Dei produttori non si parlerà mai
abbastanza bene; o mai abbastanza, in generale. Il ruolo da essi giocato
nella musica rock e nell’hard rock in particolare, non è mai stato
tanto evidente come nella nostra epoca, con le labels che mantengono
vivo l’AOR impossibilitate
a pagare i loro cachet, e
costrette ad affidare la produzione dei dischi agli stessi artisti. Con
risultati, a voler essere clementi a tutti i costi, sconcertanti. Troppo
spesso siamo costretti ad ascoltare lavori scoordinati, arruffati, privi
di un filo conduttore o piatti come una sogliola. Non parlo di qualità
audio, quella può garantirla anche un bravo ingegnere del suono, ma di
tutto quel lavoro che a noi profani risulta di difficile decifrazione e
che viene nella sua interezza denominato “produzione”. Forse, il
paragone migliore che possiamo usare per descriverlo è quello con la
regia cinematografica. Il produttore dirige, incanala, dice alla band
cosa è buono e cosa fa schifo, taglia o aggiunge, e infine fonde tutto
in un organismo coerente. La band suona, ma è il produttore che dà
forma alle canzoni, e, più spesso di quanto ci potrebbe far piacere
pensare, risulta il vero artefice di un capolavoro che in altre mani
poteva rivelarsi semplicemente un buon disco. Naturalmente, un
produttore non fa il disco da
solo. Se la band non collabora, il produttore ha ben poco di buono su
cui lavorare: proseguendo nella similitudine cinematografica, con un
copione ignobile recitato da attori
che sono dei cani, neppure il migliore dei registi può tirare
fuori un film da premio Oscar. Si può essere “fan” di un
produttore? Di certo, si può imparare ad apprezzarne il lavoro. Se mi
ritrovavo dubbioso circa l’acquisto di un disco, andavo sempre a
cercare il nome di chi era stato a produrlo, e se leggevo quelli di Beau
Hill, Bob Rock, Bruce Fairnbairn, Richie Zito, Ron Nevison o Andy Johns,
le incertezze svanivano. Se poi il nome era quello di Keith Olsen, le
aspettative salivano alle stelle. Questo
non significa che abbia comprato, sempre ed a scatola chiusa,
tutti i dischi prodotti da lui: ma, nel
contesto giusto, la sua sola presenza, sapere che era stato lui a dirigere ed assemblare il
tutto, mi dava quasi la certezza che il disco si sarebbe rivelato –
almeno... – piacevole. Il mio interesse per l’album dei Wildhorses
era stato focalizzato dalla presenza di due ex Kingdome Come nella line
up, Rick Steier (che nei KC faceva il chitarrista ritmico, mentre qui
suonava da solo tutte le parti di chitarra) e James Kottak (il
batterista, uno dei migliori drummer in assoluto della scena hard rock).
La speranza di ritrovare qualcosa della magnificienza Zeppeliniana dei
Kingdome Come nei Wildhorses era stata prontamente cancellata dalla
recensione letta su un noto magazine nazionale, che individuava quale
punto di riferimento per la nuova band piuttosto gli Whitesnake
metallici di ‘1987’. Dato che il
gradimento del sottoscritto per la musica del serpens
albus non è certo inferiore rispetto a quello per la band di Lenny
Wolf, l’acquisto si poteva prospettare comunque, ma quello che
convinse lo scrivente ad aprire il portafogli fu proprio il nome del
produttore. I Wildhorses nascevano per volontà
di James Kottak, che s’era associato in principio con il suo vecchio
amico Johnny Edwards, appena uscito dai King Kobra. Ma Johnny venne
contattato dai Foreigner per prendere il posto di Lou Gramm su quel
disco magnifico e sfortunato che fu ‘Unusual
heat’, e James Kottak dovette cercare un nuovo cantante per la
neonata band, trovandolo in John Levesque, singer di una oscura
formazione di New York, gli Shout (non la band cristiana di Ken Tamplin).
