Quella dei Cinderella, in un certo senso, è una storia strana. Il loro maggior successo a livello di vendite (arrivò al numero 3 sulla classifica di Billboard) resta ‘Night songs’, il primo album di cui nessuno sembra però mai ricordarsi quando si fa il nome di questa band. I Cinderella sono sempre, in qualche modo, la band di ‘Long cold winter’: la storia comincia e finisce – prematuramente – lì. ‘Heartbreak station’ viene citato più che altro come esempio di disco bello che commercialmente ha fatto fiasco: troppo blues, troppo acustico, troppo root per piacere al pubblico hard rock/metal, che restava sempre il primo target della band. Teoria affascinante, ma che mostra le sue crepe se pensiamo che poco tempo dopo il presunto flop di ‘Heartbreak...’ (i dati sulle vendite dei dischi a volte sono più inaccessibili degli Archivi Vaticani, e del terzo album dei Cinderella non sono riuscito a scoprire in nessun modo il numero esatto di copie vendute, solo che su Billboard si fermò al numero 19, mentre ‘Long cold winter’ aveva toccato il numero 10) salirà alla ribalta con il suo primo disco una band di nome Black Crowes... Che Tom Keifer avesse un chiodo fisso e che quel chiodo si chiamasse “Aerosmith” l’avevamo capito subito tutti, incluso Jon Bon Jovy che scoprì lui e la sua band ancora in embrione in un locale di Philadelphia. Anche se ‘Night songs’, classe 1986, era un disco concepito e suonato pensando a tutto quello che di buono avevano fatto fino a quel momento i Ratt, il blues era in agguato: chiuso in un angolo, legato e imbavagliato, un ospite scomodo che ogni tanto lanciava un ringhio di protesta e smaniava di liberarsi e dire la sua. Forse fu il successo rinnovato degli Aerosmith, i milioni di copie vendute di ‘Permanent Vacation’ a spingere Tom e compagnia a rompere gli indugi, prendere il coltello e tagliare corde e bavaglio, lasciando libera la tigre. Oddio... “libera”, sì, ma solo fino ad un certo punto, senza mai perdere la presa ferrea sul corto guinzaglio che ne limitava comunque le mosse, un guinzaglio che avrebbero sciolto una volta per tutte solo con ‘Heartbreak station’. Per ora, bastava che fosse hard rock blues. E un hard rock anche abbastanza levigato e melodico, dal suono lussuoso, accuratamente calibrato per l’airplay. Registrazione lunghissima e snervante. Il nuovo drummer Fred Coury non andava d’accordo con Andy Jones: dopo qualche battibecco con il produttore venne estromesso dagli studi e le parti di batteria del disco vennero suonate da Cozy Powell e Danny Carmassi. Alla fine di un mese di tentativi infruttuosi, Andy Jones rinunciò a mixare il disco: dopo mesi e mesi passati ad arrangiare e registrare non aveva più la lucidità necessaria per svolgere quel delicatissimo compito, di cui si fecero carico Steve Thompson e Michael Barbiero. Tutta questa mole enorme di lavoro si “sente” nitidamente in un album dove veramente nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione. E il blues ruggisce, sì, graffia, certo, ma senza assordare e sfregiare davvero. C’è ancora troppa voglia di arena rock che cova nella band e tutto il disco è un viaggio su un filo sottile, sottilissimo, una bava di ragno che separa il feeling genuino e la rappresentazione edulcorata. I Cinderella riescono miracolosamente a rimanere in equilibrio per quasi tutto l’album, ma almeno una volta cadono e il filo si spezza, e succede proprio sulla title track, “Long cold winter”, che vorrebbe disperatamente essere un classico blues sulla scia dei primi Led Zeppelin (tanto per dirla tutta, è una rilettura fin troppo smaccata di "Since I've been loving you"): e non è tanto l’ovvia circostanza che Tom Keifer non sia Jimmy Page a decretarne il fallimento, quanto il fatto che questo genere di prova va obbligatoriamente affrontata basandosi sul feeling. Forse Andy Jones avrebbe dovuto ricordare ai ragazzi che quando lavorava con gli Zep, lasciava che Jimmy Page facesse i suoi assoli d’un fiato, provando e riprovando, certo, ma