Si
può venire fregati da un videoclip? E’
possibile che la carriera di un musicista venga stroncata solo e
unicamente da un videoclip sbagliato? Certo:
e Billy Squier ne è la prova vivente. Tutto andava a gonfie vele, per
lui, fino al videoclip di “Rock me tonight”. Qualcuno ha eletto quel
breve filmato “peggior video musicale della storia” o qualcosa del
genere. Non l’ho mai visto, e non so se corrisponda a verità la
leggenda della sua ridicolaggine, ma di sicuro l’impressione che fece
sui fans (la neonata MTV – era il 1984 – lo trasmetteva in
continuazione) fu tanto sgradevole da spingere Billy giù giù lungo la
china della popolarità. Fu come una specie di acido ad azione lenta, ma
implacabile. La canzone arrivò al numero 15 della classifica dei
singoli, l’album ‘Signs of life’ da
cui era tratta fu il terzo disco di platino consecutivo per Billy Squier,
un artista così prestigioso e importante che fra il 1983 e l’84 tenne
a battesimo come supporter due band su cui i discografici puntavano per
il grande successo: Ratt e Def Leppard. Avevano chiesto a Billy di
portarseli dietro perché era lui, in quei primi anni 80, a riempire le
arene. Ma quel videoclip cambiò tutto. Due anni dopo appena, ‘Enough
is enough’ (un disco costato un anno di lavoro in studio) arrivò
appena al numero 61 di Billboard (‘Signs of life’
aveva toccato il numero 11) e vendette la miseria di trecentomila copie.
Peggio ancora andarono ‘Hear and now’
nel 1989 (numero 64) e ‘Creatures of habit’
nel 1991, che si fermò al numero 117, mentre nel 1993, ‘Tell
the truth’ non entrò neppure nei top 200. Billy forse scontò
anche la scelta poco avveduta di non andare in tour per promuovere ‘Enough
is enough’, ma in quel periodo, a metà anni 80, bastava poco
per ritrovarsi fuori dal giro buono, e quel poco fu il videoclip di
“Rock me tonight”. Billy
Squier non meritava di finire ai margini. Era un grandissimo artista che
scriveva grandissime canzoni di hard rock melodico. In Europa non è mai
stato promozionato, al punto da risultare quasi uno sconosciuto nel
vecchio continente (con l’ovvia e parziale eccezione della Gran
Bretagna), e la gran massa degli AOR maniacs nostrani di lui sa poco o
nulla: questo anche per la fissazione del pubblico di casa nostra di
andare a caccia di rock melodico nei paesi scandinavi, in UK o in
Germania, anziché rivolgere il proprio interesse al continente
Nordamericano, dove è nato e si è sviluppato quel certo modo di
intendere il rock, così che tanti finiscono per dare un credito fuori
misura a realtà minori come Bonfire, Strangeways o TNT senza aver mai
neppure sentito parlare di un gigante come Billy Squier. La
carriera di Billy comincia addirittura nel 1969, percorre in crescendo
tutti gli anni 70, prima con i Piper poi come solista (ma i Piper erano
niente più che la sua support band). ‘Don’t
say no’ è la prima deflagrazione, numero 5 su Billboard, 102
settimane nella top ten e 4 milioni di copie vendute, e quasi
altrettanto bene faranno ‘Emotions in motion’
e ‘Signs of life’. Dopo due anni, però,
Billy Squier rientra con ‘Enough is enough’
proponendosi al pubblico con una formula leggermente differente da
quella che lo aveva portato al grande successo. La produzione di Peter
Collins (Rush, Queensryche) e la presenza di ben quattro tastieristi (al
titolare Alan St. Jon si affiancano tre assi dei tasti d’avorio: David
Frank, Andy Richards e Jeff Bova) tradiscono la volontà di Billy di
trasporre il suo classico sound in una dimensione più tecnologica e
sofisticata, ma questo avviene senza rinunciare ad un grammo di energia
ed a quel calore che dovrebbe stare sempre alla base di qualunque
produzione hard rock. L’iniziale “Shot o’
love” introduce alla perfezione il nuovo corso, basata com’è
su un riff secco e geometrico su cui vorticano i flash delle tastiere
mentre Billy intona una linea melodica piacevolmente anthemica. “Love
