Non conosco personalmente Gary Hughes, non so nulla della sua vita privata, ma sono pronto a scommettere che nella sua casa c'è una stanza - o forse più di una - con le pareti letteralmente tappezzate di LP e CD che rappresentano una delle più complete discografie dell'AOR dal 1982 ai nostri giorni. Me li immagino organizzati in ordine alfabetico, da Jay Aaron giù fino agli ZZ Top. Mi sembra quasi di vedere Gary passare ore ed ore in quella stanza ad ascoltare musica, a farsi penetrare nelle ossa temi e stilemi del rock adulto dalla sua creazione fino ad oggi. Perché sembra che non ci sia band che lui non abbia ascoltato e da cui, senza il minimo pudore, abbia rubacchiato accordi, riff, melodie. La carriera dei Ten, la sua band, è stata costruita su un mosaico quasi infinito di citazioni, ma ambientate ed incastonate così bene tra loro da riuscire a creare attraverso una fusione quasi magica addirittura un vero e proprio sound. C'è una sfacciataggine paurosa in una proposta musicale di questo genere, e se non ci trovassimo in tempi così calamitosi, con l'AOR ridotto ormai ad una delizia per pochi intimi, Gary non avrebbe mai potuto farla franca, almeno nei confronti della stampa. Meglio così, tutto sommato: almeno possiamo goderci questa musica favolosa senza troppi sensi di colpa... Il disco che prendiamo in esame, uscito nel 1998, è a suo nome, ma considerato che praticamente l'unico songwriter dei Ten è lui, che qui suonano Vinnie Burns e Greg Morgan, che lui l'ha prodotto, mi pare di poter dire che non c'è ragione di discriminare troppo tra i monickers. Piuttosto, bisogna riflettere sul fatto che l'anno seguente, i Ten avrebbero pubblicato 'Spellbound', il loro disco più british ed epicheggiante, dove il class rock era messo un po' da parte a favore di un suono in cui venivano impastati i Magnum, Gary Moore e R.J.Dio. E allora, per sfogare le sue voglie di AOR, Gary Hughes pubblica questo lotto di canzoni come un proprio lavoro solista... e dandogli un suono ed una produzione decisamente migliori di quelle di cui godrà poi 'Spellbound'. Neanche il primo disco dei Ten era stato così fedele all'AOR, qui non ci sono le architetture possenti di chitarra che spostavano verso lidi più hard anche le primissime registrazioni del gruppo. Non che qui si penda verso il pop-rock, per carità, ma manca del tutto quell'ombra metallica che prenderà definitiva consistenza già su 'The name of the rose'. Per chi ascolta AOR da anni quest'album, forse ancora più di quelli dei Ten, può diventare una specie di sfida, una gara con se stessi per riconoscere quante più canzoni saccheggiate dal buon Gary per comporre il mosaico di 'Precious ones'. A titolo d'esempio, in "Give my love a Try" è stato inserito un pezzettino di "Bad reputation", dal primo album dei Damn Yankees, mentre l'iniziale "In your eyes" è quasi un riarrangiamento di "Is this love" degli Whitesnake. E quello che fa grande l'album è, ripeto, la capacità di Gary Hughes di prendere tutte queste briciole ed amalgamarle alla perfezione, così che da tutte queste parti staccate non nasce un mostro di Frankestein ma una statua di proporzioni classiche. Tutti i volti dell'AOR - con una prevalenza per il suono della fine degli anni '80 e dei primi '90 - sono rappresentati come in una compilation ideale, dandone una sintesi di esemplare lucidità. E se l'operazione è moralmente discutibile, il risultato finale è talmente straordinario da assolvere Gary da ogni peccato.
