Continuando a trattare di dischi diretti da maestri della produzione, puntiamo i riflettori sull’unica opera firmata dai No Sweat (ma che bel moniker… ve l’immaginate una band italiana che si fa chiamare Niente Sudore?), su cui appose la propria firma quello che per il sottoscritto è stato il maestro assoluto: Keith Olsen. I No Sweat erano irlandesi, sotto contratto con una importante etichetta britannica, la London Records: contratto ottenuto grazie ai buoni uffici di Joe Elliot, che produsse il loro primo singolo, “Heart and Soul” (una hit nelle classifiche irlandesi nell’estate del 1989). Per registrare l’album, però, la London spedì la band in California, a lavorare nientemeno che con Keith, e ovviamente nei suoi studi di Los Angeles, i Goodnight L.A. E quello garantito dalla London Records ai No Sweat non doveva essere un marginal record deal (per la spiegazione dell’espressione, andate alla recensione dei Magnum), considerato che, con il posto di batterista vacante, la band si potè permettere di ingaggiare James Kottak per incidere le parti di batteria, le tastiere vennero programmate da Jim Crichton dei Saga e il principe dei session man Tim Pierce aggiunse delle parti di chitarra a due canzoni (è però significativo il fatto che ‘No Sweat’ venisse registrato in analogico, quando i Goodnight L.A. disponevano di ben due multipista digitali Sony 3324, che all’epoca erano il massimo che la tecnologia offrisse per la registrazione audio: evidentemente il deal non era marginal ma neppure regale). Da sottolineare che il songwriting restava tutto interno alla band: le canzoni erano buone ma la loro efficacia stava in primis negli arrangiamenti e nella produzione, calibrati con impagabile raffinatezza e squisiti tocchi di fantasia da Keith. La track d’apertura era (ovviamente) “Heart and Soul”, reincisa per l’occasione: agile ma nello stesso tempo vigorosa, bell’impasto di Journey, Foreigner e Asia con non indifferenti tocchi pomp, ma molto più californiana suonava “Shake”, dove i No Sweat diventavano quasi degli Autograph sofisticati, con le tastiere che recedevano sullo sfondo lasciando spazio alle chitarre. “Stay” addolciva sapientemente i Bon Jovi, con un arrangiamento attraverso cui risaltavano imprevedibili e riuscitissimi flash di ottoni, mentre “On the Edge”, aperta da un giro geometrico di keys, risultava notturna nelle strofe, molto Surgin’ nel refrain, con quella tipica urgenza che marchiava il sound della band di Jack Ponti. “Waters Flow” segnava un cambio di scenario, con un arpeggio country & western che ci portava in un southern laccato di cromo luccicante fra Tangier e Dillinger, arricchito da cori femminili e refrain anthemico, “Tear Down the Walls” aveva un inizio traditore, cominciava come un voodoo blues, diventava elettrica su un architettura di riff secchi e potenti scivolando poi in una dimensione melodica e anthemica sempre molto Autograph (e magari anche Kix, escludendone però del tutto la componente glam), gestendo le transizioni da un’ atmosfera all’altra con magnifica fluidità, e ancora la band di Steve Plunket tornava nelle note prima di “Generation”, poi di “Lean on Me”: la prima un hard melodico da spiaggia, spensierato e divertente, con un arrangiamento strepitoso in cui spiccano i tocchi policromi di tastiere; la seconda più elettrica e serrata, e nel refrain magari un po’ più anthemica e Kix. “Stranger” omaggiava i Survivor, tra strofe fascinose e un refrain rampante, il tutto orchestrato con mirabile eleganza, mentre in chiusura si tornava al southern cromato con “Mover”. L’album, uscito anche in USA (distribuito dalla Polygram), Giappone e Germania, venne stranamente pubblicato in UK dalla FF RR Records, una sottoetichetta della London che era stata creata dalla label inglese per i suoi gruppi dance e techno: non credo fu questo a determinare il flop di ‘No Sweat’, ma senza dubbio generò un po’ di confusione… Oggi, a seconda dei supporti (CD, LP, cassette), il prezzo va dai dieci ai trenta dollari (su eBay, mentre su Amazon – dove regolarmente si concentrano i venditori fuori di testa – i prezzi raggiungono anche gli 80 euro… per le cassette!), cosa che renderebbe più che mai opportuna la ristampa di un lavoro eccellente, non tanto per merito di chi lo incise ma per quanto un produttore geniale seppe trasfondere in canzoni che in mani meno ispirate forse avrebbero finito per suonare se non trascurabili di certo molto meno efficaci.