is the hero” parte con un synth bass poi entra una chitarra
lancinante per un AOR con spunti high tech nello stesso tempo fisico e
d’atmosfera. “Lady with a tenor sax”
Billy l’aveva scritta assieme a Freddy Mercury (nel 1982 era andato in
tour assieme ai Queen), un pop rock magistrale, con una certa vena funky,
magari un po’ alla Huey Lewis, ma con un arrangiamento pesante e
sofisticato. “All we have to give” è
caratterizzata da un crescendo strepitoso, dall’atmospheric power ad
un picco corale ed anthemico per concludersi in maniera solenne e
grandiosa, mentre “Come home” è un
hard n’ roll secco e veloce dallo smalto zeppeliniano. “Break
the silence” vola su un riffeggiare quasi elementare ma di
gusto eccelso, un hard melodico di classe incomparabile, il coro così
deliziosamente pop sul ruggito delle chitarre, il bridge high tech…
Anche “Powerhouse” si regge su riff
secchi, graffianti, scolpiti nel granito (qui un po’ più funky) su
cui si stendono melodie anthemiche ma tutt’altro che convenzionali (e
il finale è un lungo assolo di chitarra). Se “Lonely
one” è uno squisito hard AOR, “Til
it’s over” rappresenta l’ennesima testimonianza d’amore
di Billy verso l’hard rock britannico, una stesura elettroacustica che
richiama i Led Zeppelin ed i Rainbow era Dio. In chiusura, il
masterpiece “Wink of an eye”, che
coniuga mirabilmente potenza, atmosfera e fisicità: le chitarre si
intrecciano, schizzano veloci e taglienti, deflagrano come fuochi
artificiali per una cavalcata notturna ed elettrica, ruvida e
carezzevole nello stesso tempo. Come
già scritto sopra, Billy commise l’errore di non supportare questo
disco fenomenale con gli spettacoli dal vivo e questo deve essere stato
un altro motivo per lo scarso successo (scarso in relazione ai risultati
eclatanti ottenuti dai suoi titoli precedenti) di un album che è
probabilmente il migliore della sua discografia. Per complicarsi ancora
di più le cose, Billy lasciò passare tre anni prima di ripresentarsi
al pubblico con un nuovo disco, rimanendo fuori dal giro proprio nel
periodo più bollente per l’hard melodico negli USA. Così, ‘Hear
and now’ dovette confrontarsi con i lavori di act vecchi e
nuovi (Bon Jovy, Whitesnake, Def Leppard, Guns n’ Roses eccetera) che
avevano ormai le spalle molto più solide del suo autore, e nonostante
una promozione di nuovo adeguata, non riuscì a fare meglio di ‘Enough
is enough’, anzi, andò anche peggio, fermandosi su Billboard
tre gradini dietro il predecessore, dal quale si differenziava solo per
una vena più sanguigna e diretta, con le tastiere spinte sullo sfondo
ed arrangiamenti in armonia con quanto andava forte nel mainstream
hard rock in quella fine degli anni ‘80. “Rock
out/Punch somebody” già dice tutto: si apre con l’effetto
live, un riff spaccaossa, puro arena rock, lineare e spettacolare. “Stronger”
è un hard AOR con belle rifiniture di sax, “Don’t
say you love me” viaggia su un bel riff singhiozzante, un filo
di organo Hammond, scanzonata, solare, pigra e serrata nello stesso
tempo. “Don’t let me go” comincia con
un breve dialogo tra una chitarra acustica ed una elettrica che
introducono una splendente power ballad, un po’ folk, con un refrain
arioso. Ancora un grande anthem con “Tied up”:
tinte bluesy, assolo di chitarra slide, sezione fiati che impazza,
ancora l’Hammond… “(I put a) Spell on you”
è un hard rock insinuante, fisico e d’atmosfera, ipnotico e melodico,
“G.O.D.” è anthemica, ritmata,
urgente, con un riff funk devastante. Ancora una power ballad nello
stesso tempo robusta e leggiadra con “Mine
tonight”, poi irrompe “The work song”
che si può descrivere solo come un hard rock swingante, dal riff ai
cori femminili fino alla sezione fiati: immensa. “Your
love is my life” chiude l’album con una power ballad corale,
molto soul nel refrain, con qualche accento beatlesiano ed un finale
strumentale che fa molto anni ’70. La produzione di Godfrey Diamond è