Potrei cominciare questa non tanto breve storia degli ultimi due dischi degli Whitesnake (preferisco far finta che 'Restless heart', di cui potete trovare un'esauriente disanima seguendo il link, non sia mai esistito...) con gli stessi toni usati per gli House of Lords. Ma mentre quella degli HoL è una storia semplice e conchiusa in tre dischi, quella degli Whitesnake è articolata, aggrovigliata e piena di appendici extramusicali. E se oggi nessuno si azzarderebbe a mettere in discussione il valore di puro "classico" di questi album - almeno di '1987' - quando uscirono non vennero risparmiate frecciate ironiche alla nuova identità della band ed al suo troppo violento amore per certe canzoni dei Led Zeppelin. Quand'è che comincia tutto? David Coverdale forma gli Whitesnake nel 1978, per suonare quell'hard rock blues che tanto piaceva agli inglesi e che aveva trovato nei Bad Company probabilmente i suoi più straordinari interpreti. Ma se la band di Paul Rodgers colse subito un successo straordinario in America, al punto che gli USA divennero - anche per la successiva incarnazione della band - il suo mercato numero uno, gli Whitesnake raccolsero oltre atlantico solo un consenso molto tiepido. In Europa le cose filavano alla grande, ma le dimensioni ridotte del nostro mercato non davano grandi soddisfazioni economiche alla band, al punto che Coverdale fu più volte sul punto di scioglierla (si sussurrò di ripetuti approcci di Tony Iommi, che avrebbe tanto voluto David come cantante per i Black Sabbath, ma probabilmente sono solo chiacchiere). Quella della conquista del mercato americano è stata un'ossessione storica di molte band inglesi, Deep Purple e Rainbow in testa. La formula era sempre quella di confezionare qualcosa che potesse soddisfare molto alla buona i gusti degli yankees senza far storcere troppo il naso agli europei, e come tutti i compromessi non aveva molte speranze di far centro. David Coverdale, quando decise una volta per tutte di tentare il grande assalto alle classifiche USA, non cadde in questo tranello. Bisognava scegliere, nettamente e senza ambiguità, e lui lo fece, e la scelta si può tradurre con questo slogan: l'Europa vada a farsi fottere, è l'america che voglio. L'ultima incarnazione della band aveva già perso un pezzo importante come Jon Lord, riunitosi ai Deep Purple. David licenziò i chitarristi che avevano inciso con lui nel 1983 il pur ottimo 'Slide it in', il veterano (e bravissimo) Mick Moody e Mel Galley, ed arruolò l'allora semisconosciuto John Sykes, reduce dai Thin Lizzy, mentre Neil Murray rientrò nel suo ruolo di bassista, lasciato per il solo 'Slide...' a Colin Hodgkinson (licenziato anche lui, of course). Cozy Powell, che pareva dovesse restare, emigrò invece verso altri lidi, e per il posto di batterista venne pescato Aynsley Dumbar, musicista dall'illustre passato (aveva suonato con John Mayall, David Bowie, Lou Reed, Sammy Hagar) che era noto sopratutto per la sua militanza nei Mothers Of Invention e nei Journey dell'era pre-Steve Perry. Con un nuovo contratto discografico per gli Stati Uniti presso la Geffen, David pianificò un primo attacco che si può definire di "assaggio" facendo rimixare 'Slide it in' da Keith Olsen. Gli assoli della coppia Moody/Galley vennero cancellati senza pietà e John Sykes ne incise di nuovi, mentre Neil Murray rifece tutte le parti di basso. Non so dirvi altro di questa versione rimixata di 'Slide it in' perché non ho mai avuto la fortuna di ascoltarla. In Europa è sempre stata distribuita la versione originale su etichetta EMI e le poche copie arrivate da noi della seconda edizione, diciamo così, erano tutte d'import. Le grandi manovre cominciarono con un budget assolutamente regale messo a disposizione dalla Geffen per registrare il nuovo disco. I produttori furono Keith Olsen e Mike Stone, e la band cambiò la bellezza di sette studi, collaborando anche, tra gli altri, con Bob Rock, Mike Frazer e Ron Nevison. E, immediatamente, le cose si misero male. Dapprima David Coverdale ebbe dei problemi alle corde vocali tanto gravi da dover interrompere il lavoro sul disco e sottoporsi