Chi conosce questa unica testimonianza discografica dei Frenzy potrebbe ritenere superfluo dedicarle una recensione di quelle lunghe… e non è detto che abbia torto. Se spendo un po’ più di inchiostro virtuale per descrivere a chi non lo conosce ‘Stronger Than Dirt’, questo non accade perché voglio concedermi il divertimento di affondare più o meno sadicamente il coltello nelle piaghe di un album imperfetto, ma solo per mostrare cosa accade a chi ha delle ambizioni e magari anche le capacità per tradurle in fatti (nel nostro caso, musica) concreti, però non dispone della lucidità e della misura necessarie per operare la traduzione tutto da solo… e a questo punto qualcuno avrà già compreso dove voglio andare a parare. ‘Stronger Than Dirt’ è un album a cui avrebbero fatto un gran bene le cure di un produttore esperto e capace: invece venne coprodotto dal batterista della band, Tony Lee, e da Tony Ricci, all’epoca appena agli albori della carriera e comunque mai – né prima né dopo questo album – coinvolto nel rock melodico. Aggiungiamo il fatto che la label indipendente che lo pubblicò, pur non essendo una di quelle più dilettantesche e scalcinate, non era ovviamente in grado di assicurare alla band uno di quei deal che consentono ai musicisti di rimanere in studio per tre o quattro mesi e la frittata era fatta. Ma fu, ‘Stronger Than Dirt’, vera frittata? Andiamo a scoprirlo. Fin dalla prima track si ha la sensazione che questa band non voglia conformarsi alle regole più o meno buone con cui si compila un album. Difatti al numero uno della scaletta compare l’unico strumentale contro undici pezzi cantati: non un semplice intro, ma proprio un brano strumentale, lungo più di tre minuti, intitolato “Time Travel”, drammatico, dove le tastiere hanno pari dignità con le chitarre e in qualche momento non è un’eresia paragonare i Frenzy a dei Rush meno cerebrali. Una dichiarazione d’intenti? Per niente. È piuttosto la successiva “Dirty Dream” a rappresentare bene l’album, col suo metal californiano alla Bulletboys, completato da un refrain brado e mezzo stonato, e su quella stessa falsariga procede “Popular Car”, più ritmata, con nel bridge e nell’assolo qualcosa degli Extreme. “Tell Me a Story (Mr. Destiny)” è aperta e chiusa da un bel pianoforte che però fa a pugni con quello che sta in mezzo, una canzone che non sa decidersi tra essere una power ballad o qualcosa di più elettrico e – soprattutto – con vocals a tratti decisamente stonate: non posso credere che non se ne siano resi conto, deve essere stata una cosa voluta, ma quale senso debba avere non saprei dirvelo. Le sfumature Extreme si fanno più forti su “Runnin' Outta Patience”, specialmente nel riff portante, i flash di tastiere, l’assolo davvero efficace, e proprio buona risulta “Far Away”, che parte con un bell’intreccio di acustiche dal suono robusto, salendo con un lento crescendo verso un’elettricità selvatica e irriverente. Se “Pump” suona come dei Motley Crue più heavy metal del solito, “Aunties Grand” è un assolo di pianoforte che certifica le qualità del key player e cantante Chris Stuart ai tasti d’avorio: tasti disertati da Stuart nella successiva “City Funk”, che di funk non ha