senza curare tutto in maniera maniacale, nota per nota: e poteva anche scapparci un errore o una stonatura, ma questo non ha impedito a Jimmy ed alla sua band di fare la storia del rock. Il blues non si fa con il bisturi e la lente d’ingrandimento: è una cosa che senti, ad occhi chiusi. Non ricordo chi ha scritto che durante l’assolo di “Stairway to heaven”, Jimmy Page stava certamente parlando con Dio. Be’: durante l’assolo di “Long cold winter”, Tom Keifer (sempre che quell’assolo sia suo, e non di Jeff LaBar) pare stia facendo due chiacchiere con un frigorifero: qualcosa che sa di freddo e di plastica. La sua voce stridula, isterica, prova in tutti i modi a dare vita alla canzone, ma è come cercare di fare il massaggio cardiaco ad un manichino: manca la materia base su cui lavorare: un cuore in grado di battere. L’effetto globale non è di fastidio, ma solo di noia. Alla fine dei suoi cinque minuti e ventidue secondi, “Long cold winter” si lascia dietro solo sbadigli. Non c’è neppure il senso di un’occasione mancata o sprecata, solo un vuoto risonante di echi che si spengono nel nulla. E non è cattiveria dire che la band non era all’altezza per affrontare una materia di questo tipo. Almeno, non lo era ancora. A parte questo fiasco, il disco, dicevo, segue una sua strada di compromesso, ed è un compromesso che funziona. Forse un pizzico di energia in più, un suono meno cristallino avrebbe giovato complessivamente all’atmosfera, ma è anche nel contrasto tra la voce di Tom, stridente come una scheggia di vetro che sfrega un pezzo di metallo arrugginito, e le timbriche ricche e pulite degli strumenti che l’album trae il suo fascino. “Fallin’ apart at the seams”, “Gipsy road”, “The last mile”, “Take me back” sono il punto di incontro ideale tra l’hard blues più raw e l’hard melodico da Top Ten, “Don’t know what you got (till it’s gone)” e “Coming home” due power ballad ispiratissime in cui spicca il piano suonato dal key player Rick Criniti, “Second wind” un riuscito innesto Aero/Zep. Ancora gli Aerosmith vengono chiamati in causa su “If you don’t like it”, mentre l’unico ricordo del suono ratteggiante di ‘Night songs’ è affidato alla dinamica “Fire and ice”. Con ‘Heartbreak
station’ i Cinderella decisero di lasciarsi del tutto dietro le
spalle il loro passato di macinatori di pop metal da classifica, ruppero
le dighe, buttarono giù le staccionate, e non si limitarono a
sciogliere la tigre ma la presero a frustate per farla ruggire più
forte possibile. Dato l’addio ad Andy Jones, che con Fred Coury
proprio non riusciva a convivere, venne ingaggiato John Jansen, già
produttore di Faster Pussycat e Bang Tango, per confezionare un album
che con il suo predecessore aveva così poco in comune da sembrare in
certi momenti il parto di un’altra band. Prima, tutto era ferocemente
controllato, messo a punto fino al limite del nevrotico, lucidato in
maniera quasi maniacale, adesso i Cinderella - pur non rinunciando a
timbriche sontuose, ad una produzione che gli assicura un suono a
ventiquattro carati - si lasciano andare, avventurandosi lungo tante
strade diverse, impastando e amalgamando a volontà tempi e stili, la
ricerca esasperata della perfezione radiofonica è dimenticata, la band
in certi momenti pare esplodere,
una vibrazione gioiosa sembra percorrere tutto l’album, Tom Keifer
spesso e volentieri rinuncia al falsetto stridulo ed abrasivo a cui
c’aveva abituati per cantare (benissimo!) nella propria tonalità
naturale, quasi che ogni artefatto, ogni pretesa, ogni maschera fosse
(finalmente?) caduta, e il volto più vero e autentico della band
potesse finalmente essere mostrato senza timore. Nella track
d’apertura, “The more things change”,
Tom può anche cantare: “The more things change / the more they
stay the same...”, ma qui anche un sordo sentirebbe che non è
cambiato solo qualcosa, è cambiato tutto: un’orgia di slide guitar,
fiati che impazzano nel coro, una track scanzonata e strascicata,
imbevuta di folk e blues, da urlo.
