I Metallica nell’Hard Blues Department? Il webmaster è impazzito?
Uhm... Semmai, avrà pensato qualche fan (anzi, molti, moltissimi fans)
in quel fatidico 1996, sono impazziti loro...
Ma qualcuno aveva cominciato a porsi seri interrogativi a proposito
della salute mentale dei Four
Horsemen già nel 1990, all’indomani del ‘Black
album’. Dov’era finita la furia, il rotolare selvaggio dei
riff come un treno deragliato? Dov’era finito il thrash? Non
l’avevano inventato proprio loro, quel genere, i riff dei Black
Sabbath e dei Judas Priest sparati alla velocità dell’hardcore? Chi
aveva sacrificato una porzione abbondante delle proprie cellule
cerebrali fra le schegge impazzite di ‘Kill them
all’ ed i labirinti elettrici di ‘And
justice far all...’ (un titolo che, ammettiamolo, faceva già
presagire la chiusura di un ciclo) non poteva certo ritrovarsi a proprio
agio nella nuova architettura fatta di un rifferama pesante come il
piombo, cadenzato, lento, implacabile. Ma il ‘Black
album’ era pur sempre metal: un nuovo genere di metal, ma comunque
metal. Si può tranquillamente affermare che gran parte di tutto quello
che è venuto dopo il 1990 in questo campo discende in linea più o meno
tortuosa da questo disco. Un capolavoro epocale, costato mesi e mesi e
mesi di lavoro (non ricordo chi disse che Bob Rock era stato tanto tempo
in studio con i Metallica che, quando tornò a casa, la sua figlia più
piccola non lo riconosceva più...), forse il cammino finale di
un’evoluzione, forse il frutto di un’intuizione nuova, chi può
dirlo? Anni di tour sold out, vendite a camionate, valanghe di soldi...
Okay, questa è storia, storia arcinota e masticata fino alla nausea. Il dopo ‘Black
Album’, naturalmente, si presentava come un sentiero lastricato
di carboni ardenti. Senza più alcuna preoccupazione economica,
completamente liberi, addirittura con una partnership paritaria con la
loro casa discografica, i Metallica si trovavano nella condizione di
poter fare semplicemente quello che volevano. Ma raramente quello che
una band vuole coincide con le brame di coloro che ne comprano i dischi.
Si poteva seguire il percorso Maiden ed AC/DC: registrare sempre lo
stesso album cambiando qualche accordo qua e là, contando sul marchio,
sfruttando l’immaginario che i fans gli avevano costruito attorno, ma
James e Lars non avevano alcuna intenzione di diventare le caricature di
se stessi, o di passare dallo status di musicisti a quello di totem
adorati da tribù di fanatici. Purtroppo l’intransigenza verso
monickers e generi del pubblico che segue l’heavy metal è un fatto
assodato, come pure tutto quello strascico tribale di “valori” che
ogni heavy band è costretta a tirarsi dietro: noi suoniamo per i kids, keep
the faith alive, noi siamo i più potenti/veloci/zozzi del pianeta Terra, i discografici mi fanno una sega, amo solo il metallo, che bello
passare la vita in tour, non vedo l’ora di correre al prossimo
concerto... I Metallica avevano recitato anche loro la parte, e come
avrebbero potuto fare il contrario e riuscire ad arrivare fin dove erano
arrivati? Ma il punto è un altro: arriva il momento che: o ci credi
anche tu, sinceramente, oppure ti stufi. O sei come Lemmy o Joey De Maio
(diversissimi come atteggiamento, ma accomunati comunque dalla voglia di
vivere un certo genere di esperienza musicale) oppure senti il bisogno
di piantarla una buona volta con tutte quelle stronzate e concentrarti
solo sulla musica. E quando si arriva a questo punto, raramente la
musica resta la stessa che ti ha reso celebre. Per chi opera fuori dal
campo heavy, in genere, non ci sono problemi: pensate agli U2,
all’abisso che separava ‘The unforgettable
fire’ da ‘Zooropa’, e alle
vendite stellari che non gli sono mai mancate. Ma il metal, ripeto, è
un altro paio di maniche. I Metallica sapevano di rischiare, e di
rischiare grosso. Accettarono la scommessa, ma è difficile dire se
l’abbiano vinta o perduta dal punto di vista della popolarità. Di
sicuro, ‘Load’ fu un altro capolavoro,
ancora più avanti del ‘Black album’, e
forse ancora più influente presso il popolo dei musicisti (pensate solo
a quanto gli devono i Nickelback). La sola accusa che i fans potevano
sensatamente rivolgere a questo disco era, semplicemente, che non si
trattava di un disco metal. Chiamiamolo pure heavy rock, ma di metallurgia pesante come era comunemente intesa a metà degli anni
