A volte i moniker possono rivelarsi singolarmente profetici. Nati a Liverpool nel 1979, gli Export esordirono l’anno seguente con un album autointitolato e autoprodotto di cui (ovviamente) pochi sentirono parlare. Nel 1984 arrivò la grande occasione: la band firmò addirittura per la Epic, che decise di lanciarli negli USA, prima con ‘Contraband’, poi con questo ‘Living In The Fear of The Private Eye’, inciso negli Stati Uniti e prodotto dall’americano Lance Quinn (Bon Jovi, Danger Danger, Lita Ford, April Wine, Nils Lofgren). Insomma, gli Export divennero un vero articolo da esportazione, perché la Epic non stampò questi due album in UK, ma solo negli USA e in Canada: scelta coerente con l’orientamento del mercato britannico, restio ad accogliere bene le band AOR, anche quelle indigene. Purtroppo, su Billboard gli Export non riuscirono ad affacciarsi e la Epic li scaricò, provando ancora una volta a esportare AOR inglese in america con gli FM tre anni dopo, e ottenendo i medesimi risultati. Oggi, gli Export vengono ricordati soprattutto perché furono la prima band di Steve Morris, ma i fan del rock melodico dovrebbero impegnare qualche neurone anche per memorizzare l’esistenza di questo disco, il migliore inciso dalla band e assolutamente all’altezza della concorrenza yankee e canuck. Apre l’album la title track, che affianca i Loverboy agli Yes di ‘90125’ tramite un bell’amalgama di tastiere e chitarre taglienti, ricetta replicata su “No Escape” con un pizzico di aggressività in più e un refrain ancora più Yes, mentre il sound dei Loverboy prende un netto sopravvento (con qualche nuance Van Stephenson) in “Runnin’ Back (For More)” (che forse è un po’ troppo lunga). Con “Airwaves” si sale davvero in alto: replica le atmosfere drammatiche dei Survivor, ma con decisi spunti Journey, muovendosi in un lento crescendo nello stesso tempo potente e d’atmosfera. Brusco cambio di rotta con “You Make Me Wanna” e “Closer To You”, decisamente Bryan Adams: la prima possiede un certo smalto heartland rock, la seconda è più elettrica. Survivor e Foreigner presiedono a “Tear Me Apart”, smaltata di tastiere al limite del pomp (nelle due track precedenti le keys erano rimaste molto in fondo), “Summer Nights” è una ballad veramente buona, vigorosa nell’interpretazione ma pure carezzevole, elettroacustica ma con tastiere ben presenti. Chiude il disco “Can’t Say No”, hard melodico con qualche sprazzo pomp. ‘Living…’ non venne edito in CD fino al 2010, la Epic lo pubblicò solo su LP e cassetta, e ci volle la ristampa della Rock Candy per averlo su disco ottico: lo trovate in vendita oggi a prezzo equo (attorno ai 15 euro per i compact) su Amazon, oppure come .mp3, e a prezzo ancora più conveniente, su Amazon Music: vivamente consigliato.