Con “Love got me doin’ time”
ci vanno giù ancora più pesante, perché la chitarra wah wah introduce
un nerissimo funky aerosmithiano punteggiato dai fiati, qualcosa che a
tratti sembra schizzata fuori dalla colonna sonora di “Shaft il
detective”! “Shelter me” è un
country-soul-blues che parte acustico, poi entrano le chitarre
elettriche, gli ottoni, i cori femminili, l’assolo se lo dividono
la chitarra ed il sax, "Heartbreak
station" è una stupenda ballad tutta acustiche, piano ed
archi, il rock blues torna in “Sick for the cure”,
polveroso e brado, un boogie ispido, ancora cori soul, piano honky-tonk,
percussioni... “One for rock and roll”
è un country blues da lasciare a bocca aperta, “Dead
man’s road” è il capolavoro, un voodoo
blues dall’intensità lancinante, inquietante e sereno, luminoso e
oscuro, come una palude infestata di fuochi fatui sotto la luce
d’argento della luna piena, i tempi di “Long
cold winter” sembrano lontani un milione di anni... “Make
your own way” è ancora boogie, con l’Hammond in grande
evidenza, la cosa più vicina all’album precedente, ma “Electric
love” ci riporta agli anni ’70, un hard blues ipnotico e
avvolgente che parla la lingua dei Bad Company, degli Aerosmith e del miglior Joe Perry
Project, replicato subito con “Love gone bad”
su un registro più dinamico e melodico, ma con un finale cupo e
notturno, tutto pare svanire nel pulsare irrequieto dell’insegna al
neon di un bar immerso in una penombra fumosa... “Winds
of change” chiude l’album, una ballad solare, tutta acustiche
e tastiere, melodia sublime, un crescendo da lasciarci il cuore. Siano stati il grunge o i problemi personali e di salute di Tom Keifer a spezzare le gambe a questa band, è difficile dirlo. L’ultimo album, ‘Still climbing’ (1994), era un lavoro interessante, che cercava di recuperare il suono e l’ispirazione di ‘Long cold winter’ ma in una luce più blues: una specie di passo indietro motivato solo dagli scarsi responsi ottenuti (pare) dal disco precedente. Una resa ad una dimensione che in fondo non si è mai riusciti a capire quanto stretta andasse alla band. Chi erano i Cinderella “veri”, insomma? Quelli di ‘Long cold winter’ o di ‘Heartbreak station’? La mia impressione è che neppure Tom Keifer sia mai riuscito a scoprirlo: la chiave per decifrare questa band – più enigmatica di quanto le semplici apparenze dicano – forse sta tutta qui.
I Dokken, più che sciolti, si erano divisi in due tronconi: da una parte Don e Jeff Pilson, con un disco di hard melodico attribuito al solo cantante, dall'altra George Lynch e Mick Brown. Nel '90 di guitar heroes avevano già tutti le palle piene, e Lynch saggiamente non cede alla tentazione di avviare un progetto musicale basato sulle sue pur legittime smanie solistiche, ma imposta una vera e propria band, chiamando il bassista Anthony Esposito ed il cantante Oni Logan, già opzionato da Mark Ferrari per i suoi Cold Sweat. Siamo nell'epoca della riscoperta dell'hard blues, Aerosmith e Great White fanno sfracelli nelle charts americane, i Guns'n'Roses sono finalmente riusciti ad imporre in tutto il mondo il loro verbo Street e George Lynch imposta le coordinate delle sue composizioni al crocevia di queste tendenze, pur senza rinnegare le aperture metal/melodiche della sua passata esperienza. I suoni cromati lasciano il posto ad un graffiante collage tutto impostato sulle medie frequenze, elegantemente sporco, in cui si fonde la voce viziosa (Phil Lewis docet) di un Oni Logan espressivo ma poco dotato in quanto a volume, che costringe il produttore Max Norman a spingere i suoi vocalizzi sullo sfondo dell'affresco sonoro, con un effetto convincente ma improbabile da riprodurre dal vivo. La chitarra di George Lynch non si scatena in assoli torrenziali - non c'è neppure un pezzo strumentale - ma rimane perfettamente incollata alle canzoni, ruggendo o accarezzando a seconda delle circostanze. La title track è un class metal spezzato da un bel bridge pacato e