’90, ce n’è davvero pochina. Cosa c’è, invece, qui dentro? Il
blues. Non certo quello levigato, stantio, vestito con le giacche di
Armani che da anni ci propina Eric Clapton. Neppure quello fragile e
crepuscolare di Willy De Ville, né la sua versione buffonesca, invasata
e caricaturale imbastita da Jon Spencer, e neanche quello sofisticato e
melodico degli Aerosmith. I Four
Horsemen, da quei grandissimi musicisti che erano (e sono ancora
oggi, nonostante ‘St. Anger’) si
appropriavano del blues, piegandolo al proprio stile, alle proprie
atmosfere, al proprio modo di suonare. ‘Load’
era la più intrigante proposta hard rock blues per il nuovo millennio
alle porte, ottanta minuti di musica che, aldilà di qualche concessione
modaiola (le suggestioni REM di “Hero of the day”,
l’esercitazione in materia alternative di “Until
it sleeps”) e gli indispensabili sguardi al passato ( “Mama
said”, versione FM rock delle ballad metalliche del ‘Black
album’, la formidabile “King nothing”,
che sgorga da quella stessa fonte attraverso cui erano scaturite
“Enter sandman” e “Sad but true”), riusciva nell’impresa di
creare l’ennesimo standard, dimostrando ancora una volta che la
materia grezza (il blues) poteva essere plasmata in forme nuove senza
troppi sguardi al passato e citazioni forzate, anche se proprio con una
citazione si comincia, dato che la cadenzata “Ain’t
my bitch” impasta ad un tessuto heavy rock il riff della
“Rock bottom” degli UFO, e quando Kirk Hammett parte con un assolo
breve, mixato quasi in sordina, che si risolve in pochi accordi secchi
di slide rugginosa, ogni dubbio sulla volontà della band di
allontanarsi dai cliches del proprio (illustre) passato cede di
schianto. “2 x 4” scende ancora più giù
lungo il delta del Mississippi con un mid tempo rotolante ed una
chitarra acida che sembra colare da un vecchio disco dei Blue Cher o dei
Grand Funk, “The House Jack built” ha
qualche spunto Sabbathiano alternando un passo felpato a momenti più
nevrotici su cui va ad incastrarsi un assolo sporchissimo dilatato da un
wah wah a manetta. “Bleeding me”
galleggia tra il contrasto fra gli accordi liquidi di Hammond e chitarra
ed il coro durissimo, tutto puro yankee rock americano anni ’70 con un
finale sfregiato da un assolo al vetriolo. “Cure”
è la scheggia più blues, un blues mutante dal tempo boogie violentato
da chitarre alla carta vetrata, la stessa lingua - ma con accenti più
marcatamente Sabbathiani - che parla “Poor
twisted me”, con il suo feedback come una nebbia acida e la
voce filtrata. L’heavy rock torna implacabile in “Thorn
within” e “Wasting my hate”,
rauche, fumose, corrosive, ma c’è tempo per omaggiare anche l’altra
sponda dell’Atlantico, “Ronnie” è la
versione anni ’90 della “L.A. Connection” dei Rainbow (da ‘Long
live rock and roll’), un boogie ipnotico e acido, e a
concludere, i dieci minuti di “The outlaw thorn”
una cavalcata tenebrosa suggellata con un lungo assolo dal sapore psych. 'Load' fu un altro sfracello nelle
classifiche di mezzo mondo, anche se non riuscì a ripetere i numeri del
‘Black album’, e peggio ancora fece ‘Reload’,
replica in tono più heavy e meno blues che la band dette appena un anno
dopo. I fans di più vecchia data, quelli che ancora piangevano la
scomparsa di Cliff Burton, cancellarono in massa i Metallica dal proprio
orizzonte musicale ( fra di essi non mancavano gli oltranzisti che
ritenevano la band creativamente morta già con la fine di Cliff), ma si
trattava comunque di una minoranza in fondo quasi trascurabile comparata
alla marea di nuovi adepti del culto sparsi ai quattro angoli del
pianeta. Il lungo periodo di stop in seguito alle crisi interne,
l’abbandono di Jason Newsted e le sue dichiarazioni poco eleganti a
proposito degli ex pards, l’ingresso di Robert Trujillo, i concerti
con l’orchestra sinfonica, seguono o precedono il ritorno
discografico, quel ‘St. Anger’ che
nessuno, mi pare (neppure i Four Horsemen stessi, temo), è
riuscito a spiegarsi in tutta la sua disarmante bruttezza: piatto,
monocorde, noioso, inutilmente violento, con un suono che è eufemistico
definire schifoso. Solo - mi auguro - un breve lampo di follia
(propiziato, secondo alcune voci, da uno sconfortato James Hatfield e più
o meno subito dagli altri, Bob Rock incluso), la quasi inevitabile
macchia nero pece sulla altrimenti lucente - anzi, abbagliante -
reputazione di una delle band più geniali nella storia dell’hard
rock.