potente e pulita e in due occasioni Billy firma le canzoni assieme a
Desmond Child, con cui aveva già collaborato nel 1980, ai tempi di 'The
tale of the tape'. Dopo
due anni di stop arriva ‘Creatures of habit’,
che la Capitol non dovette considerare una delle proprie priorità, dato
che offrì a Billy una promozione molto limitata per un disco che
oltretutto usciva nell’anno horribilis
del rock melodico, con gli zozzoni di Seattle alla conquista delle
classifiche. Anche stavolta, però, Billy Squier trovò il modo di darsi
la zappa sui piedi, filmando un videoclip (ancora un videoclip, sempre i
videoclip…) per il singolo “She goes down”
(comunque arrivato al numero 4 della US Mainstream Rock Chart di
Billboard) che la bacchettona MTV si rifiutò di trasmettere, pieno
com’era di nudo e doppi sensi a sfondo sessuale. Rispetto
a ‘Hear and now’ non c’erano
cambiamenti di rilievo, salvo per una più accentuata vena melodica ed
un pizzico di tastiere in più. “Young at heart”
apre il disco con un riff secco, un hard ‘n’ roll con preziose
rifiniture di keys ed una bella coda strumentale. “She
goes down” è una grande scheggia di pop rock energizzato
mentre “Lover” è un hard AOR dalla
melodia strabiliante (le strofe, per la verità, sono ricalcate sulla
"Ready for love" dei Bad Company, ma con una tale raffinatezza...). Se “Hollywood” è
ancora un pop rock robusto e divertente, con un certo retrogusto anni
’70, “Conscience point” concilia
nella stessa trama durezza, atmosfera e melodia. “Nerves
on ice” è un sofisticato anthem da stadio, esemplare della
capacità di Billy di coniugare opposti che paiono inconciliabili, come
“Hands of seduction” che pulsa sinuosa,
aggressiva, suadente ed elettrica. “Facts of
life” (con l’ospite Kenny Aaronson alla lap steel) è un hard
melodico dalle belle venature country blues, poi “(LOVE)
Four letter word” si sviluppa in una power ballad gigantesca,
mentre “Strange fire” è secca ed
ispida, alleggerita da un coro diretto ma melodico ed un bridge
d’atmosfera. Chiude “Alone in your dreams”,
hard AOR di gran classe, melodia ariosa tessuta su una trama robusta. Dopo
‘Tell the truth’ Billy lascia la
Capitol, e si rifà vivo solo nel 1998 con ‘Happy
blue’, un disco acustico dalle tinte bluesy, poi praticamente
sparisce dalla circolazione, ricomparendo solo nel 2006, quando si
unisce alla All Starr Band di Ringo Starr per una serie di concerti. I
tre dischi che vi ho presentato sono tutti out
of print, ma si trovano usati su eBay ed Amazon per pochi dollari;
ci sono poi almeno quattro o cinque compilation regolarmente in catalogo
a cui potreste eventualmente attingere se non vi va l’idea di
imbarcarvi in acquisti on line. Se non conoscete Billy Squier e pensate
che la sua musica ricada nei generi di vostro gradimento, fidatevi del
webmaster e fiondatevi sui suoi dischi. La ragione d’essere di questo
sito web non è tanto passare al setaccio band arcinote o cantare le
lodi di classici riconosciuti, quanto segnalare artisti che dalle nostre
parti non hanno mai avuto il credito e la rinomanza che meritavano a
tutti coloro che per motivi anagrafici, distrazione o scarsa
informazione non hanno potuto apprezzare la loro musica. Se c’è
qualcosa che mi ripaga di tutto il lavoro che AORCHIVIA mi dà, è
ricevere mail del genere: “non conoscevo questa band, ho letto la tua
recensione, ho comprato il disco e scoperto della grande musica”. Non
invoco bigliettini di ringraziamento (ma potrebbero anche essere di
bestemmie, tipo: “non conoscevo questa band, ho letto la tua
recensione, ho comprato il disco e l’ho trovato veramente schifoso: ti
sei bevuto il cervello?”), mi auguro solo che questo scritto – come
tanti altri che lo hanno preceduto e, spero, lo seguiranno – porti
all’attenzione di chi ama questo nostro bistrattato e ormai negletto
genere un artista che meritava molta, molta più attenzione di quanta ne
ha effettivamente avuta su questa sponda dell’Atlantico.