funkeggiante, aggressiva, piena di reminiscenze Dokkeniane ma definitivamente inserita nel nuovo corso sonoro. Con "River Of Love" entriamo di prepotenza nella nuova dimensione street/blues - bellissimo il break scandito dall'armonica - mentre è ancora dalla mediazione tra vecchio e nuovo che nascono le successive "Sweet Sister Mercy" e "All I Want", quest'ultima con un assolo da brividi. Se "Hell Child" è heavy blues torrido e diabolico, "She's Evil But She's Mine" richiama addirittura i Cult di 'Sonic Temple' per il suo clima avvolgente e sinuoso ed uno spruzzo di tastiere fra le montagne di chitarre sovrincise dal ricco suono orientaleggiante. A seguire (primo pezzo del lato 2 per chi ha il vinile), c'è l'omaggio Zeppeliniano, "Dance Of Dogs", con quel riffone fotocopiato da "The wanton song" e Logan che accenna appena a planteggiare (ma con quella voce, più che accenare non può...). "Rain" è una ballad bluseggiante, notturna, malinconica, sottolineata in chiusura ed in apertura dal suono caldo e metallico di una chitarra semiacustica, poi "No Bed Of Roses", trascinante boogie metallico con un riff rubato agli ZZ Top e qualche suggestione L.A. Guns, forse per colpa del solito Logan. Gli ultimi tre pezzi non dicono granché, complice forse la produzione, il suono della chitarra su "Through These Eyes" e "For a Million years" è veramente tirato via, mentre con la conclusiva "Street Fightin'Man" si ripercorre ancora il sentiero Dokken, quello furibondo e diretto di 'Back For Attack'. Dopo qualche tour (sempre come supporter) Lynch si rende conto dei limiti di Logan nella dimensione live e si rivolge al semisconosciuto Robert Mason per il secondo album. Il nuovo cantante ha mezzi superiori a quelli di Logan, anche se manca di quel timbro vizioso e sporco che contribuiva non poco alla definizione del carattere della band. Il secondo, omonimo lavoro è sicuramente più vario del primo, gode di una produzione più curata - ad opera di sua maestà Keith Olsen - e vede un deciso ingresso delle tastiere, suonate dall'arcinoto session man John Webster. "Jungle Of Love", track d'apertura, è un deciso hard blues aerosmithiano contrappuntato da una bella sezione fiati, fiati che si riaffacciano con più prepotenza nella successiva e più pacata "Tangle In The Web", dove lo spettro della band dei Toxic Twins è più presente che mai. "No Good" è un provocante mid tempo molto AC/DC, poi tocca alla ballad, "Dream Until Tomorrow", delicata e sognante, con tanto di sitar e sezione d'archi nel finale. "Cold Is The Heart" è dominata da toni oscuri, ma è l'assolo di Lynch che rapisce, una progressione così suggestiva che attorno a questo stesso assolo, George costruirà un intero pezzo strumentale del suo album solista. Il lato due dell'album è meno positivo. Si comincia con un'inutile cover "Tie Your Mother Down", eseguita in memoria di Freddie Mercury secondo le note interne, imposta dai discografici, secondo me, dato che i Queen non paiono comparire tra i punti di riferimento della band. Le due track successive sono le più deboli. "Heaven Is Waiting" è una semi-ballad ordinaria che trova qualche motivo di interesse solo nei cori di Glenn Hughes, mentre "I Want It" è un fast molto Dokkeniano che non dice nulla di nuovo. Poi arriva la drammatica "When Darkness Calls", oscura e insinuante, che si conclude con una prolungata parte strumentale. In chiusura, il piccolo capolavoro del disco: "The Secret", un blues che sembra emerso dalle paludi del Mississippi in una notte di luna piena, misterioso, struggente, intenso, con un Robert Mason davvero bravissimo, un brano che riesce ad essere energico e contemporaneamente pieno d'atmosfera. Ma gli scarsi responsi da parte del pubblico (leggi: vendite insufficienti), spingono George Lynch a sciogliere la band ed a presentarsi con un progetto solista nel '94. Prodotto da John Cuniberti, con molti ospiti che si alternano nei vari pezzi, 'Sacred Groove' non si discosta più di tanto