Storia strana, quella dei White Sister. Più che strana, la potremmo magari definire “incoerente”. È piena di buchi che, pare, nessuno dei protagonisti ha voglia di riempire, di punti interrogativi che nessuno è interessato a cancellare. In concreto, cosa abbiamo? Una band con contratto major che viene messa alla porta pochi mesi dopo l’uscita del suo primo album, però riesce a piazzare ben cinque delle proprie canzoni nelle colonne sonore di cinque film diversi (tutti prodotti o distribuiti da varie major cinematografiche) tra il 1985 e il 1990. Perso quel contratto, l’unica sistemazione che trova è presso una label indipendente britannica che non ha la possibilità di pubblicare album negli USA e il massimo che riesce a fare è mandarla in tour in UK come supporter degli FM. Se tutto questo ha un senso… Prima di entrare nel vivo di questa disanima della produzione discografica dei White Sister, vorrei però mettere in guardia chi mi legge riguardo una possibile fonte di informazione su di loro. Nella scheda in italiano che Wikipedia gli dedica, una buona parte di quanto è scritto viene ripreso da un sito oggi defunto, prima chiamato Rockdetector e poi Musicmight, che offriva biografie dettagliate di una miriade di band, soprattutto di quelle hard rock. Purtroppo, Rockdetector/Musicmight non era per niente attendibile: alle notizie certe mescolava con la massima disinvoltura storielle, leggende, voci palesemente false, senza criterio né discernimento. In definitiva, una buona parte di quanto troviamo riguardo i White Sister su Wikipedia Italia deve essere preso con le molle. La scheda in inglese è più breve ma riporta notizie, non voci e pettegolezzi. La line up dell’esordio comprendeva Dennis Churchill-Dries (basso e voce), Gary Brandon (tastiere e voce), Rick Chadock (chitarre) e Richard Wright (batteria) È arcinoto che produzione, arrangiamenti e anche una certa parte del songwriting di ‘White Sister’ si debbono a Greg Giuffria. Chi però si mettesse all’ascolto di questo disco immaginando una replica di quelli degli Angel o magari dei Giuffria (che esordiranno in quello stesso 1984), rimarrebbe deluso. Le tastiere hanno un loro spazio determinante nel sound della band, ma andando sempre a braccetto con chitarre che spesso hanno una schietta aggressività metallica, fin dall’iniziale “Don’t Say That You’re Mine”, con il suo riff spavaldo, diretta nonostante gli sprazzi di keys sinfoniche , ma con un refrain troppo orientato verso gli anni 70. Assolutamente anni 80 risultano invece “Straight From the Heart” e “Love Don’t Make it Right”, ottimi melodic metal californiani: il primo appena punteggiato di tastiere, con un bel bridge d’atmosfera prima dell’assolo; il secondo con un pelo di keys in più e un refrain drammatico e un po’ Journey. Le tastiere si limitano a rifinire l’hard metallico, serrato ma melodico, intitolato “Breakin’ All the Rules”, ma con “Whips” e “Can’t Say No” si entra nella dimensione dell’arena rock, entrambi potenti, cromate, spettacolari, segnate da un impasto perfetto di tastiere e chitarre. “Promises” diffonde una certa atmosfera Journey, ma su un registro più elettrico: il refrain è divino e ha un bel sapore Asia, le tastiere sono più presenti e fanno anche l’assolo. Si torna all’hard melodico con i toni drammatici di “Walk Away”, e da quelle parti restiamo con “One More Night”, su cui le keys quasi spariscono e il refrain si fa molto essenziale: per me, quasi un filler. In chiusura c’è l’AOR cerebrale di “Just For You”, un po’ cupo con le sue tastiere al limite del prog. L’unico punto debole di questo disco stava nella doppia conduzione vocale: Dennis Churchill-Dries era (ed è ancora oggi) un cantante straordinario, Gary Brandon aveva una voce abbastanza bella (un po’ alla Russel Arcara) ma non all’altezza di quella del suo collega. La compresenza di due voci, soprattutto quando una è strepitosa e l’altra soltanto buona, raramente fa bene ad un album. Non credo, però, che questa spartizione del microfono sia stata alla radice del flop a livello di vendite, quello che mancò fu una promozione adeguata. La band voleva andare in tour ma la EMI non volle aprire il portafogli per finanziarglielo. Poi qualcuno dei piani alti decise che quel “sister” nel moniker non andava bene perché rischiava di farli