One step forward and two steps back, cantavano, tanti anni fa, i Legs Diamond… ‘Come to my kingdom’ rappresenta esattamente questo per James Christian: un passo avanti nella discografia ma due indietro nella qualità rispetto all’ottimo ‘World upside down’. Cos’è successo? Semplice: anche James è stato contagiato dalla Sindrome della Grande Voce. Su ‘Come to my kingdom’ si sente solo lui, la band resta dietro a stendere un tappeto sonoro moderatamente roboante su cui la voce di James disegna melodie, armonie, in solitario, doppiata, moltiplicata all’infinito nei cori. Ogni tanto, James riprende fiato per qualche secondo, concedendo al povero Jimi Bell di infilare un assolo (comunque, mai niente di memorabile o almeno di significativo, beninteso), poi gonfia di nuovo i polmoni e ricomincia a macinare note, sempre ad un volume sostenuto, come a voler smentire qualsiasi dubbio si possa nutrire circa la tenuta delle sue corde vocali. L’effetto generale è tediante. Le canzoni sono costruite dalla e per la sua voce, e nonostante l’impegno che James innegabilmente ci mette finiscono per assomigliarsi tutte (stavolta l’apporto dei songwriters esterni è stato ridotto all’osso), con certe tracks che suonano come la fotocopia l’una dell’altra. Che bisogno c’era, allora, di registrare un disco con la bellezza di tredici canzoni? Perché non tagliare via le repliche e concentrarsi magari solo su otto o nove pezzi? A chi o a che serve, poi, una banalità come “Even love can’t save us”? Saremo pure vecchi nostalgici, ma non siamo (ancora?) sordi né rincoglioniti ed una canzone così è il miglior regalo che si può fare a chi sostiene che l’AOR è un cadavere in avanzato stato di decomposizione. Ogni pezzo parte con un’introduzione d’effetto, qualche bell’accordo pompato di chitarra, una rullata, un’esplosione di tastiere, poi entra la voce di Mr. Christian e la band sparisce, risucchiata qualche chilometro indietro da un mixaggio che spara le parti cantate avanti ricacciando tutto il resto sullo sfondo, sopratutto la batteria, B.J. Zampa già non è esattamente un fulmine di guerra, ma qui la sua presenza ha più o meno la consistenza di un ectoplasma, se gli abbassavano ancora un po’ il volume svaniva del tutto. James ringrazia la moglie Robin Beck per il suo (traduco) “incredibile contributo ai cori”. Il contributo è incredibile, ma in senso letterale, ossia: non si può credere che Robin Beck abbia cantato su questo disco, perché non si riesce praticamente MAI a sentirla, sepolta sotto tonnellate di vocalizzi del marito… Il delirio di onnipotenza di James arriva al punto di registrare una delle canzoni, “Another day from heaven”, in doppia veste, elettrica e solo per piano e voce. E il fatto che la differenza tra le due versioni appaia minima (quasi non t’accorgi che chitarre, basso e batteria non ci sono più…) la dice lunga sull’incisività di un disco che risulta piatto come la sogliola proverbiale, monocromatico, noioso. La cosa migliore risulta alla fine una delle tracks su cui ha messo mano Tommy Denander, “I believe”, dal forte retrogusto MSG (epoca McCauley, naturalmente), e se questo non è un segnale sinistro per la band di James… Perché, come già sottolineai a suo tempo nella recensione di ‘World upside down’, questa è la James Christian Band, non certo gli House Of Lords. Se ‘World…’ era però vario, intelligente, ben arrangiato, e dunque acquistava vita propria senza doverne prendere in prestito ammantandosi di un monicker prestigioso, questo ‘Come to my kingdom’ si arena nelle paludi di un sound che è diventato vecchio ancora prima di crescere, aggrappandosi disperato a quanto nel passato avevano fatto interpreti ispirati che suonavano canzoni messe a disposizione dai migliori songwriters, registrate oltretutto sotto la guida di produttori di prima classe. Non è un brutto disco, ma è peggio di questo: è un disco noioso. E ad un musicista si può perdonare un passo falso, una scelta infelice, non di averci rifilato quasi un’ora di noia.
PREMESSA
Tutto quanto viene dopo gli asterischi è stato (ovviamente) scritto prima che questi dischi venissero (finalmente) ristampati.
* * *
Forse
mi conviene cominciare questo pezzo con una preghiera: non odiatemi. Non
odiatemi voi che non conoscevate questa band e, finito di leggere,
magari vi metterete a caccia dei suoi due dischi e scoprirete che: 1)
sono difficili da trovare come il proverbiale venditore di auto usate
onesto; e 2) hanno una quotazione media che supera i 25 ed i 35 dollari,
rispettivamente per ‘Blvd.’ e ‘Into
the street’. Mi pare che a cercarli su supporti obsoleti
(leggi: LP e cassette), si abbia più fortuna e si spenda meno, e con
questi nuovi giocattoli in circolazione che leggono i vecchi piattoni di
vinile e ne tirano fuori in un niente una filza di mp3 ci si possa fare
un bel pensiero, decidete voi. C’è anche qualche buona probabilità
di trovare il primo disco in un negozio di CD usati, ‘Blvd.’