ad un intervento chirurgico, e poi ad una lunga riabilitazione e "rieducazione" della voce sotto la guida di un maestro di canto ebreo. La consapevolezza di dover sfornare non un semplice album degli Whitesnake ma un prodotto superiore alla media, di giocarsi con questo disco quella che si poteva ben definire l'occasione della vita, misero in fregola sia David che John Sykes, che presero a reincidere e riarrangiare istericamente le canzoni, al punto che si dovettero più volte riprogrammare al computer tutte le parti di batteria già incise da Aynsley Dumbar per adattarle alla nuova struttura che i pezzi via via prendevano (il buon Aynsley, difatti, aveva già levato le tende), mentre il povero Neil Murray correva su e giù da uno studio all'altro, suonando e risuonando le sue parti di basso in un'atmosfera di puro caos, senza sapere se faceva ancora parte della band, e, anzi, in quel clima sempre più nevrotico ed incerto, neppure sicuro che la band esistesse ancora. Il tormento che avvolse queste incisioni è testimoniato dalla qualità sonora del disco, che fu uno dei primi DDD della storia dell'hard rock, ma ha un suono assolutamente "analogico", a causa probabilmente degli innumerevoli passaggi sotto le testine dei registratori che i nastri dovettero subire e che ne causarono un lieve degrado. Immagino che questo tour de force si sia concluso per puro e semplice esaurimento delle energie dei protagonisti... e dei soldi che la Geffen aveva stanziato per il progetto. David e John Sykes, dopo tanto tempo passato gomito a gomito ad accapigliarsi non si sopportavano più: il chitarrista infine venne licenziato senza troppi complimenti, e Coverdale si ritrovò da solo a reggere le sorti di una band che si trovava davvero ad soffio dal più completo dei disastri. Col senno di poi, si potrebbe dire che questo disco semplicemente non poteva non avere successo, ma la strada dell'hard melodico è lastricata di album straordinari che nessuno s'è mai degnato di comprare; un ruolo certo non indifferente nella scalata trionfale alla top ten di Billboard lo ebbero i videoclip, in particolare quelli di "Here I go again", "Still of the night" e "Is this love", che MTV inserì senza incertezze in heavy rotation. Per i vecchi fan della band era sicuramente uno strano spettacolo quello di David Coverdale con i capelli tinti in biondo platino, ed in tenuta da chic rocker losangelino con spolverini di seta svolazzante luccicanti di lustrini, pantaloni di pelle e stivali da cow-boy. Le ironie sulla nuova identità del cantante e sull'uso spregiudicato della sua consorte dell'epoca, Tawny Kitaen, nei videoclip della band, dove si esibiva in scene ultrasexy che pochi avrebbero il coraggio di far recitare alla propria moglie, furono solo l'inizio di una catena di gossip che paradossalmente contribuì non poco a far volare alto il nome degli Whitesnake nelle cronache musicali americane. Ma la sostanza della loro proposta era indiscutibile e al di là di qualsivoglia critica. La vecchia identità della band non andava del tutto perduta, ma le trame blues venivano amplificate a mille dalla chitarra di John Sykes, e la miglior pietra di paragone sono sicuramente i rifacimenti di "Here I go again" e "Crying in the rain", due canzoni recuperate da 'Saints and sinners': la prima diviene un impetuoso anthem, la seconda - che sull'album del 1982 era impostata su una trama blues con un refrain quasi soul - si trasforma in un viscerale blues metallico con una parte centrale di tastiere spettacolare e tempestosa (a proposito, i tastieristi che collaborano con la band sono tre, e fra loro c'è anche Don Ayrey). Ma il brano che accende le micce è "Still of the night", zeppeliniana fino al midollo con il riff che riprende e riarrangia quello di "Black Dog" ed il cantato in falsetto di David Coverdale più planteggiante che mai, una delle più straordinarie, superbe reinvenzioni in ambito metal del sound del dirigibile mai ascoltate. "Is this love" è una ballad languidamente blues, dove ancora vecchio e nuovo si uniscono con suprema eleganza, trasportando le melodie della Vecchia Albione sulle spiagge