confondere con i Twisted Sister (a chi diavolo possa mai essere passata anche solo per l’anticamera del cervello un’idea simile mi piacerebbe proprio saperlo) ma la band si oppose ad un cambiamento di nome, anche se la EMI era pronta a rifare tutte le copertine. E poi? Non si sa. L’unica certezza è il licenziamento da parte della major, solo qualche mese dopo l’uscita del disco. L’abbandono di Gary Brandon arrivò prima che firmassero per la britannica FM Revolver. Perché – si mormora – Brandon proprio non voleva saperne di lasciare il microfono a Dennis Churchill-Dries, che lo reclamava tutto per sé. Io dubito fortemente che questa fosse la motivazione di base del tastierista per tagliare i ponti con la band: Brandon, appena lasciati i White Sister, andò in tour con John Parr (a quell’epoca all’apice del successo in USA) e poi con Tina Turner (il tour di quel ‘Private Dancer’ che fu cinque volte di platino), e mi pare evidente che fu proprio per lavorare con loro che Gary lasciò i White Sister, considerato anche che il futuro della band appariva tutt’altro che roseo. La FM Revolver non aveva distribuzione negli USA, e difatti il frutto di questa collaborazione, ‘Fashion by Passion’, in America non è mai stato pubblicato. Che senso aveva firmare per una label inglese che non poteva far uscire album negli Stati Uniti? Dennis e soci speravano di avere successo in UK con il rock melodico, quando perfino i Def Leppard faticavano a vendere dischi in casa propria (‘Pyromania’ in UK fu solo disco d’argento, che equivale a sessantamila, misere copie, contro i dieci milioni venduti negli USA)? Era, in definitiva, una scelta praticamente suicida a livello commerciale, e difatti ‘Fashion by Passion’ fu la pietra tombale della band. Perso Gary Brandon, i tre superstiti non lo sostituirono immediatamente, e le parti di tastiere di ‘Fashion by Passion’ furono opera del produttore Joel Goldsmith e un paio di session men. In questo secondo album, il suono approccia molto di più l’AOR e l’hard melodico e il cambio di passo si avverte immediatamente in “A Place in the Heart”, che ha la stessa drammaticità dei Fortune nel rileggere e amplificare il suono dei Journey, con muri di tastiere più imponenti che pompose, e ancora di più nella title track, che risulta un pop rock molto poco rock (le chitarre appena si sentono), giocato tra percussioni sintetiche e keys, spettacolare e con una innegabile vena dance. “Dancin’ on Midnight” è uno splendido rock melodico da spiaggia che fa pensare a degli Autograph più sofisticati, ma con “Save Me Tonight” i White Sister anticipavano quello che i Giant faranno tre anni dopo con ‘Last of The Runaways’, tessendo una power ballad intensa e potente. La “Ticket to Ride” dei Beatles viene impeccabilmente traslata nel rock dei Big 80s, mentre “April” torna all’arena rock, agile e imponente nella stessa misura. “Until It Hurts” e “Troubleshooter” fanno intravedere vagamente il futuro targato Tattoo Rodeo, la prima con un bell’arrangiamento e un refrain forse troppo diretto, la seconda con un piacevole assolo di sax, mentre “Lonely Teardrops” chiude le danze, col suo tipico passo robotico alla Loverboy e Dennis che riesce a iniettare una bella dose di soul nel refrain. ‘Fashion by Passion’ non ha mai goduto presso il popolo dell’AOR della altissima considerazione del suo predecessore, forse per il suo clima più “leggero” o perché gli manca l’imprimatur di Gregg Giuffria (oppure per quella assurda copertina che sembra rubata a un gruppo disco di fine anni 70?). Sigillata comunque la propria tomba con questo (splendido) monumento funebre, la band ritornò in patria, reclutò un nuovo tastierista, Michael Lord, si ribattezzò Tattoo Rodeo e per il seguito della storia potete seguire il link. Entrambi i dischi sono oggi scaricabili su Amazon Music. Consigliare l’ascolto di ‘White Sister’ mi pare superfluo, dato che chi conosce anche superficialmente l’AOR dei Big 80s non può non averne come minimo sentito parlare. Mi preme piuttosto raccomandare caldamente ‘Fashion by Passion’ a chi lo ha trascurato, ritenendolo non all’altezza dell’esordio: il registro stilistico non è proprio lo stesso, ma la qualità della proposta resta elevatissima, confermando la statura di una band che ha fatto davvero la storia del nostro genere.