finì nei forati ed in Europa probabilmente girano più copie di
quest’album di quante ne siano rimaste negli Stati Uniti. Insomma,
come si suol dire: aiutati che Dio t’aiuta: datevi un po’ da fare e
i Boulevard potranno deliziare i vostri padiglioni auricolari come da
anni deliziano i miei. Naturalmente,
si può obiettare: ma vale davvero la pena di sbattersi tanto per
l’ennesima lost gem? Sono
tanto formidabili, questi tizi, da meritare la fatica e la spesa? Per
me, assolutamente sì. I Boulevard sono una di quelle band che possiamo
usare per descrivere nella sua pienezza il senso di quell’acronimo che
ci è tanto caro: Adult Oriented Rock. Non class metal, non hard rock,
non FM Rock, ma proprio AOR. In questo ambito, i Boulevard avevano un
proprio sound, perfettamente bilanciato fra durezza sonora e melodia.
Non erano una pop band sotto mentite spoglie né strizzavano l’occhio
al party rock californiano. Probabilmente lo scarso riscontro ottenuto
dai loro formidabili dischi si spiega con il fatto che arrivarono tardi,
il primo album nel 1988, quando per l’AOR puro e semplice i quartieri
alti delle classifiche si erano ormai allontanati, erano i tempi di Bon
Jovy e Whitesnake e Skid Row, più energia, più watt. Però la band
aveva esordito addirittura nel 1984, con un singolo su etichetta CBS,
“Rainy day in London”, che ebbe un notevole successo in Svizzera,
Austria e Germania. Poi, quattro anni di buio, fino all’esordio sulla
lunga distanza con ‘Blvd.’, che come il
successivo ‘Into the street’ uscì per
la famigerata MCA, la label strozza bands par excellence. Promozione? E che cos’è? Di certo, negli uffici
della Musician Cemetery of America
non lo sapeva nessuno. Inutile chiedersi qual è lo scopo di una
label che pubblica i propri dischi quasi clandestinamente, oppure
distribuendoli con il contagocce. ‘Into the
street’, dalle nostre parti io non l’ho mai visto, forse in
Europa non lo stamparono neppure. Tutto chiaro e limpido come una pozza
di fango. Venivano
dalla terra dell’AOR, i Boulevard, il Canada, e l’unico loro membro
con qualche trascorso era il drummer Jerry Adolphe, già con Prototype e
Chilliwaks, nulla invece era dato sapere su David Forbes (voce), Andrew
Johns (keys), Randy Gould (chitarre), Randy Burgess (basso) e Mark
Holden, sassofonista e principale songwriter della band. Le dieci
canzoni di ‘Blvd.’, prodotte da Pierre
Bazinet e mixate da Mike Fraser e Bob Rock, erano una sequenza quasi
ininterrotta di gemme. “Quasi”, perché “In
the twilight” è una ballad pomposa e soporifera (l’unico
pezzo non scritto dalla band, ne sono autori David Roberts e Mark Baker,
in questa occasione non molto ispirati), mentre “Never
give up” è una pop song con fin troppo marcate sfumature dance
che avrebbero potuto firmare anche i Level 42 o gli Shakatak: bella o
brutta che sia, è comunque completamente fuori luogo. Dimentichiamocene
e passiamo invece a “Dream on”,
impetuoso AOR dove una melodia fascinosa e struggente scandita dalla
bella voce di David Forbes, (calda, acuta, un po’ impastata, in
perfetta opposizione al gran nitore sonoro imbastito per lui dalla band)
si incunea tra flash di tastiere e lampi di chitarre. Ed è proprio la
qualità delle linee melodiche di questa band il suo segno distintivo:
la costante urgenza, il calore, quasi l’ardore che colorano ogni
canzone di una emotività mai banale e scevra da ogni sentimentalismo.