I
cambiamenti di sound, le conversioni ed i voltafaccia sono tra le rock
bands roba all’ordine del giorno, è notorio. Certi gruppi hanno
ottenuto successo proprio grazie al saltabeccare da un genere di moda
all’altro, come i Cult. Accodarsi ai vincenti non è poi scandaloso se
produce risultati artisticamente validi, e, insomma, se dei musicisti
prendono la decisione di esplorare un ambito differente da quello prima
frequentato, non si può per principio dargli dei mercenari, accusandoli
di essersi venduti al miglior offerente per ramazzare un po’ di
quattrini sfruttando i trend più in voga. Nel caso dei Tattoo Rodeo,
poi, il passato era stato liquidato definitivamente cambiando
addirittura nome. E che nome: questa band, un tempo, si chiamava White
Sister... Investiti
di una sorta di eredità spirituale degli Angel grazie anche alla
produzione che Gregg Giuffria aveva curato per i loro due album, i White
Sister non avevano ottenuto grossi riscontri in termini di vendite,
nonostante l’altissima qualità del materiale proposto ed un cantante
straordinario. E così, dopo ben cinque anni di riflessione, decisero di
voltare pagina. Cambiarono il tastierista, si rifecero il look e, dulcis
in fundo, mutarono il monicker. Dall’ hard melodico dell’ultimo lavoro firmato White Sister, ‘Fashion
by passion’, ad un hard rock eclettico ma con una decisa
impronta blues, sulla scia dei Cinderella, dei Tyketto, dei Bon Jovi
più root, dei Baton Rouge più bluesy di ‘Lights
out on the playground’. E la classe della band risplendeva
fulgida anche nel nuovo clima più rustico,
producendo formidabili schegge di hard rock melodico dalle atmosfere
cangianti. L’atout restava
la voce superba del singer Dennis Churchill-Dries: un ruggito
impeccabilmente intonato, caldo, espressivo, nitidamente pastoso,
limpidamente rauco; una voce, insomma, che riusciva a coniugare gli
opposti, a sposarli in maniera quasi miracolosa. “Strung
out” apre il disco con una eloquente slide guitar ed un riffone
mastodontico su cui Dennis ricama un refrain suggestivo, da pura cowboy
song, ed è sempre all’insegna dell’acustico l’inizio di “Sweet
little Vikky”, un hard melodico piccante ma sinuoso con un bridge che alterna esplosioni di keys al
limite del pomp e intrecci voce/chitarra acustica. “Been
your fool” e “Let me be the one”
sono impeccabili ballad bluesy sulla rotta Aerosmith/Cinderella, ma c’è
spazio anche per il boogie, contemporaneamente trucido e anthemico in
“Everybody wants what she’s got”, fra
i Dirty Looks e i Kix, con un testo che si risolve in un lungo elenco di
grupies completo di indirizzo e specialità... E’ sempre un gran
fraseggio acustico che apre “Ain’t no reason
why”: ombre Zeppeliniane, andamento anthemico, sfumature pomp,
un refrain fantastico. “Blonde ambition”
è scatenata, fra i Firehouse ed i Babylon A.D., ma “Love
shuffle” è la perfezione, la meta finale per chiunque vada
alla ricerca del connubio ideale AOR-Blues: l’intreccio acustiche /
piano / armonica / cori femminili è
esemplare, il coro da infarto! Un riff tostissimo apre “Shotgun
Johnny”, clima anthemico alla Baton Rouge di ‘Lights
out on the playground’, tastiere imponenti che cadono a valanga
nel bridge. “Tell me why” è l’unico
