un altro colpo da maestro: morbida, ipnotica, melodica, fascinosa. La ballad in crescendo “Does Heaven Even Know You’re Missing?” dice poco di nuovo però lo dice bene, ma a seguire arriva il capolavoro, “Steel Still Rusts”, in cui acustiche, elettriche e tastiere tessono un telaio su cui si adagia una melodia da Def Leppard OGM, ma strepitosamente innervata di vibrazioni southern rock che sottolineano alla perfezione la maschia amarezza del testo. Il fantasma dei Def Leppard ritorna su “Horizon” e, con una sfumatura più cupa, in “Standing In The Dark”, mentre “Just One More” chiude l’album con una power ballad tutt’altro che allegra, anzi decisamente mesta (e con un testo al limite dello strappalacrime).

Insomma, anche se è molto distante dalla tetraggine rabbiosa di ‘Feed The Machine’, non si può definire ‘Get Rollin’’ un album party oriented come ‘No Fixed Address’: a tratti è divertente, addirittura solare, in altri momenti la band ritorna alle tematiche depressive a cui il modern rock sembra proprio incapace di rinunciare, rimanendo comunque ben lontano dalla durezza sonora di ‘Feed…’. Cosa abbia spinto Chad e soci a tornare sui propri passi non saprei dirlo (ricordo che, per qualche tempo, suo fratello Mike parlò addirittura di incidere un album di cover degli Slayer…), ma ‘Get Rollin’’ ci dice che questa band è sempre capace di guardare avanti e rinnovarsi con intelligenza, trovare nuova linfa senza perdere quel suono che possiamo senza dubbio considerare un suo trademark. Il futuro? A me piacerebbe che passasse per la strada indicata da “Steel Still Rusts”, e che l’ipotesi di incidere cover di “Angel of Death” o “South of Heaven” venga definitivamente archiviata.