della California, una canzone che diventerà un vero e proprio standard, largamente e spudoratamente imitato. Non che tutto, in questo album, sia oro puro. "Children of the night" e "Bad boys" mi sono sempre sembrate assolutamente orrende: tozze e quadrate, rappresentano tentativi chiaramente non riusciti di proporre del puro heavy melodico americano. Molto meglio "Straight for the heart" e sopratutto "Give me all your love", dove ritorna il blues superamplificato. "Looking for love" è una drammatica power ballad con una performance vocale assolutamente maiuscola, "Don't turn away" si realizza in una suggestiva alternanza di atmosfera e fisicità, come "You're gonna break my heart again" (presente al principio solo nella versione europea del disco, come "Looking for love"). David ricostruì in fretta e furia la band, reclutando come chitarristi Vivian Campbell, stufo dell'heavy metal essenziale e fin troppo conservatore in cui era ormai scivolato R.J.Dio, e Adrian Vandemberg, un olandese che s'era fatto conoscere con una band a proprio nome che suonava hard melodico. Alla batteria arrivò Tommy Aldrige, al basso l'ex Quiet Riot Rudy Sarzo. E mentre la band cominciava i suoi fortunatissimi tour, ed i videoclip impazzavano su MTV, le voci, i pettegolezzi ed i commenti acidi si scatenavano. Ce n'era per tutti i gusti: da Robert Plant che affermava di non aver mai conosciuto Coverdale quando lui sosteneva il contrario (e arrivò anche a dargli del bastardo... ma le cadute di stile di Percy, in quel periodo, non si contavano), a John Sykes che raccontava di essere stato licenziato solo perché David voleva intascare tutti i profitti di '1987' e quando venne a cercarlo a Los Angeles e riuscì ad intercettarlo davanti ad un locale notturno, il cantante andò a chiudersi in macchina per sfuggirgli... E poi la stampa che malignava sulle sfacciate somiglianze tra "Still of the night" ed una certa canzone dei Led Zeppelin e cominciava a usare l'espressione Led Clones, e i capelli biondi di David, e le curve di Tawny Kitaen, e certe scene del videoclip di "Still of the night" che facevano pensare un po' troppo ad uno stupro... Ma in mezzo a tutto questo, '1987' inanellava dischi d'oro uno dietro l'altro salendo fino al numero 2 della classifica di Billboard, e la missione impossibile di conquistare gli USA era compiuta al di là di ogni legittima speranza e aspettativa. E dopo due anni passati a raccogliere allori, bisognava pensare a consolidare quella conquista, ossia: dare a quello storico album un degno successore. Vivian Campbell se l'era squagliata con i lauti assegni dei concerti in tasca, e David cominciò a guardarsi attorno alla ricerca di un valido rimpiazzo. Si mormora che già a quest'epoca risalgano i primi contatti con Jimmy Page ma, alla fine, Coverdale riuscì comunque a mettere a segno un colpo gobbo, dato che il nuovo acquisto si chiamava Steve Vai, che non ne poteva più delle stravaganze dell'istrione David Lee Roth e desiderava battere sentieri più commerciali e meno estrosi di quelli percorsi assieme all'ex Van Halen. Poco prima di entrare in studio assieme ad un'altra coppia straordinaria di produttori - Mike Clink e il solito Keith Olsen - Adrian Vandemberg si fece male ad una mano, cosa che gli impedì di partecipare alle registrazioni del nuovo disco... non proprio una sfortuna, dato che questo lasciava libero Steve Vai di incidere tutte le parti di chitarra e di riarrangiare a modo suo le canzoni che David aveva scritto assieme al chitarrista olandese, un elemento tutt'altro che indispensabile nell'economia della band e che nei dischi successivi avrebbe dimostrato un'insipienza addirittura sconcertante. 