Giudicando dal contenuto di varie mail recentemente indirizzatemi, posso arguire che il pezzo sui White Sister è stato molto gradito da chi mi segue, e ha spinto qualcuno a sollecitare il sottoscritto ad occuparsi più spesso di band storiche. Se sulle band storiche, fondamentali o come preferite qualificarle, in genere glisso, questo avviene perché – non è la prima volta che metto in chiaro questo punto – non credo ce ne sia un gran bisogno. Insomma, cos’altro si può dire dei Boston o degli Aerosmith o dei Quiet Riot? Se ne stanno lì, nel loro empireo, da lungo tempo canonizzati, e nel web potete trovare innumerevoli biografie o recensioni che li riguardano. Se c’è la possibilità di affrontare la loro produzione discografica da un’angolazione differente dal solito, o raccontare fatti poco noti al grande pubblico, la cosa si fa – dal mio punto di vista – più interessante, ma non sempre questa eventualità si presenta. E, insomma, quello che mi piace davvero è segnalare a chi mi legge quei tanti artisti che nell’empireo non ci sono finiti, e non sempre perché la canonizzazione non se la meritavano. Band che magari sono state virtualmente dimenticate ma hanno firmato lavori notevoli, non capolavori ma comunque album che meritano di essere riportati all’attenzione di chi li ha trascurati o per motivi anagrafici non ne ha mai sentito parlare. E perfetti rappresentanti di questa categoria sono i Medicine Men. Ignorati da Heavyharmonies, mai ristampato il loro unico album che gira tra eBay e Amazon a cifre oscillanti fra i trenta e i novanta dollari. Perché è andata così? Assodata la buona caratura di ‘Keeper of The Sacred Fire’ (uscito oltretutto per una label che faceva parte del gruppo BMG), non resta che puntare l’indice sull’anno di uscita, quel 1992 che vedeva il grunge affermarsi definitivamente come nuovo trend dominante della musica rock, o forse su una ingannevole enfasi data nei comunicati all’interesse della band per i pellerossa e le loro tradizioni (“ingannevole” perché la devozione alla causa – qualunque essa sia – degli indiani d’America si esplicava unicamente nei testi di un paio di canzoni, mentre nei suddetti comunicati pareva quasi che i Medicine Men si fossero consacrati a qualche balorda crociata in difesa di sioux e apaches). ‘Keeper…’ era il prodotto di un talentuoso trio canadese formato da Paul Carlos (chitarra e voce), Joe Cerrato (basso) e Frank Giroux (batteria), i quali – con la produzione di Richard Gottehrer e Jeffrey Lesser (anche alle tastiere) – confezionarono un album che in una certa parte andava a situarsi in quei territori poco battuti dove l’hard melodico si sposava al patrimonio di riff e atmosfere della new wave più rock, quel genere di sound che ha trovato la sua massima espressione negli esordi di Beggars & Thieves, Diving For Pearls e Neverland. La prima canzone in scaletta dichiarava senza equivoci le intenzioni della band, dato che la suggestiva “Peace of the Sky” si reggeva su un riff molto U2 convenientemente amplificato. “Dig Out the Hatchet” – dopo un intro stile danza di guerra pellerossa ma con un aggressività da metal californiano – aggiungeva alla ricetta un’atmosfera arcana e minacciosa e un coro anthemico, mentre “Shine” virava sul rock mainstream, elettroacustica e con un’atmosfera più britannica che americana. Ben arrangiata risultava la ballad acustica “Take Me Back” (anche se non era niente di speciale), ma con “She’s So Wild” si cambiava scenario, sbarcando nella Los Angeles dei Love/Hate, street metal con un corretto canto sguaiato e beffardo e una fase solista di chitarra davvero pregevole che caratterizzava anche “Voodoo Queen Blues”, un mid tempo blues ma con volume da hard rock, dove la voce compare solo a sprazzi e protagonista è la chitarra di Paul Carlos con lunghi assoli spettacolari e policromi. “Freeway Runner” tornava allo street metal, drammatica, potente, un po’ Lynch Mob, e da quelle parti restava “Magenta”, veloce e secca, con qualcosa dei Beggars & Thieves, e Carlos che torna a mettersi in bell’evidenza con notevolissimi assoli che danno atmosfera e colore alla canzone. “Nobody’s Home” richiamava il sound di “Shine” ma nella dimensione della ballad, mentre “Little Angel” si spostava verso territori più genuinamente heartland rock (anche se il riffing deve sempre molto agli U2). “Holy War” (strofe d’atmosfera, refrain tempestoso) parlava con più decisione la lingua dei Beggars & Thieves, declinata anche nel superbo strumentale che chiude l’album, “Blue Road”, avvincente e turbinoso, con richiami anche a U2 e Cult. Come già annotato, ‘Keeper of The Sacred Fire’ non è impossibile da reperire, ma il prezzo richiesto è tutt’altro che leggero. Sollecitare una sua riedizione a chi si occupa di ristampe non sarebbe certo una cattiva idea.