La band si completava con Chris Lester al basso, anche se nei credits
figura come ospite Jeff Pilson, e dunque è lecito chiedersi quante
tracce di basso siano state effettivamente suonate da Lester, che
potrebbe essere stato aggregato ai ranghi solo a fine registrazioni.
C’è poi un minuscolo e quasi insignificante cammeo alle tastiere di
Darren Wharton, di passaggio a Los Angeles a quell’epoca per incidere
il secondo album dei Dare, sempre sotto la guida di Keith Olsen e negli
stessi studi di registrazione, i Goodnight L.A. (dove Keith produce
quasi tutti i suoi dischi perché, semplicemente, sono di sua proprietà). ‘Bareback’
è, innanzitutto, un disco onesto. Mi spiego: questa band non era
formata da fuoriclasse (fatta eccezione per James Kottak, che oggi è il
batterista degli Scorpions), e quasi tutte le canzoni se le scriveva in
proprio. Eppure riuscì comunque a sfornare un prodotto di grandissimo
spessore. Come? Facendosi produrre da un grande produttore. Ripeto: è
qui che sta la differenza con quanto si registra ai nostri giorni, ed è
una differenza capitale. ‘Bareback’ è
frutto del lavoro di bravi musicisti diretti da un formidabile
produttore. Oggi possiamo avere solo i musicisti, e basta. A meno che i
musicisti non abbiano anche del vero talento come produttori (e accade
di rado) viene a mancare una variabile fondamentale nell’equazione, ed
i risultati che ci rende in questo caso sono, come minimo, sballati. In
questo disco, invece, funziona tutto, e senza un grande dispendio di
sovrincisioni né l’apporto delle tastiere: basta il tocco magico di
Keith Olsen. Il fatto poi che Keith sia stato anche tra gli artefici dei
due capolavori americani della band di David Coverdale (‘1987’
lo produsse assieme a Mike Stone, mentre su ‘Slip
of the tongue’ collaborò con Mike Clink), non deve essere
estraneo alla strepitosa riuscita degli episodi più marcatamente
Whitesnake - oriented: “Had
enough of your love”, “Cool me down”
(su cui aleggiano anche i fantasmi di Winger e Skid Row), “Matter
of the heart” (che parte quasi come una alternate version di
“Is this love” arricchendosi di sfumature Journey nel ritornello) e
“Burning up” (un mid tempo anthemico
piacevolmente sporcato di blues e rifinito da una slide guitar). Ma i
Wildhorses non guardano solo in una direzione, così “Your
love is junk” ha la forza d’urto dei Bulletboys in un
contesto più melodico, “The river song”
è una perfetta fusione Bon Jovy - Tesla, “Fire
and water” ha un riff portante di scuola AC/DC su cui si stende
una melodia maschia ed intensa in un bel clima root. Il riffeggiare di
Rick Steier su “N.Y.C. heartbreaker” mi
ricorda le cose dei Kingdome Come periodo ‘In
your face’, ma senza sfacciati richiami Zeppeliniani su questo
massiccio hard rock tipicamente yankee che si conclude con un bel drum
solo di James Kottak. L’inno alcolico “Whiskey
train” rotola via a ritmo di boogie (che classe...) mentre “Thougher
than love” e “Days in the sun”
sono scintillanti esercitazioni in tema di metal californiano, più
anthemica la prima, più scanzonata la seconda. La chiusura è affidata
ad una cover sorprendente, “Tell me something
good”, un vecchio brano funky di Stevie Wonder (risale al 1974)
che la band reinventa in versione hard rock in maniera addirittura
geniale (in quello stesso 1991 venne coverizzato anche da Lee Aaron su 'Some
girls do', ma in una chiave decisamente metal). Da rimarcare i piacevoli toni a-là Coverdale di John
Levesque, un cantante che avrebbe davvero meritato miglior fortuna. Recentemente è apparso ‘Dead ahead’, pubblicato dalla Z Records, una raccolta di undici canzoni registrate non si sa quando, probabilmente un collage di pezzi che risalgono alle sessions di ‘Bareback’ e qualche demo. Il fatto che su tutte queste canzoni sia accreditato al basso esclusivamente Jeff Pilson avvalora l’ipotesi che ‘Dead Ahead’ sia composto unicamente da materiale d’epoca, anche perché l’attività della band dopo l’uscita dell’album non risulta sia stata particolarmente intensa (credo non siano neppure andati mai in tour). Perché qualcuno si sia preso il disturbo di raschiare il fondo del barile di una band così poco ricordata e celebrata, è un interrogativo legittimo, sopratutto considerato che il materiale presente su ‘Dead Ahead’ è tutt’altro che memorabile, probabilmente tutta roba scartata e/o non ritenuta all’altezza di figurare su ‘Bareback’ e che oggi, in questi nostri, calamitosi tempi, viene edita come una primizia... e in confronto a tanta immondizia di fresca registrazione spacciata per oro puro, magari lo è...