dalle sonorità dei due album a nome Lynch Mob: la differenza più consistente stà nella presenza di ben quattro pezzi strumentali, fra cui spicca quello messo in chiusura di album, "Tierra del Fuego", riuscitissimo innesto hard rock su ritmi latini, tutto giocato sull'alternanza tra chitarre elettriche ed acustiche: insolito e affascinante. Tra i pezzi cantati, piacciono quelli interpretati da Glenn Hughes e Ray Gillen (è questa l'ultima apparizione del cantante prima della sua scomparsa), bella anche la "We don't own this world" intonata dai Nelson, molto meno gradevole la lunghissima "The beast", durissimo heavy metal che vede l'assurdo Mandy Lion alla voce. Il ritorno temporaneo nei Dokken, con dischi inutili in bilico fra tentazioni retrò e aperture alternative, chiude fino al '99 la parentesi solista di Lynch, riaperta con 'Smoke This', sempre a nome Lynch Mob: un trattato di rap metal che sa fin troppo di moda, lontano anni luce dagli splendori melodici a cui il chitarrista ci aveva abituato
Quella del Joe Perry Project è una storia che merita di essere raccontata. Dei suoi tre dischi prenderò in esame solo il primo, 'Let the music do the talking', perché è l’unico che abbia valore. Il secondo già lasciava l’amaro in bocca, ma il terzo era, ad essere magnanimi, semplicemente schifoso. Su ‘Once a rocker, always a rocker’ non c’era più una band, non c’erano le canzoni, non c’era Joe Perry! Se Joe volesse farsi un favore, dovrebbe ricomprarsi tutte le copie ancora in giro di questo album, ammucchiarle davanti alla propria villa (presumo che ne abbia almeno una) e passarci sopra con un compressore stradale fino a ridurre tutto in polvere. Tutto comincia nel 1979, con gli Aerosmith impelagati nella registrazione di un disco poco amato, ‘Night in the ruts’. Periodo molto poco felice per la band: troppi soldi, troppa pressione addosso e troppa droga nelle vene dei cinque bostoniani. Joe meditava un disco solo da quando l’allora manager degli Aerosmith, David Krebs, gli aveva fatto presente che era in rosso sul conto della band per la bellezza di 80.000 dollari. Joe non sapeva come pagare (i suoi soldi finivano praticamente tutti in eroina) e Krebs gli suggerì di incidere un disco solista: fu la pietra lanciata nello stagno. Quello che decise Joe a mollare la barca degli Aerosmith, invece, fu il bicchiere pieno di latte che la moglie di Tom Hamilton lanciò sulla fronte della sua consorte dell’epoca, mentre si trovavano tutti nel backstage di un festival rock a Cleveland. Arrivò lo storico litigio con Stephen Tyler, i vaffanculo reciproci e Joe che giura che non suonerà mai più con Tyler (ma nel comunicato stampa, la separazione viene definita "amichevole"...). ‘Night in the ruts’ (un disco costato quasi un milione di dollari) lo finiranno Jimmy Crespo (che campa ancora oggi di rendita sulla sua breve permanenza nella band) ed un paio di session men, e Joe è libero ma non proprio felice. La CBS non vuole mettere il Project sotto contratto a scatola chiusa, e aspetterà che Joe abbia una line up stabile e qualche concerto alle spalle prima di concedergli il sospirato deal. Per il posto di batterista, Joe reclutò Ronnie Stewart, un session drummer della scena di Boston, mentre di basso e chitarra ritmica si occupò Dave Hull, che aveva suonato il quattro corde nella band di Buddy Miles, ma era sopratutto il suo compare di stravizi. Il singer fu Ralph Mormon, conosciuto solo qualche mese prima sempre durante un festival. Jack Douglas venne chiamato a produrre ed in sei settimane (il budget messo a disposizione dalla CBS era limitato) il primo album era realtà. La title track apre il disco, tiratissima, bollente, diretta, scivolando su un tappeto intrecciato di slide guitars, "Conflict of interest" la canta Joe, è più pacata, qualche sfumatura rythm’n’blues, stride l’alternanza tra le strofe ed un coro quasi punk. "Discount dogs" (questa canzone doveva chiamarsi "Discount drugs", ma poi Joe venne a