La storia dell’AOR è fin troppo ricca di nefandezze, e quella che ha visto protagonisti i VU appartiene alla categoria peggiore: un grande album che per qualche motivo (certamente un motivo assurdo) non trova la via della pubblicazione. Rimasto chiuso in un cassetto per quindici anni, viene infine stampato grazie all’interessamento della Frontiers: troppo tardi, ovviamente, per contare qualcosa: non solo su un mercato ormai rachitico, ma soprattutto per la storia del nostro genere. Se fosse stato edito quando venne registrato, nel 1985, ‘Phoenix Rising’ figurerebbe in tutte le classifiche dei migliori album di rock melodico, invece è stato praticamente dimenticato, il cd è quasi introvabile e prezzato (le rare volte in cui salta fuori) a cifre consistenti (dai trenta dollari in su). Come siano andate esattamente le cose non è dato sapere. Pare che non avessero un contratto: registrarono l’album in completa autonomia, cercando poi una label disposta a pubblicarlo, imbattendosi però in una serie di gente sorda o rimbambita (cos’altro?), perché solo qualcuno con seri problemi di udito o afflitto da patologie mentali tutt’altro che lievi può aver risposto “no, grazie” all’offerta di prendere in carico un set di canzoni di tale caratura. Album che, oltretutto, non era il frutto di una band formata da sconosciuti alle prime armi: la line up dei VU comprendeva Ross Valory, Kevin Chalfant, Prairie Prince, Stef Burns e Tim Gorman, con Josh Ramos e Marty Friedman accreditati per varie “additional guitars”. L’apertura, a onor del vero, non fa gridare al miracolo: “Who You Gonna Believe?” è un gradevole impasto di Journey, Toto e Survivor, ma niente più di questo, risultando oltretutto anche un pelo troppo lunga. Si sale molto più in alto già con “Keys To The City”, notturna e d’atmosfera nelle strofe, anthemica nel refrain, e l’ascesa continua con “One Track Mind” arena rock che deve qualcosa agli Yes di ‘90125’, procedendo fra belle chitarre geometriche e flash di tastiere spettacolari. Si cambia scenario con “Save It For Me”, vigorosa ballad elettrica con qualche sfumatura heartland e quasi stupisce “Hard To Get”: tempo boogie, chitarre pulsanti un po’ AC/DC, melodia alla Bad Company per un risultato finale che anticipa con assoluta precisione quanto la rifondata band di Mick Ralphs farà di lì a qualche anno con Brian Howe al microfono. I Journey era ‘Frontiers’ sono protagonisti su “If I Had You Back”, spavalda, lirica e d’atmosfera nello stesso tempo, con le tastiere in bella evidenza, mentre “Walk Through The Fire” e “Dreaming Your Life Away”, pur rimanendo negli stessi territori, risultano, la prima più leggera e pop, con un bel refrain anthemico, la seconda un pop rock con una discreta impronta heartland. “Somewhere Here” impasta di prog l’AOR, quanto meno nelle strofe, e che bello quel cambio di tempo nella parte centrale dove tastiere e chitarre si scatenano. Chiude “So Long”, grandiosa power ballad corale, fatta di chitarre incisive sotto cui le keys dipingono fondali molto suggestivi. La produzione – condivisa dalla band con Steven Jarvis – è di alto livello, con timbriche curate e spettacolari, il songwriting di livello elevatissimo, decisamente superiore al primo album degli Storm (di cui i VU vengono talvolta considerati una sorta di preludio: a torto, secondo me). ‘Phoenix Rising’ si accoda degnamente ai dischi di Signal, China Rain, Paul Laine, Don Barnes: album eccezionali che avrebbero potuto fare la storia dell’AOR se fossero stati pubblicati quando vennero incisi, e oggi portiamo ad esempio di quali nefandezze l’industria musicale è stata capace, negando la pubblicazione a questi capolavori magari per mettere in circolazione qualche ciofeca finita poi a tempo di record nelle offerte speciali.