Su “Far from over” la melodia è più
sommessa, pur su una ritmica serrata e sinuosa nello stesso tempo, e
c’è un divino assolo di sax che scivola su un tappeto di tastiere,
mentre “Western skies” vira tra il pomp
e l’atmospheric power, con un assolo che si dividono di nuovo il sax
ed una chitarra distorta. “When the lights go
down” è una batteria tuonante, chitarre che ruggiscono su un
canale mentre sull’altro scandiscono cristallini accordi funky, flash
di keys che preparano la gloria pomp del coro. Le tastiere ricamano la
leggiadra “Under the moonlight”,
tessendo una trama spezzata dai soliti power chords di chitarra, mentre
sulla ballad “You and I” (cantata da
Andrew Johns) sono le chitarre a salire al proscenio, con un bridge
vellutato di fretless bass. “Missing persons”
è ancora chitarre in primo piano, basso in evidenza, un coro polifonico
e pomp ed un bridge di tastiere e chiude “You’re
for me”, scatenato rhythm & blues tecnologico fatto di
organo Hammond, sax e chitarre. Passano
due anni e i Boulevard si rifanno vivi con ‘Into
the street’ (“vivi” per modo di dire, dato che questo
disco, come ho già sottolineato, dalle nostre parti non lo ha visto
praticamente nessuno). La sezione ritmica viene rinnovata con
l’innesto di Tom Christiansen e Randall Stoll, mentre la produzione
passa nelle mani nientemeno che di John Punter (Procol Harum, Nazareth,
Roxy Music, Brian Ferry, John Mellencamp). Qui troviamo il loro primo
singolo, quella “Rainy day in London”
vecchia di sei anni e reincisa per l’occasione assieme ad altre nove
canzoni a cui una produzione di qualità assolutamente strepitosa dona
un fulgore che definire abbagliante è perfino riduttivo. La qualità
audio sfida i Giant di ‘Last of the runaways’,
i Bad English di ‘Backlash’, un mosaico
di timbriche favolose che fa pensare a dei Saga più hardeggianti e
molto meno rarefatti. Il teorema sonoro della band non muta di una
virgola, solo il telaio su cui è tessuto viene arricchito, ispessito e
ornato. “Talk to me” apre le danze con
una tranche esemplare di quel
sound magico, leggiadra e intensa, dura e delicata, opposti che
misteriosamente si sposano tramite un coro polifonico, chitarre che
incidono i riff tra le esplosioni delle tastiere, l’assolo distorto ed
elettrico che sfocia in un bridge vellutato… L’intro d’atmosfera
di “Where is the love” prelude ad una
frase chitarristica emozionante, un crescendo verso un coro semplice ed
intenso, con le ruvide carezze del sax nel bridge. “Lead
me on” si apre su fascinose divagazioni della chitarra sopra un
tessuto notturno ed elettrico, poi irrompe un refrain di straordinaria
suggestione, il verso si ripete come una preghiera, un’invocazione
accorata che risuona tra le immensità di spazi sconfinati: come dei
Giant più melodici e vellutati? “Eye of the
hurricane” è più pop e key-oriented, con un bel ritornello
molto Loverboy, mentre “Light of day”
è un hard AOR high tech che coniuga potenza ed atmosfera come il
miglior Billy Squier epoca ‘Enough is enough’.
“Crazy life” comincia con un drammatico
impasto di tastiere, poi sul pulsare del basso slappato ed il grattare
delle chitarre scivola un’altra melodia favolosa ed un refrain
incantevole. “Rainy day in London” è
una power ballad strepitosa condotta dal pianoforte, con le chitarre che
ricamano trame scabre e lucenti ed il sigillo del sax sul finale. La
band reinventa ancora a modo proprio il rhythm and blues su “Where
are you now”, cromata, dura e ritmata, con i fiati che stendono
un tappeto brillante sul
quale si innalza un refrain da sogno ed un assolo di piano morbido e
scanzonato. Ancora impeccabile AOR con “Need you
tonight”, qui ritorna nell’assolo l’alternanza tra sax e
chitarre sperimentata sul primo album,
i piani sonori si intrecciano e si fondono, tornano a separarsi,
scivolano gli uni sugli altri… “Eye to eye”
riporta impetuosamente in scena i fiati (campionati), le chitarre
ruggiscono, nel ritornello ritmato c’è ancora qualcosa del gusto
melodico di Billy Squier, l’atmosfera suadente è spezzata dai flash
di tastiere e chitarre che si rincorrono fino alla conclusione
fragorosa. L’opportunità
di una ristampa di queste due meraviglie sonore non dovrei neppure
sottolinearla, tanto appare evidente da quanto scritto sopra. Da poco
sono stati riproposti i Refugee di ‘Burning from
the inside out’ (e spero di poterne scrivere presto), e non
posso che augurarmi (e augurare a tutti quelli di voi che questi due
dischi non li hanno mai ascoltati) l’intervento di una label
illuminata che cavi fuori i Boulevard dall’oblio nel quale sono
ingiustamente confinati. |