più miti consigli) è super, funkeggiante e bluesata, Ralph Mormon torna con la sua voce calda, maledettamente blues, ma poi Joe gli toglie di nuovo il microfono per "Shooting star", un altro peso massimo, chitarre scatenate su un riff mastodontico. L’unico strumentale è "Break song", un paio di minuti di chitarra blues in overdrive con Joe che torce e strizza e strapazza un riff fino all’inverosimile: questa era la chitarra elettrica prima che arrivasse Eddie Van Halen, quando tecnica e feeling andavano a braccetto e gli strumentali non erano solo una scusa per mostrare quanto si è bravi a fare scale correndo alla velocità del suono. "Rockin’ train" sembra rubata al song book di James Brown, un cool funky da urlo, Mormon è grandissimo, la chitarra di Joe è dappertutto. "The mist is rising": per me, il top del disco, sei minuti e mezzo di mid tempo inesorabile, blues che brucia di un fuoco nero, come dei Rainbow dopo un bagno nel fango del Mississippi. "Ready on the firing line" è ancora blues, ancora un’overdose di slide e chiude "Life at a glance", di nuovo un pezzo tirato, rocchenrollistico, privo di fronzoli. Senza promozione e con un minimo airplay, il disco vendette quasi un quarto di milione di copie, ma tutto cospirava contro il Project. Sia David Krebs che la CBS tentarono in ogni modo di stroncare l’album perché Joe tornasse con gli Aerosmith, poi cominciarono i tour e le difficoltà: il fatto che Joe non aveva un chitarrista ritmico dietro le spalle, la sua tossicodipendenza e sopratutto i problemi con Ralph Mormon, un singer immenso ma anche un alcolizzato perso che si ubriacava regolarmente prima di ogni show, al punto che alla fine del primo giro nei club Joe fu obbligato a licenziarlo. Arrivò alla voce Joey Mala, un breve tour di supporto agli Heart, il licenziamento pure di Mala e l’inserimento al canto di Charlie Farren. Jack Douglas non potè partecipare al secondo album ‘I’ve got the rock’n’roll again’ che venne prodotto da Bruce Botnick, l’ingegnere del suono e produttore dei Doors. Il nuovo disco andò malissimo, Joe era sempre più pieno di debiti e droga e dovette partire di corsa per altri tour, soltanto come openig act per Heart, ZZ Top e la J.Geils band. Nel 1983 il Project s’era sfasciato, e Joe l’aveva ricostruito nel modo peggiore possibile, con tre ragazzi che non volevano altro che vivere on the road e fare casino. Perduto il contratto con la CBS, il nuovo manager Tim Collins riuscì a procurarne uno con la MCA e mandare il Project in studio, ma il disco veniva fuori così male che la MCA pensò seriamente di licenziare Joe e compagni a metà delle registrazioni, e alla fine decise di farglielo completare solo perché liquidare il Project sarebbe costato molto più che finire l’album, l’orrido ‘Once a rocker, always a rocker’, che uscì quasi in sordina e vendette la miseria di quarantamila copie. La band era ormai allo sbando, il fondo lo raggiunse nel 1984 quando una serie di gig al Country Club di Los Angeles andarono praticamente deserti. I tempi erano maturi per il ritorno di Joe negli Aerosmith, perfino gli altri membri del Project, con il nuovo cantante Mach Bell in testa, gli consigliavano di chiamare Steven Tyler... Ma fu proprio Tyler a tendere la mano a Joe, quando seppe che Alice Cooper gli aveva proposto di lavorare con lui. La parentesi del Project era chiusa, ci fu un ultimo tour e Tim Collins che tentò di trovare in extremis un nuovo deal spedendo copie di ‘Once...’ in giro per le labes. La leggenda vuole che l’unico a rispondere fu John Kalodner a nome della Geffen: chiamò Collins e gli disse «Ho sentito il nastro e fa veramente schifo. Con quale coraggio mandi in giro questa merda? Joe è un grande artista, ma questa roba fa pena». E fu proprio la Geffen a mettere poi sotto contratto gli Aerosmith di nuovo riuniti. Da poco Joe è uscito con un disco solo, il vecchio moniker è andato e ‘Joe Perry’ è uscito soltanto a suo nome, ma è sempre grande rock blues.