Cosa c’era che non funzionava,
nel McAuley Shenker Group? La stampa nostrana non lo ha mai amato, e la
gran parte degli interventi su di esso parevano costruiti per metterlo
in cattiva luce: di musica si parlava poco, più che altro si facevano
commenti acidi riguardo la pettinatura esotica di Michael a base di hair
extensions violacee e c’era sempre spazio per ricordare che
McAuley aveva prestato la voce ai Far Corporation per una delle più
indegne cover di “Stairway to heaven” mai incise. Il nuovo MSG
pareva essere per i critici nostrani sopratutto questo. Quando qualcuno
si degnava di ascoltare anche i dischi, era tutto un girare attorno alla
solita questione del genere affrontato: che c’entra Michael Shenker
con l’hard melodico ed il class metal? Dov’è finito il guitar hero
che ci aveva deliziato prima con gli UFO e poi con il MSG vero, quando
l’acronimo significava Michael Shenker Group? Perché si è venduto
anche lui agli yankees? E via sacramentando. E’ una storia che ricorda
vagamente quella dei Van Halen del prima e dopo Roth, con la differenza
che Robin McAuley non era neppure un Sammy Hagar col suo bel pedigree
lustro e luccicante... E anche quella degli Whitesnake, dato che il
Michael Shenker Group andava forte in Europa e Giappone, ma non negli
USA. Così, dopo aver risolto i problemi di tossicodipendenza che
l’avevano tenuto fuori dal giro per quasi tre anni e sfasciato la
band, Michael – pare con l’aiuto del fratello Rudy – si
riorganizza e chiama come singer il bravo Robin, ex Grand Prix, i due ex
Lionheart Steve Mann (chitarra) e Rocky Newton (basso) ed il suo
connazionale Bodo Schopf alla batteria. Il nuovo MSG esordisce a
sorpresa al Monsters of Rock tedesco e pubblica nel 1987 il primo dei
suoi tre album di studio, ‘Perfect timing’,
a cui seguono nel 1989 ‘Save yourself’
e nel 1992 questo ‘MSG’ (che vedeva
all’opera una nuova sezione ritmica, formata da James Kottak e Jeff
Pilson) , tutti dischi registrati negli USA, prodotti da gente di grido
nel campo dell’hard rock che va per la maggiore: insomma, rivolti
all’audience americana piuttosto che a quella europea. E’ chiaro che
in chi non gradiva il genere, la nuova avventura del più
giovane dei fratelli Shenker non poteva suscitare molti entusiasmi.