proprio niente, è il solito metal californiano di grana non troppo fine, con un cantato sopra le righe e le solite parentele Bulletboys. Con “Bad Seed” si sfiora il demenziale: rotolio di basso, un riffone zeppeliniano che sta all’incrocio tra “Kashmir” e “Ten Years Gone”, le tastiere, ma Chris Stuart sembra che qui si diverta a fare la parodia di un basso lirico o dello sconosciuto cantante dei Delta Rebels, roboante, sguaiato e spesso stonato… Cosa mai volessero esprimere con un cantato del genere non riesco a immaginarlo, anche perché la voce qui esce talmente impastata da essere quasi inintelligibile, e quella che poteva essere una buona canzone diventa cinque minuti e ventisei secondi di strazio sonico. Anche “(Lead Us Not Into) Temptation” prova un approccio originale, ma meno eccentrico della canzone precedente: aperta e chiusa da un coro da chiesa con tanto di organo, completata da una strana coda strumentale, rimanda ancora agli Extreme, così nervosa, ritmata e saltellante, mentre “Where R U Now” è quasi una power ballad, fra chitarre pulsanti, veli di tastiere, un po’ nevrotica (alla Kik Tracee, direi), con un crescendo cupo, tempestoso e confuso. In chiusura, “If U Like It Hot” va dritta verso i Van Halen, con tanto di chitarre acrobatiche e cantato istrionico. Insomma, un album confuso nel suo complesso, privo di direzione e con delle soluzioni più bislacche che discutibili: Chris Stuart sapeva cantare, e pure bene: se spesso, molto spesso, la sua voce la sentiamo stonata deve essere perché così ha voluto lui. Il disco è curato nelle timbriche, ma i tentativi di distinguersi e fare qualcosa di diverso dal solito risultano il più delle volte maldestri: pare che ‘Stronger Than Dirt’ sia stato assemblato alla garibaldina mentre la produzione (nel senso più completo del termine, ossia: dare un senso a un lotto di canzoni riunite a comporre un album, canzoni anche molto diverse tra loro come stile e atmosfera) sembra mancare del tutto. E dunque, sì: ‘Stronger Than Dirt’ è proprio una frittata. E, al giorno d’oggi, una frittata particolarmente costosa. Su eBay i CD vengono prezzati dai cinquanta ai cento dollari (su Amazon neppure mi sono preso la briga di controllare, ma suppongo i prezzi siano ancora più alti), rendendo l’unica testimonianza lasciataci dai Frenzy merce per collezionisti assatanati. Mi auguro solo che qualche etichetta non venga tentata dalle quotazioni stellari a ristamparlo (lo fece la label pirata Time Warp Records nel 2006, ma soltanto su CDr): con tanti album magnifici che attendono una riedizione, ripubblicare ‘Stronger Than Dirt’ sarebbe addirittura grottesco.
Non si dirà mai abbastanza male dei monikers, di questi marchi praticamente indelebili che i musicisti è come se si facessero tatuare sulla fronte e in genere resistono a qualunque tentativo di cancellazione. Ma davvero non capisco il motivo che ha indotto Rob Lamothe ad adottarne uno nuovo in sostituzione di quello glorioso (ma glorioso davvero) che lui si porta stampato addosso: Riverdogs. Solo un modo per far sentire più coinvolto il suo nuovo pard, James Harper (Fighting Friday)? La presenza qui di Vivian Campbell (su una sola canzone) e Nick Brophy (che ha mixato l’album) non aiuta a capire la scelta di Rob. Comunque sia andata, il sound resta quello che abbiamo imparato ad associare ai Riverdogs, anche se con qualche distinguo a livello di arrangiamenti. Quello che si deve sottolineare, piuttosto, è il livello elevatissimo del songwriting (nettamente superiore a quello dell’ultimo Riverdogs, l’altalenante e un po’ sbiadito ‘California’) e della produzione. ‘The New Truth’ si pone fin d’ora fra i candidati a miglior disco dell’anno, e davvero mi stupirei se nei prossimi nove mesi qualcuno riuscisse a pubblicare qualcosa di pari livello. Si parte alla grande con “Wild Child”, introdotta da un fraseggio misterioso di chitarra, che procede drammatica su un riff incalzante: notevole, eppure “So Fly” sale molto più in alto: ariosa e in chiaroscuro, modulata tramite un arrangiamento policromo che comprende tastiere, chitarre acustiche e perfino un po’ di armonica, dolce nelle strofe, sale potente nel refrain con il plus di un bridge d’atmosfera. Cambio di scenario con “A Man with No Direction”, col suo bel riff secco e funk, decisa, ritmata, con uno splendido bridge, sempre Riverdogs fino al midollo come la successiva “Traces of the Truth”, che proietta quelle atmosfere in una dimensione più melodica, con le tastiere a dare colore, le chitarre mutevoli e la inconfondibile vocalità di Rob Lamothe, sempre così meravigliosamente intensa. “I Won’t Look Back” è un hard bluesy cadenzato, quasi un voodoo, vigoroso, elettrico, notturno, mentre “Rio Tularosa” ha un ritmo da danza di guerra, potente ma agile, suggestiva e diretta. Se il classico riffing di “Shine” viene cavalcato da una melodia tempestosa, “Off the Rails” torna alle atmosfere blues (e stavolta anche un po’ r&b), con un bel riffing vario e vivace e un arrangiamento davvero impagabile, pieno di movimento e colore, ma con “Long Gone” c’è quasi da gridare al miracolo, tra il riffone zeppeliniano, le tastiere turbinanti, la melodia vocale tra il funky e l’r&b, le rapide comparse del sax, i flash di chitarra funk, gli assoli incrociati, scatenata e raffinata. La prima ballad arriva con “Real Love”, luminosa fra chitarre limpide, tastiere e pianoforte, ma anche “Risen” è una ballad, elettroacustica, con le tastiere che disegnano un crescendo suggestivo, mentre “Everything Forgiven” è fatta di strofe rarefatte, un refrain elettrico e sui generis, un bridge funky, tutta chiaroscuri. Chiude “My Goodness”, ancora una ballad che si snoda fra tastiere d’archi, chitarre acustiche, basso e voce, delicata e intensa nella stessa misura. La produzione è semplicemente favolosa, la qualità audio immacolata: se proprio vogliamo trovare un difetto qui dentro, possiamo solo puntare l’indice sulla scaletta che concentra stranamente tutte e tre le ballad in coda all’album. Detto che Rob e James Harper hanno completato la formazione con il figlio di Rob, Zander Lamothe, alla batteria, e che hanno partecipato alle registrazioni musicisti più o meno noti di ieri e di oggi (Mike Mangini, Greg Chaisson, Jimmy Wallace, Doug Pinnick, Rhonda Smith, Kfigg e il già citato Vivian Campbell), non c’è altro da dire, salvo consigliare a tutti l’ascolto di ‘The New Truth’.