tributo al passato, una gigantesca power ballad dominata dalle keys. “One
way love” richiama alla mente i Tyketto, ma anche dei Dirty
White Boy in versione AOR, e si replica immediatamente con “Down”
in un clima più drammatico e western. Chiude alla grande “Hard
like a rock”, blues scanzonato, aerosmithiano fino al midollo. Prodotto
da Ron Bloom, con Paul Sabu nel ruolo di ingegnere del suono e corista,
‘Rode hard - put away wet’ arrivò
troppo tardi, nel ferale 1991, mentre gli zozzoni del nord ovest
calavano sulle spiagge della sunny California con lunberjack, ombrelli e
i dischi dei Sonic Youth sotto il braccio. Scaricati dalla Atlantic a
tempo di record, i Tattoo Rodeo si rifecero vivi solo nel 1995, con ‘Skin’,
uscito per la belga Mausoleum (una label che negli anni ’80
raggiunse punte quasi sublimi di ridicolo pubblicando caterve di
album dell’heavy metal più rozzo, primitivo e ingenuo che si possa
immaginare), molto più root di ‘Rode...’.
Dal 1998 si parla poi di un ritorno dei White Sister sotto l’egida
della Frontiers, ma, ad oggi, tutto tace su questo fronte. Nota finale: di recente ho presentato album che vengono venduti su eBay e siti equivalenti a prezzi da mutuo agevolato. Questo magnifico disco, invece, è reperibile con facilità per pochi dollari, e mai come in questo caso la quantità di moneta occorrente per entrare in possesso dell’oggetto è vistosamente sproporzionata al suo effettivo valore. Devo aggiungere altro?
Stavolta la prendiamo larga. Molto
larga. Il linguaggio della musica rock è
universale: può piacere o meno, ma dal Sudafrica alle Aleutine, da
Mosca a Buenos Aires, dal Tropico del Cancro a quello del Capricorno,
non c’è individuo che non sappia quantomeno riconoscerlo.
Dopo cinquanta e passa anni dalla sua nascita, il rock ha trovato
terreno fertile in più di un paese: la Gran Bretagna, l’Irlanda,
l’Australia, la Germania eccetera. Ogni terra d’adozione gli ha dato
(o gli ha tolto) qualcosa. Ma (per quanto i critici nostrani si sforzino
di dimenticarlo) è negli Stati Uniti d’America che la musica rock è
nata: la sua giustificazione, il suo senso,
va sempre cercato laggiù. Stringendo un po’ il quadro, possiamo dire
che quando gli americani fanno rock, si rivolgono innanzitutto ai loro
connazionali. Certe scelte che a noi non-yankees possono apparire
incomprensibili, vanno interpretate secondo questo criterio. Bon Jovy è
una star mondiale, tiene concerti anche in Giappone ed a Taiwan, ma ogni
volta che scrive una canzone, la sua testa è nel New Jersey, non certo
a Tokio o a Taipei. E tutti noi che non viviamo nel Kentucky o in
California, non possiamo che guardare questo panorama da fuori, secondo una prospettiva che a volte ci consente di osservare
con una lucidità ed un’acutezza che gli americani - immersi in quella
realtà fino al collo - non hanno; o, viceversa, ci sbarra la strada ad
una comprensione piena di certi fattori. Stringiamo ancora il quadro,
riduciamolo alla nostra italietta canzonettara e neomelodica. A meno che
non ci sia toccata in sorte una famiglia di rockettari convinti che
dalla più tenera età hanno bombardato i nostri padiglioni auricolari
con materiale sonoro ad alto voltaggio, il nostro panorama musicale è
stato in genere circoscritto a ciò che veniva fuori da radio e TV.