Bisogna però riconoscere che il nuovo MSG, al di là di un paio di
singoli che fruttarono buone vendite, non riuscì a far breccia nelle
classifiche USA, galleggiando nel limbo delle bands da top 100 di
Billboard, una palude da cui nessuno dei tre album riuscì a sollevarsi
(‘Perfect timing’ toccò il numero 95,
‘Save yourself’ il 92, mentre ‘MSG’
non riuscì ad arrivare neppure fra i primi 100), tutto sommato con
qualche ragione. In linea di massima, quello che mancava era un
songwriting davvero incisivo. Michael Shenker era stato il prototipo del
guitar hero fino all’ arrivo di Eddie Van Halen prima e Yngwie
Malmsteen dopo. Un guitar hero che però ha sempre pensato in termini di
canzoni piuttosto che di assoli, che non aveva l’abitudine di
indulgere in esercizi di tecnica fini a se stessi. La conversione al
melodic rock non appariva improponibile, ed era propiziata anche dal
fatto che Michael per la prima volta lavorava con un singer
all’altezza dopo i tempi in compagnia dell’anonimo Gary Barden e poi
quelli – brevi e tormentatissimi – con Mister Carta Vetrata in
persona, Graham Bonnet (uno che dopo più di trent’anni di carriera deve
ancora imparare a cantare dal vivo). Purtroppo, il chitarrismo di
Michael Shenker si rivelava su questi nuovi lavori solo il pallido
fantasma di quello che aveva incantato ed entusiasmato sui suoi primi
dischi. Michael era diventato all’improvviso un chitarrista qualunque,
di quella sintesi stupefacente di hard rock e stesure
classicheggianti, tanto avvincente e spettacolare (che verrà
estremizzata dal buon Yngwie e compagnia a metà anni ottanta, perdendo
completamente di vista il perfetto equilibrio con la dimensione rock e
la struttura-canzone che Michael invece sorvegliava attentamente,
generando soltanto una messe di tediose riletture metal di partiture
classiche che immagino avranno suscitato sinistri scricchiolii nei
sepolcri che custodiscono le spoglie mortali di Bach e Mozart) rimaneva
poco o nulla. Era dunque solo nel songwriting che la band poteva trovare
una qualche distinzione, ma in questo comparto l’MSG si mosse con una
colpevole irresolutezza. La neonata ditta Shenker - McAuley, difatti,
non volle abbandonare del tutto l’hard rock melodico di più stretta
matrice europea né adottare in pieno il sound nato sulle spiagge della
California. Non si inseguiva la sintesi, piuttosto si tentava di
infilare entrambi i piedi nella stessa scarpa, mancava una decisa
impronta personale, la vera ispirazione, era il solito colpo dato al
cerchio e alla botte, facciamo contenti gli yankees ma non facciamo
imbestialire troppo i tedeschi... Questo genere di compromessi raramente fa
centro, e nel caso dell’MSG produsse dischi tiepidi e indecisi, mai
veramente brutti ma sicuramente non memorabili, dove più che godere l’opera dal principio alla fine si doveva
andare a caccia dell’episodio felice. Quest’ultimo album del
sodalizio anglo germanico (a mio opinabile giudizio il migliore dei tre)
non si discosta più di tanto dai suoi predecessori nel saltabeccare da
una sponda all’altra dell’Atlantico. “Eve”
apre l’album con un’atmosfera di netta marca Ratt, Robin McAuley
pare quasi fare il verso a Stephen Percy, la parte finale della canzone
è un palese omaggio al superclassico “Johnny B. Goode”, ma con “Paradise”
ci ritroviamo di botto all’Oktoberfest, il clima tronfio è
ammorbidito dall’interpretazione non sfacciatamente enfatica di Robin,
ma resta comunque roba difficile da inghiottire, almeno per il
sottoscritto... Molto meglio va “When I’m gone”,
una power ballad con qualche tratto House Of Lords, scritta da McAuley
assieme a Jesse Harms (che suona anche tutte le parti di tastiere del
disco), poi “This broken heart”
ricomincia a parlare tedesco, ma il brano non è spiacevole, più
interessante si rivela però “We believe in love”,