L’AOR non è uno di quei generi seguiti con fervore quasi religioso: qualche fanatico (in senso buono) che non ascolta altro ci sarà certamente, ma in linea generale, il popolo dell’AOR non si chiude a riccio rifiutandosi per principio a musica non etichettabile sotto il pur vasto ombrello del nostro beneamato acronimo. Mi pare, in compenso, che si possa dividere il popolo suddetto in due frange abbastanza ben definite: da un lato ci sono quelli che pendono verso l’heavy metal, dall’altro sta chi predilige il rock più o meno duro. Come dire che nei loro stereo o iPod o quello che vi pare, quando non girano i Journey, i Def Leppard o i Bon Jovi, troviamo da una parte Metallica, Manowar, System Of A Down e compagnia, dall’altra Bruce Springsteen, Lynyrd Skynyrd, U2 eccetera. Qualche mosca bianca che alterna gli U2 ai System Of A Down ci sarà certamente, ma è appunto questo: una mosca bianca. Occorre però sottolineare che le riviste che una volta davano spazio all’AOR, sia in Europa che negli USA, si occupavano innanzitutto di heavy metal: Kerrang, i vari Metal Hammer, Metal Shock e HM avevano come target fondamentale chi ascoltava Iron Maiden, Venom e Megadeth, non chi passava in prevalenza il suo tempo con Journey e Foreigner. Il risultato di questo orientamento della stampa del bel tempo che fu verso la durezza sonora lo possiamo cogliere nel referendum che Kerrang fece nel 1988, quando chiese ai suoi lettori (tutti metallari, ovviamente) quali erano gli album di AOR più grandi di tutti i tempi e gli Icon conquistarono il terzo posto con ‘Night of The Crime’. Perché dubito fortemente che la frangia non metallara di fan dell’AOR avrebbe collocato il secondo album degli Icon così in alto nella graduatoria, confinando – tanto per fare qualche esempio – i Foreigner di ‘4’ al quattordicesimo posto e ‘Wired Up’ di Jeff Paris al trentaquattresimo… Non che ‘Night…’ non sia degno di essere ricordato fra i migliori album del nostro genere, ma ha quel genere di sound che lo rende senza dubbio molto più gradevole a chi ha l’abitudine di smerigliarsi d’abitudine i padigliori auricolari con i Metallica piuttosto che con gli U2. Prodotto da Eddie Kramer, mixato da Ron Nevison, con sei canzoni che portavano la firma di Bob Alligan Jr., ‘Night of The Crime’ veniva dopo un disco d’esordio decisamente più heavy metal, e segnalava inequivocabilmente la volontà della band di spostarsi verso territori sonori più “leggeri”. “Naked Eyes”, col suo suggestivo intreccio fra chitarre e tastiere, era figlia di una band che con l’heavy metal mai ha avuto a che fare, i Toto, mentre “Missing” era, pur nel suo registro molto elettrico, praticamente una power ballad da arena rock, con gran spiegamento di keys e belle sfumature Foreigner, “Danger Calling” imbastiva su un riff molto Ratt un metal californiano dalla melodia nello stesso tempo fresca e potente, il refrain elementare ma efficace di “(Take Another) Shot at My Heart” guardava dalle parti di Bryan Adams. “Out for Blood” – preceduta da un intro non pertinente, fatto di riff zeppeliniani, tastiere quasi pomp e shredding classicheggiante – tirava di nuovo in ballo i Ratt, in un contesto più AC/DC, il cromatissimo class metal “Raise the Hammer” precedeva la power ballad “Frozen Tears”, molto Journey (quelli di “Who’s Crying Now”) col suo refrain gentile, “Whites of Their Eyes” tornava all’heavy metal americano, anthemico e ben risolto a livello di arrangiamento, mentre “Hungry for Love” virava verso il class, ultramelodica e con refrain drammatico. In chiusura c’era “Rock My Radio”, anthem in bilico tra i Def Leppard era ‘Pyromania’ e gli Autograph, in cui il volume delle chitarre veniva tenuto opportunamente basso. Su Billboard, ‘Night of The Crime’ andò così male che gli Icon vennero licenziati dalla Capitol ben prima che il 1985 finisse (Dan Wexler dichiarò a suo tempo che persero il contratto a ottobre o a novembre). Ma quello non fu un buon anno per il rock melodico nelle classifiche americane (intasate da album di pop e rock band britanniche, grazie anche alla cassa di risonanza del Live Aid), se fosse stato pubblicato l’anno successivo, chissà… Che sia effettivamente il terzo miglior album AOR di tutti i tempi è ridicolo, innanzitutto perché non si indice un referendum di questo tipo quando il genere musicale su cui ci si deve esprimere è ancora in pieno fermento (era, lo ripeto, il 1988) e, comunque, è mia incrollabile convinzione che queste classifiche non significhino un beneamato cazzo. Era senza dubbio un ottimo disco, a cui il mixaggio di Ron Nevison fece sicuramente un gran bene (il primo mix di Eddie Kramer non era piaciuto alla Capitol: troppo rough per un album di rock melodico?), che guardava avanti nella giusta direzione (evitava completamente quei ritmi robotici che ancora caratterizzeranno la musica pop per qualche anno e fecero la fortuna di una band AOR doc come i Loverboy) ma, ripeto, uscì forse nell’anno sbagliato, conquistandosi comunque un culto a dir poco ardente tra i fanatici (in senso, ovviamente, buono) del nostro genere, anche se la venerazione attecchì soprattutto fra quei fanatici che pendevano verso il rock durissimo.