'Slip of the tongue' è un album poco considerato nella discografia della band, forse perché qui Coverdale liquidava del tutto il blues e l'eredità del hard britannico per tuffarsi a capofitto in una nuova dimensione fatta di US Metal e hard zeppeliniano. É il solito problema del monicker, che sembra costringere ad ascoltare i dischi non per quello che sono ma per quello che dovrebbero rappresentare. E se già '1987' aveva sconvolto la vecchia equazione: Whitesnake = solido hard blues inglese, 'Slip...' la cancellò del tutto, sostituendovi una miscela di class metal e riff a là Page sapientemente fusi alle alchimie sonore di quel genio della chitarra elettrica che è Steve Vai. Per il sottoscritto, questo è un album semplicemente straordinario, su cui pesarono non poco gli strali di critici prevenuti che attendevano al varco Coverdale per sbranarlo: il gossip può essere utile, ma, alla lunga, si paga. Ciò non impedì comunque al disco di vendere a camionate ( numero 10 su Billboard) e di dare alla band il passaporto per il Monsters of Rock del 1990 - e chi assistette alla data italiana, dove gli Whitesnake erano headliners, difficilmente se la potrà mai scordare. Led Clones era l'accusa rivolta alla band per '1987', dove di zeppeliniano c'era solo "Still of the night", e David dovette pensare che tanto valeva andare fino in fondo. Perché non solo la title track, che apre il disco con un clima spettacolare e anthemico, ma anche "Wings of the storm", "Judgment day", "Slow poke music" e "Sailing ships" hanno quel flavour inconfondibile mutuato dalla più grande band della storia del rock, ma mediato attraverso il filtro del melodic rock americano e modulato dalle invenzioni chitarristiche di un Vai tanto concreto quanto fantasioso e imprevedibile, ben lontano dalle esercitazioni tecniche di 'Passion and warfare' e dall'eccentricità che aveva messo al servizio di David Lee Roth (ma una versione di "Damn good" cantata da David Coverdale me la sogno anche di notte...). Il cantato di David si fa spesso drammatico, roboante, alternandolo a quel falsetto planteggiante inaugurato su 'Slide it in': su "Wings of the storm" e "Judgment day" - le più Kashmir-inspired - tocca vertici irraggiungibili, ma è "Sailing ships" il top assoluto, con quella prima parte tutta chitarra acustica e sitar e poi l'esplosione al limite del pomp metal, il crescendo e l'acuto finale del cantante sottolineato dagli ultimi fuochi d'artificio della chitarra di Steve Vai: una canzone ineguagliata e forse ineguagliabile. La band non rinnega comunque la propria identità sfacciatamente sexy e festaiola. "Cheap and nasty" e "Kittens got claws" sono scatenate party songs nobilitate dalle invenzioni del solito Vai, "Slow poke music" è un altro agile anthem zeppeliniano. "Now your gone" è un bell'hard melodico con un coro a due voci dove l'ospite d'eccezione è Glenn Hughes, mentre "The deeper the love" replica con meno efficacia la formula AOR di "Is this love". Anche su quest'album David si toglie lo sfizio di coverizzarsi, e tocca stavolta a "Fool for your loving" - recuperata da 'Ready and willing', l'album del 1980 che consacrò definitivamente la band sul suolo europeo - di venir lucidata, cromata ed elettrificata dalla chitarra di Steve Vai. Purtroppo il sodalizio con questo genio della chitarra si sciolse alla fine del tour, e in mezzo ai primi vagiti del grunge, David Coverdale riuscì a mettere a segno l'ultimo grande colpo, arruolare alla propria causa nientemeno che il timoniere del dirigibile in persona, sua maestà Jimmy Page. Troppo importante il personaggio per nasconderlo dietro il monicker degli Whitesnake, e così il frutto di questa collaborazione uscirà semplicemente a nome 'Coverdale/Page' nel 1993, e per saperne di più potete seguire il link. Di quello che è venuto dopo questi due dischi invece ho già parlato, e qui mi limito a confermare quanto scritto altrove: 'Restless heart' era davvero un brutto modo di salutare tutti i fans e cominciare una carriera solista che pare non stia dando al Nostro grandi soddisfazioni. Spero che David si dimostri uomo di parola e non soccomba alla tentazione di riesumare il glorioso sigillo del serpens albus per dar credito ad un'altra scialba raccolta di songs stile 'Restless heart'. Nulla comunque potrebbe mai offuscare i monumenti che la band ha innalzato, prima e dopo la sua conversione americana. Se dei pettegolezzi e delle chiacchiere da backstage si ricordano solo i più vecchi, come il sottoscritto, quello che resta è la musica, e quella degli Whitesnake sfiderà il tempo e le mode.