davvero ben bilanciata fra l’atmosfera americana ed un coro smaltato
del miglior lirismo teutonico. Altro cambio di rotta con “Crazy”,
siamo finiti all'improvviso in California, qui l’MSG sembra diventato i Kix
o i Brinty Fox, canzone bella soda e martellante, ma “Invincible”
è addirittura imbarazzante, sarebbe una notevole scheggia di street
metal se non fosse per metà identica alla “Welcome to the jungle”
dei Guns N’ Roses... è un furto così sfacciato che, passata la
sorpresa, ci si chiede che accidente sia passato per la testa di Michael
e Robin (e di Kevin Beamish, che ha prodotto il disco e dunque ha dato
l’OK a questa plateale operazione di ricalco). Facciamo finta di
niente e passiamo a “What happens to me”:
il titolo potrebbe far pensare ad una sorta di stupita giustificazione
della canzone precedente, cosa mi è successo?, cosa ho fatto?, che ci
fa questo disco dei Guns N’ Roses nel mio stereo?, invece (battute
maligne a parte) si tratta di una bella power ballad, forse la cosa più
vicina alle vecchie cose del MSG. “Lonely nights”
è formidabile, un grande metal da spiaggia, mentre “This
night is gonna last forever”, si rivela un incantevole hard
melodico dai suadenti tocchi pomp. Conclude “Nightmare”,
pregevolissima ballad acustica. Tirando le somme: non si tratta
certo di un disco da gettare dalla finestra, tutt’altro, ma la scarsa
simpatia che il progetto MSG raccolse trovava sicuramente una sia pur
parziale giustificazione nella realtà dei fatti, con canzoni che a
volte sono bellissime, altre si rivelano solo esercizi competenti ma
freddi, altre ancora discutibili tentativi di conquistare i favori di un
certo tipo di pubblico. Restano comunque, questi tre album, episodi di
discreta importanza storica, dato che tutto il movimento hard rock
germanico si è largamente ispirato ad essi, e una buona fetta delle
band tedesche di melodic rock se li tiene sempre sotto il cuscino (e i
risultati li conosciamo). Dopo essersi separato da McAuley,
Michael Shenker prima mediterà il ritiro dalle scene, poi ritornerà al
solito monicker che da anni è più che mai Michael Shenker Group, per
una sequela di album all’insegna di uno sperimentalismo davvero poco
digeribile.
Per
una volta, lasciamo la parola al produttore. ‘Goodnight
L.A.’ venne prodotto da Keith Olsen e quando Keith venne
intervistato da Andrew McNiece di Melodicrock.com, si parlò anche di
questo disco. Andrew chiese come mai su ‘Goodnight
L.A.’ e ‘Blood from Stone’ dei
Dare il suono della chitarra fosse così poco definito e la risposta fu
questa (la traduzione è mia): “ Si
trattava di progetti a budget molto basso, e con pochissimo tempo per
realizzarli. E, insomma, bisognava correre. Con quei due album in
particolare, ci trovammo nella classica situazione in cui non puoi
perdere tempo in fronzoli, devi tirare dritto su ogni cosa. Io li chiamo
marginal records deals.(...)
Succede quando vuoi venire a registrare in America, e devi viaggiare per
6000 miglia, e le spese sono alte, ci sono i trasporti aerei, tutto
l’equipaggiamento e la roba che devi portarti appresso e succede che
ti resta pochissimo per il disco, andare in studio e cercare di incidere
e concludere tutto in sei settimane. E finisce che tu fai cose che...
non sono particolarmente originali, perché non c’è abbastanza tempo
oppure abbastanza soldi per provare a trovarne di meno ordinarie. Quei
due dischi vennero registrati più o meno nello stesso spazio di tempo:
non ce n’era a sufficienza per farne qualcosa di diverso”. Tutto
ciò rende chiaro perché questo disco suoni in maniera così blanda,
con i Magnum che in più di una circostanza sembrano diventati una
strana mistura di Survivor ed Eddie Money all’acqua di rose. Quello
che non è chiaro, è il motivo che condusse i Magnum a questo marginal
record deal, ad una scelta di campo comprensibile solo in parte.