Tralasciando tipi come Little Tony e Bobby Solo, che ancora nei primi
anni ’80 venivano presentati in TV (sopratutto dal Pippo nazionale,
onnipotente ed indiscusso dominatore dei nostri pomeriggi domenicali)
come succedanei di Elvis che tutta l’Europa ci invidia, e la sporadica
comparsa di qualche meteora pop fuori dal coro, non c’è dubbio che
tutti abbiamo dovuto subire una quasi inconsapevole educazione musicale
all’insegna della “bella melodia”. D’accordo, ogni tanto viene
fuori un cantautore che madre natura non ha proprio benedetto con corde
vocali formidabili (pensate agli ululati striduli di Baglioni, alle
cantilene robotiche di Max Pezzali o a quel gemito tremolante e asmatico
che Carmen Consoli fa passare per una voce umana) ma non credo si possa
mettere in discussione il fatto che nel nostro paese è sempre vivo il
mito della “grande voce”. E’ come se tutti rimpiangessero
segretamente i festival di San Remo degli anni ’50 e i talent scout
sperassero sempre di scoprire da qualche parte il nuovo Claudio Villa.
Insomma: nel nostro immaginario musicale collettivo –
che anche noi hard rockers abbiamo assorbito, ci piaccia o no
l’idea – dominano gorgheggi da usignolo e/o maschi ruggiti
baritonali. Forse ce l’abbiamo scritto nel DNA, chi può dirlo? E
quando entriamo in contato con stili canori radicalmente diversi da
quelli che il nostro imprinting ci ha abituato a considerare
“buoni”, scatta qualcosa. In genere, qualcosa di negativo. Fin dagli anni ’40, gli americani
hanno una specie di culto per quei singer capaci di prodursi in high
pitch vocals, di esprimersi in un falsetto acutissimo. Anche in
Italia abbiamo avuto qualche esempio di band provvista di cantante in
grado di esibirsi nella perfetta imitazione di una sirena antifurto,
come i Cugini di Campagna, ma bisogna riconoscere che questo ensemble
sapeva quantomeno incanalare le voci bianche in melodia orecchiabile.
Jimmi Bleacher, il cantante dei Salty Dog, badava solo a far vibrare la
propria laringe per sputare fuori note tanto acute da essere al limite
degli ultrasuoni. Aveva tecnica, non stonava e possedeva un tono
naturale più che buono. La sua era una scelta ben precisa, ed
evidentemente sottoscritta dal produttore del disco in esame, il
veterano Peter Collins. Se andrete a leggere i commenti su quest’album
nel forum di un sito ben noto dedicato all’hard rock melodico, Heavy
Harmonies, scoprirete che per le vocals di Bleacher si sprecano gli
elogi: ed è quasi inutile sottolineare che praticamente tutti i posting
vengono dagli USA. E non è perché i miei cantanti
preferiti si chiamano David Coverdale, Paul Sabu, Kelly Keeling, Paul
Shortino, Jimmy Barnes, Ian Atsbury, Dennis Churchill, James Christian,
che trovo questo modo di cantare insopportabile. In cima alle mie
preferenze ci sono anche Robert Plant ed i suoi più validi epigoni
(Jack Russell, Lenny Wolf, Midnight, Mark/Marcie Free), ma una cosa è
cantare in falsetto, altra impostare il proprio stile vocale
sull’emissione costante ed ossessiva di acuti spaccacristalli. Eppure,
agli americani (e qualche
volta anche agli inglesi ed ai tedeschi) questo modo di cantare piace da
matti. Niente mi toglie dalla testa che uno degli elementi che
contribuirono al successo degli Slaughter fu proprio la voce superacuta
di Mark, perché la proposta della band non aveva nulla che la facesse spiccare fra quella di altri gruppi che però non potevano contare
sui servigi di un singer che poteva lanciare armoniche in linea con
quelle che venivano fuori dalla gola dei castrati settecenteschi. Ed i
The Darkness, con quel loro tiepido ed un po’ insipido collage di
elementi rubati ai dischi di Queen e AC/DC - fuori tempo e probabilmente
anche fuori luogo - a cosa mai devono il loro successo se non ad un
frontman capace di raggiungere le ottave più alte che ugola virile
possa sprigionare? Saranno tutti bravi quanto gli angloamericani vogliono,