I Saga sono una di quelle band difficili da confinare in un ambito musicale specifico. Nella loro scheda su Wikipedia, alla voce “genere”, troviamo una filza di nomi (rock, progressive rock, new wave, power pop, neo-progressive rock), Heavyharmonies se l’è cavata con un ambiguo “pomp/prog”: insomma, nessuno sembra in grado di definire con una certa precisione quello che i Saga suonano. La difficoltà ad inquadrare una band in un genere ben determinato non è certo un difetto, però spesso rischia di comprometterne la popolarità. Band canadese, i Saga in casa propria hanno riscosso pochi consensi, mentre per qualche motivo che non saprei spiegare hanno conquistato una più che discreta popolarità in Germania, dove tutti i loro album da ‘Worlds Apart’ (1981) in poi sono entrati in classifica (l’ultimo ‘Symmetry’, nel 2021, è arrivato al numero 11). Naturalmente, questo favore ottenuto in terra germanica non deve aver avuto effetti strabilianti sulle loro finanze: notoriamente, i conti bancari lievitano quando si scala la classifica di Billboard e si gonfiano fino a scoppiare se la chart è la Billboard 200, dove però i Saga si sono affacciati l’ultima volta nel 1985 (con ‘Behaviour’, ma solo per un misero numero 87). Non che Jim Crichton e soci, a scalare la Billboard 200 non ci abbiano provato, pubblicando album di più facile collocazione all’interno delle usuali classificazioni dei generi musicali e, soprattutto, agevolmente assimilabili per il pubblico americano. Uno di questi è ‘Steel Umbrellas’, pubblicato nel 1994, a cui non si può applicare alcuna delle etichette elencate più sopra, dato che si tratta di un album fatto di AOR e pop rock. Le canzoni che lo compongono avrebbero dovuto costituire la colonna sonora di una serie Tv di non grande successo negli USA, ma pare che delle dieci track qui presenti ne vennero usate per i telefilm solo un paio. Su ‘Steel Umbrellas’ (prodotto da Jim Crichton e supervisionato da Spencer Proffer) i Saga si esprimevano spesso tramite un AOR leggerino e impostato su ritmiche funky, a cominciare dalla prima canzone in scaletta, “Why Not?” (vivace, un po’ Headpins, danzereccia con gusto), e poi con “Push It” (decisa e incalzante), “Steamroller” (con un bel contributo dei fiati) e “Feed the Fire” (un vero e proprio funky hi-tech, dove risalta l’intreccio di chitarre e tastiere). “(You Were) Never Alone” era d’atmosfera nelle strofe e morbida nel coro, in “Bet on This” le sfumature prog andavano a marezzare un pop rock sofisticato, con le chitarre presenti solo nell’intro e nel coro. Se “Shake That Tree” (cantata a due voci da Jim Gilmour e Paula Mattioli) ci dava un bel coro AOR, “Password Pirate / Access Code / Password Pirate” risultava nervosa, svelta, tutta percorsa da fendenti di chitarra e con un cantato sopra le righe. Due le ballad: “I Walk With You”, incantevole e rarefatta; “Say Goodbye to Hollywood”, lenta, morbida e tutta keys. Ristampato a più riprese (e più spesso, ovviamente, in Germania), disponibile anche in formato .mp3 su Amazon Music, ‘Steel Umbrellas’ è, in definitiva, pura delizia per chi ama l’AOR meno elettrico e più sofisticato, caratterizzato da un sound spettacolare e una produzione liscia come la seta.
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