E’ vero che l’AOR andava forte, ma non in Europa. E la Polydor non
aveva alcuna intenzione di spingere la band sul mercato che contava per
il rock melodico, ossia gli USA ed il Giappone. Tony Clarkin,
all’epoca, dichiarò che registrare in America e lavorare con Keith
Olsen fu una scelta fortissimamente voluta dalla band. Va bene: ma per
ottenere cosa? Finito il disco se ne tornarono subito in Gran Bretagna.
Volevano sfondare in UK con l’AOR? Non ha senso. E aveva ancora meno
senso continuare su questa strada dopo il licenziamento da parte della
Polygram. Eppure, i Magnum, fino al loro scioglimento hanno proposto AOR
di discreta fattura. Basta con il pomp medievaleggiante e via con il con
il rock melodico, almeno fino al recente rientro. Dato poi che nessuno
voleva più filarseli, Tony Clarkin sciolse la band e assieme a Bob
Catley intraprese con gli Hard Rain un discorso ancora più nettamente
AOR. L’unica risposta a tutti questi interrogativi è la più semplice
e – immagino – la più imbarazzante per i vecchi fans: i Magnum
s’erano stufati di fare gli storyteller,
il medioevo gli era venuto a nausea. E allora, via con il rock
melodico... Peccato che l’ingresso ufficiale in questa arena (dopo i
neanche tanto timidi segnali lanciati in questa direzione su ‘Wings
of heaven’) sia avvenuto troppo tardi e maldestramente, con un
disco registrato in fretta e furia che negli USA forse non è stato
neppure distribuito. Non un brutto disco, ma di sicuro un prodotto non
all’altezza della concorrenza yankee e canadese, nonostante il
contributo al songwriting di Russ Ballard e Jim Vallance. Arrangiamenti
troppo lineari: le canzoni cominciano e finiscono senza uno scossone,
non c’è un bridge degno di questo nome, e gli assoli sono sempre
brevi e poco efficaci. La grande voce di Bob Catley tiene a galla tutto,
alcune canzoni spiccano, ma resta comunque una sensazione come di
incompletezza che trova ampia giustificazione nelle parole di Keith
Olsen: si doveva correre, non c’era tempo da perdere, un mese e mezzo
per fare il disco e poi i soldi sarebbero finiti. Tra i momenti più
riusciti, l’iniziale “Rocking chair”,
che si divide tra un basso dal pulsare danzereccio ed un riff
funkeggiante, ricordando le cose migliori di Eddy Money; “Mama”,
che dopo un intro acustico si risolve in un piacevole hard rock dai toni
zeppeliniani e molto anni 70; “What kind of love
is this”, dominata dal synth-bass, un pezzo d’atmosfera ma
robusto e con un bel feeling anthemico; la molto Survivor inspired
“Shoot”; “Heartbroke
and busted”, in bilico tra passato e presente (un presente
molto Bryan Adams) con un refrain fresco e anthemico; la conclusiva “Born
to be king”, solenne ed epica nelle migliori tradizioni della
band, con un arrangiamento movimentato ed un finale veloce e Purpleiano.
Il resto non è da buttare via, ma soffre dei difetti già osservati.
“Only a memory” sono i vecchi Magnum,
pomp e grandiosi, bella la linea melodica, ma la canzone va avanti come
una marcia, cadenzata e regolare, aspetti che succeda qualcosa ma non
succede praticamente niente, “Reckless man”
sembra prelevata dal songbook dei Survivor ma è interpretata in una
chiave seriosa e greve, “Matter of survival”
vira negli spazi aerei del più puro AOR, c’è anche un bell’assolo
di sax ma finisce per sembrare fredda come un ghiacciolo. La drammatica
“No way out” e la power ballad “Cry
for you” completano un disco nient’affatto malvagio ma che ha
il sapore sciapo di un’occasione sprecata.
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