questi moderni Farinelli, ma il loro modo di cantare fa a pugni con il nostro
modo di concepire il canto. E’ una barriera che per molti può essere
invalicabile, ma che per gustare questa band vale la pena tentare di
saltare. Almeno tentare. Se poi disponete di un buon equalizzatore
(ovviamente, se fate parte di quella minoranza che ascolta ancora musica
da un impianto stereo: non fatevi tentare da quello del Windows Media
Player e simili, per carità...) potete provare a tagliare un po’ gli
acuti micidiali di Bleacher lavorando di fino sulle frequenze più alte
(almeno suppongo, dato che io, un equalizzatore simile – purtroppo –
non ce l’ho). Tra le tante bands che volgevano il
proprio sguardo agli anni ’70, che percorrevano a ritroso quella
strada aperta da Led Zeppelin, Free, Bad Company eccetera, i Salty Dog
furono probabilmente quella che lasciava intravedere le prospettive più
entusiasmanti, affrontando la materia con un piglio deciso, lontano da
manierismi e citazioni, evitando qualsiasi compromesso con la scena
melodic metal. Per usare una trita similitudine, apparivano come un
magnifico diamante grezzo, ancora da tagliare, lucidare, privo di una
forma definita ma già splendente di luce propria. La Geffen li scritturò
immediatamente dopo averli visti suonare al mitico Whiskey-A-Go-Go, li
spedì in Galles per registrare questo ‘Every
dog has its day’, non lesinò dollari per promuoverli, ed il
singolo “Come along” riscosse un
notevole successo, bissato dal videoclip che la band girò per
“Lonesome fool”. Quando sembrava
che la strada per i Salty Dog fosse tutta in discesa, Bleacher (proprio
lui...) mollò la band, che dopo aver provato ad inserire come nuovo
singer Darrel Beach si disfece scomparendo nella nebbia. ‘Every dog
has its day’ testimonia una genuina ricerca delle radici blues
dell’hard rock, che trova la sua espressione più sincera nella
coverizzazione del maestro Willie Dixon. Allo stesso modo dei Led
Zeppelin, i Salty Dog prendono una delle sue canzoni, “Spoonful”
(rifatta pure dai Cream sul loro disco di esordio, nel 1966),
violentandola fino a renderla quasi irriconoscibile: l’armonica
impazzita si contrappone ad una ritmica degna dei Blue Cher su cui
Bleecher lancia acuti da traforare la scatola cranica... I Led Zeppelin
sono – ovviamente – omaggiati spesso e volentieri dalla band: nel
riff funk di “Come Along”, che pare
davvero spuntata come per magia dalle sessions di uno dei due primi
album della band di Jimmy Page; nel clima rovente di “Heave
hard (she comes easy)” e “Where the sun
don’t shine”. “Cat’s got nine”
richiama in qualche modo gli AC/DC prima maniera, “Slow
daze” gli ZZ Top più sporchi degli anni ’70. “Just
like a woman” rotola via tra acustiche e banjo, un country
& western senza concessioni alla melodia facile, mentre l’altra
ballad (molto power) “Sacrifice me” ha
qualcosa dei Guns’N’Roses, come il rhythm & blues “Lonesome
fool”, con il banjo a dare il tocco root. “Ring
my bell” e “Keep me down”
piaceranno ai patiti dei Bulletboys, hard blues massicci, bellissimo il
riff di “Keep me down” dove Bleecher la
pianta finalmente di fare l’imitazione di un trapano a batteria e
canta da essere umano. Precede questa canzone “Sim
Sala Bim”, quaranta secondi di chitarra elettrica orientaleggiante su un tappeto
quasi rumoristico. “Nothin’ but a dream”
chiude l’album in un clima convulso, quasi ti aspetti di vedere
le tonsille di Bleecher schizzare sanguinanti dalle casse, ma con un
grande assolo di slide guitar. Se avete amato Badlands (in particolare quelli di ‘Voodoo highway’), Bulletboys, i Guns’N’Roses più root, tutto il grande rock settantiano blues oriented, ‘Every dog has it’s day’ può divenire una delle vostre priorità. Possono creare qualche difficoltà nell’approccio la registrazione scarna, il suono essenziale, e – sopratutto – la voce di Jimmi Bleacher. Se poi il suo modo di cantare riesce di vostro particolare gradimento, sarete in paradiso.
|