Dov’è
che comincia e dov’è che finisce tutto? Se parliamo di musica
popolare americana, e magari di quella sua tutt’altro che
insignificante tranche denominata hard rock, la risposta è facile: il
blues. L’hard rock è figlio del blues, e con questa figura paterna ha
fatto a pugni e amoreggiato fin da quel fatidico anno 1969 in cui i Led
Zeppelin dimostrarono che la musica
del diavolo era l’unica possibile via di fuga dalle secche in cui
il rock degli anni ’60 aveva finito per impantanarsi. In
questa quarantina d’anni, il blues è stato accarezzato, palpeggiato,
preso a calci, sbranato e infine dichiarato morto e poi inumato e
riesumato nello stesso tempo in quelle irriverenti e beffarde veglie
funebri che sono stati i dischi della Jon Spencer Blues Explosion. Ma il
blues non è un “genere” , un pugno di riff e accordi, una semplice forma,
delimitabile e netta, attorno a cui si possa facilmente costruire uno
steccato. E’ uno stato,
un’emozione, uno spirito. Non cavalca i tempi, li travalica. E ogni
tanto, scende ad incarnarsi in qualche entità più o meno grande, più
o meno nota: Led Zeppelin, Bad Company, Whitesnake, Great White,
Kingdome Come, Cinderella... E, naturalmente, Ghost Town Radio. Lance
Bryce (voce e chitarra), Paul Craven (basso e keys), Jack McMahon
(batteria) sono stati, almeno per un album ed un EP, la voce di quello
spirito. Il
passato dei tre non era particolarmente luminoso né movimentato. Bryce
veniva dai Gravity’s Rainbow, nome minore della scena street metal
losangelena, ma aveva lavorato sopratutto come turnista e produttore di
colonne sonore di B-movies (per sua candida ammissione, anche porno).
Craven e McMahon pare non avessero addirittura mai avuto una band prima
dei GTR, limitandosi a lavorare come session men nel giro blues di
Chicago. Dopo
l’infelice chiusura dell’esperienza Gravity’s Rainbow, Bryce era
tornato al lavoro di studio, ma continuava a scrivere canzoni,
registrando qualcosa nei ritagli di tempo che le varie session gli
lasciavano. Nacque così un demo di cinque tracce che finì (forse per
caso) nelle mani della White Oil, label indipendente ma con
distribuzione Wea. Lance firmò con loro senza avere né una band né un
vero monicker, ma sopratutto senza covare alcuna velleità di successo
commerciale. Nel 1993 l’hard rock più classico era out,
e sperare in una scalata alla top 20 di Billboard con del materiale
rigorosamente lontano dagli stilemi grunge era - apparentemente - roba
da ricovero immediato in un manicomio criminale. Tutto quello che Lance
Bryce voleva era incidere la sua musica, stavolta solo sua, ed in
completa autonomia dopo i compromessi che aveva dovuto subire
nell’ultima fatica dei Gravity’s Rainbow. La scelta di Craven e
McMahon fu “ovvia”, dato che i tre erano amici di vecchia data e la
White Oil stanziò un budget che permise un mese appena di registrazioni
ai Can-Am di Tarzana (l’orrido sobborgo industriale di Los Angeles,
che prende il nome dal suo più illustre concittadino, Edgar Rice
Burroughs, il creatore di Tarzan, appunto). Il moniker prescelto
inizialmente fu Quicksand, ma dovette essere cambiato al volo - era già
appannaggio di una nota band industriale - nel tutto sommato molto più
suggestivo Ghost Town Radio. Per
strano che possa sembrare (ma forse non
tanto, se consideriamo i trascorsi ed i futuri lavori di Bryce) i
paragoni e le somiglianze più calzanti che vengono in mente per
l’opera prima riguardano le colonne sonore di due film:
“Desperado” (quello di Robert Rodriguez con Antonio Banderas) ed il
poco noto “Badlands”, di Sam Pillsbury con Bruce Dern. Ma potremmo
citare anche il Jimmy Page di ‘Outrider’,
il Neil Shon di ‘Piranha blues’, alcuni
episodi sparsi delle varie ‘L.A. Blues Authority’.