E sono di nuovo tra noi anche gli Hurricane… Ma quali, di preciso? Nei tre dischi editi abbiamo avuto tre line up diverse, con differenze significative di sound tra un album e l’altro (per approfondire, e anche per non ripetere qui cose che ho già scritto altrove, invito chi li conosce poco o non ricorda bene a leggere le recensioni che gli ho dedicato). Dato che in questo ‘Reconnected’ troviamo il redivivo Robert Sarzo, che lasciò i compagni dopo il primo album, i riferimenti d’obbligo vanno proprio a quel ‘Over The Edge’ che resta la prova più significativa del moniker. Accanto a lui c’è di nuovo Tony Cavazo (rimasto fuori quando Kelly Hansen e Jay Shellen resuscitarono il marchio Hurricane per il fiacco ‘Liquifury’) e due nuovi membri, il cantante Daniel Schuman (polmoni da vendere ma anche una timbrica un po’ anonima) e il batterista Mike Hansen (qualche parentela con Kelly?). Purtroppo, dietro il banco del mixer non sono andati a sedersi Bob Ezrin e Mike Clink… Questo basta a liquidare con un sospiro o magari un sorrisetto ironico ‘Reconnected’? Che Dio ce ne scampi! Ascoltiamolo, allora… “Rock Star Cheater” apre l’album con un metal californiano moderatamente anthemico, tra i Ratt e i Keel: efficace, ma anche piuttosto ordinario: quell’assolo di chitarra classicheggiante, poi, Robert Sarzo poteva anche risparmiarselo. Molto meglio funziona “You And I”, che suona power pop nelle strofe (lo spirito è pressappoco quello di “Give me an Inch”) e fascinosamente street rock nel coro; fuori posto suona invece la cover di “Under Pressure” dei Queen, ben gestita ma decisamente troppo anni ’70. “Behind Your Shadow” è una power ballad abbastanza cupa, “Innocent Girl” si rivela un hard melodico di buona caratura, “Don’t Change Your Love” ha belle chitarre taglienti ed è la cosa più vicina al materiale di ‘Over The Edge’ ascoltata finora: che non l’abbia prodotta Bob Ezrin si sente, ma riesce comunque bene. La riproposizione di “I’m On To You” non si comprende che significato debba mai avere, sia per la band che per il suo pubblico: questa versione più diretta ed essenziale, ma per il resto del tutto aderente a quella incisa nel 1988, non regge il confronto con l’originale e autorizza i sospiri o i sorrisetti ironici di cui sopra, ricordandoci impietosamente cosa era il rock melodico quando poteva contare su una barca di soldi e i servigi di produttori di vaglia. Molto bene riesce invece “Hand Of Souls”, suggestiva con il suo vago smalto southern sottolineato dall’abbondanza di chitarra slide e la grande estensione melodica, e ancora più in alto sale “Disconnected” fatta di chitarre dalla timbrica esotica, un ritmo lento e sensuale, notturna, misteriosa e inquietante, il top assoluto del disco. “Blind Love” riprova a ricreare le atmosfere di ‘Over The Edge’, resta un po’ amorfa ma ha un bell’assolo e in chiusura troviamo “Wishing Well”, molto zeppeliniana tra l’atmosfera fascinosa e le chitarre acustiche sopra un vago sfondo di tastiere. Le cose migliori, alla fine, sono proprio quelle che dalla ricetta di ‘Over…’ più sono distanti: quando Robert Sarzo e Tony Cavazo tentano di cucinare alla vecchia maniera, ottengono invece qualcosa che troppo spesso ha un sapore sciapo. Ripresentarsi con un moniker al limite del leggendario (almeno per chi ama il rock melodico) indubbiamente ha rappresentato un vantaggio per i due redivivi della line up originale, ha attirato su di loro un’attenzione che un nuovo marchio difficilmente sarebbe stato in grado di scatenare, ma ha anche l’innegabile handicap di imporre confronti dai quali, ai giorni nostri, è quasi impossibile uscire bene.
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