Somiglianze. C’è in questo primo album autointitolato una vena sanguigna,
bollente, pulsante, e sopratutto nera
che rappresenta un fatto nuovo nella lunga storia di amore/odio tra hard
rock e blues (e non venitemi a parlare di Danzig, per piacere...). E’
un voodoo blues che non rinuncia alla raffinatezza e – perché no?
– ad una sua spettacolarità, sopratutto nelle timbriche delle
chitarre, mai rauche, ma sempre ricche, spesse, taglienti, scintillanti.
Ma è – sempre – notturno, suadente, cupo, amaro, velato di cinismo
e di una malinconia arida e scabra come una pietra che affiora tra le
dune di un deserto. La triade che apre l’album, formata da “One
way ticket to misery”, “The river”
e “Nothing left for loosing” non lascia
spazio ad equivoci: il gioco è duro ed i duri stanno giocando alla
grande... Se Bryce avesse una voce più profonda e cavernosa, potremmo
addirittura parlare dei Ghost Town Radio come di una versione melodic
rock di Tom Waits (!!), ma il punto di riferimento di Lance è piuttosto
David Coverdale o, ancora meglio, Paul Sabu, una voce irruente,
profonda, vibrante, maschia. E le chitarre che si sovrappongono, si
intrecciano, danzano o fanno a pugni, acustiche, elettriche, lap steel,
una sinfonia di corde d’acciaio nella notte desolata di un deserto...
sì, è davvero la radio di una città fantasma quella su cui andiamo a sintonizzarci
ogni volta che premiamo il tasto play.
“Mother” non è una ballad, ma un
appello, una preghiera rivolta a qualcosa che sappiamo in anticipo non
ci risponderà mai e poi mai. “Love” è
una sorprendente cover dei Cult, quel riff inconfondibilmente
zeppeliniano amplificato fino all’inverosimile, avvolto in un
riverbero strascicato e sporco, calore e polvere, sabbia rossa sospesa
nell’aria afosa di un tramonto cremisi...
“Sand and dust” comincia e
finisce con il suono del vento che passa indifferente lungo strade
polverose e desolate, l’hammond ed il moog tingono d’oro un cielo
torrido, la chitarra tesse morbide ragnatele fra le finestre vuote che
fissano il nulla come occhi ciechi... “Ghost
town radio” è solo strumentale, nessuna sovrincisione o quasi,
nulla più che un lungo, lancinante assolo di chitarra elettrica, come
una tempesta che si avvicina, tuoni che rimbombano e fulmini che
impazzano, sempre più vicina, più vicina... “In
comes the lady” ha un tempo spezzato e tanta suggestione nei
versi, come la “Pray for rain” dei Bad English, ecco che entra la
signora, ricomincia il mio tormento... “Under
the red sky” è l’urlo finale, liberatorio, straziante, i
muri di chitarre che crollano l’uno sull’altro, il lento rotolare
del basso (quasi giureresti che qui, al quattro corde, c’è il vecchio
sacerdote nero Geezer Butler) e poi, quando credi che tutto sia finito,
di essere fuggito dalla città fantasma, quel riff che ritorna, lontano,
irridente, ineluttabile... Chi
dice che gli americani sono tutti fessi? Che non sanno riconoscere la
buona musica neppure se gliela spari nelle orecchie con delle Sennheiser
da cinquecento dollari ad auricolare? 'Ghost Town
Radio' arrivò fino al numero 56 di Billboard, con un attivo di
quasi duecentomila copie. E il tutto praticamente senza promozione al di
fuori dei passaggi alla radio e di un videoclip per “The
river” che MTV trasmise forse un paio di volte e sempre alle
due del mattino. Naturalmente, non ci fu la minima attività live, perché
i ragazzi non avevano tempo da perdere con quel genere di cazzate. Bryce
aveva le sue colonne sonore e le produzioni di cui occuparsi, Craven e
McMahon il lavoro di turnisti. Mollare tutto per imbarcarsi in un club
tour oppure fare da apripista per qualcuno nelle arene sarebbe stata
pura follia e difatti di concerti dei Ghost Town Radio non s’è mai
sentito parlare. Lance Bryce era
troppo vecchio e scafato perché il moderato successo dell’album
potesse dargli alla testa e provocare in lui rigurgiti di smanie da
rockstar. Quando nel ’96 uscì “The Sandman EP”, qualcuno
ne parlò come della solita mossa interlocutoria di una band che non
voleva perdere contatto con il suo pubblico in attesa del prossimo album
completo. Come se i Ghost Town Radio fossero una qualsiasi band da MTV...
In realtà, la scelta di pubblicare un Extended
Play era motivata esclusivamente dal fatto che Bryce aveva solo
quattro canzoni da incidere. Punto. Aveva scritto altri tre pezzi e
c’era una cover che voleva fare. Cos’altro? La
cover era, naturalmente, “Enter Sandman”.
Il più importante episodio dell’heavy metal degli anni ’90 viene
trasformato dalla band in un suggestivo, suadente
heavy blues, l’intuizione del riff scandito dalla dodici corde
elettrica è addirittura geniale, il tempo rallentato... (mi immagino
sempre James Hatfield che, dopo averla ascoltata, si dice: “Perché
non ci avevo pensato io?). “Sand
and dust – Part II” è uno strumentale che comincia là dove
“Sand and Dust” finiva, cespugli
spinosi che rotolano tra i vicoli nudi spinti da quel vento incessante,
polvere, polvere, un’attesa che è destinata a non finire mai. “Boneyard”
è la cosa più classicamente vicina al blues che i GTR abbiano mai
fatto – ricorda tanto il “Prison blues” di Jimmy Page – ma più
che un omaggio alla tradizione è una prova di pura forza, una
dimostrazione di feeling esecutivo: la tensione inarrivabile del più
fondamentale dei tempi, quello mid,
il battito ritmico come il palpitare di un cuore stanco, la chitarra che
arranca e sbanda e deborda (una timbrica assolutamente stu-pen-da, che
sembra emessa da una di quelle Gibson rosso ciliegia che si teneva al
collo B.B.King, ma collegata ad un Marshall con le valvole al calor
bianco e completamente fuse...),
la voce di Lance che si fa rauca, sofferente, mentre canta la storia
delle visite nel cimitero in cui hanno seppellito la sua donna (e dalla
tensione nella sua voce, giureresti, dannazione, che sia tutto vero). Chiude “Down the dead end track”,
sette minuti di intrecci avvolgenti di chitarra e tastiere (qui per la
prima ed ultima volta fanno irruzione i fiati, ottoni squillanti come
quelli dell’orchestra di uno showboat del Mississippi), puro
delta-blues, ironico e scanzonato. E
poi? E
poi, basta. The End. Lo
spirito era volato via, da qualche altra parte. Il
sipario era calato, in modo netto, su quella realtà così fuori dal
tempo, così maledettamente, assurdamente pura.
Cos’avrebbe potuto esserci in un altro album? Solo gli dèi del blues
lo sanno, e non lo hanno mai detto a nessuno. Lance
Bryce continua nella sua attività di produttore di colonne sonore
(sempre di B-movies, of course),
McMahon e Craven immagino bazzichino ancora gli studi della windy city. Proprio come se non fosse mai successo niente, cazzo... Eppure,
chissà... Mi immagino Lance che una sera impugna la sua Les Paul e
guarda fuori, verso quei deserti e quelle desolazioni che solo i suoi
occhi sanno vedere. Accende
il Marshall, alza il volume, le dita stringono il plettro. Vola una
nota... E’
la radio della città fantasma... chi può dire quando riprenderà a
trasmettere? Post
scriptum Naturalmente, sarebbe meraviglioso se una band del genere esistesse davvero... Peccato che questo sia solo il mio modesto contributo al primo aprile...
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