Metto le mani avanti: non sono la persona più adatta a scrivere in maniera assolutamente imparziale di questo disco. Per me, David Coverdale è la voce, la misura della perfezione in campo hard rock. E Jimmy Page è il chitarrista, geniale, unico, assoluto e ineguagliabile. Se c'è stato un disco che ho atteso con il cuore in gola, per cui ho spasimato, ho contato i giorni, le ore ed i minuti che mi separavano dall'attimo fatidico in cui avrei potuto religiosamente introdurlo nel mio CD player, beh, è sicuramente questo (appena dietro viene il secondo Bad English, ma questa - come diceva Kipling - è un'altra storia). Dieci anni. Tanti ne sono passati da quando David riuscì a mettersi in società con Zoso - con gran scorno di un Percy sempre più acido e che commentò questo disco con parole irriferibili - e dal tour giapponese che concluse un'avventura sicuramente troppo breve. L'incertezza manifestata all'epoca da qualcuno, sulla reale capacità del duo di riuscire ad illuminare la scena hard rock con un colpo di genio era tutto sommato legittima. Non era tanto Coverdale ad essere messo in discussione, quanto Jimmy Page. Dopo la fine dei Led Zeppelin, Jimmy non aveva certo messo a segno dei colpi memorabili. I Firm non erano piaciuti praticamente a nessuno, anche se le critiche che li investirono erano in gran parte frutto di un'aspettativa sicuramente esagerata per una band che riuniva due personaggi così importanti della musica rock. Il suo album solista, 'Outrider', si era rivelato una raccolta frettolosa ed assemblata alla meglio di hard blues che solo in qualche caso ritrovava antiche magie. L'impressione, insomma, era che Jimmy Page avesse perduto il bandolo della matassa, avesse smarrito quella formula che aveva permesso al suo dirigibile di volare tanto in alto da essere praticamente irraggiungibile per chiunque. E questa, temo, è non una semplice impressione, ma la cruda realtà. Ma qui, su questo disco, Jimmy non è solo con i suoi fantasmi: si trova in compagnia di un talentuoso furbacchione, estremamente concreto e perfettamente inserito in una realtà da cui Zoso pareva voler autoescludersi fino alla fine dei suoi giorni. Un meraviglioso, irresistibile ruffiano che lo porta per mano a visitare i luoghi della sua giovinezza, invitandolo maliziosamente a prendere qualche ricordino ed un souvenir qua e là. Insomma: niente colpi di genio. Ma un lungo, avvincente percorso nella memoria zeppeliniana, concentrato sopratutto nei primi sei album, dove Jimmy Page e la sua band - saltando a piè pari i fin troppo idolatrati anni '60 - ripartivano dal blues e dal più puro rock'n'roll per distillare una nuova alchimia sonora che avrebbe segnato un'epoca. Il Page del 1993 non è quello degli anni '70. Ha perduto la voglia di osare e sperimentare, e forse la canzone che descrive meglio l'album è "Take me for a little while", una ballad languida e malinconica, del cui testo è autore proprio Jimmy: Ho raccontato tutti i miei ricordi... Mentre penso agli amici che abbiamo perduto... Perché non mi porti con te per un po'?/ e canti quelle canzoni che sai mi faranno sorridere... É come un appello... ma non rivolto a David Coverdale. La strada che porterà a 'No quarter' e 'Walking into Clarksdale' comincia indubbiamente da questa canzone. Per ora, Jimmy si accontenta di quanto può dargli di nostalgia il suo nuovo partner. E non è certo poco. Con l'eccezione delle sole "Take a look at yourself" e "Whisper a prayer for the dying", vicine al Whitesnake-sound di 'Slip of the tongue', non c'è frammento di quest'album che non sia riconducibile ad atmosfere più che Zeppeliniane. C'è l'hard rock bluesato, feroce ma controllatissimo, bilanciato tra acustico ed elettrico ( "Shake my tree", "Waiting on you", "Absolution blues", quest'ultima ben più che reminiscente della splendida "Ain't gonna cry no more", e non a caso, dato che questa canzone è, fra tutte quelle del repertorio Whitesnake pre '1987', quella più allineata alle classiche rotte del Dirigibile); il rock'n'roll mutante e indiavolato ("Pride and joy", "Feeling hot" ); il blues più canonico, con gli otto minuti di "Don't leave me this way" ; la solennità alla "Kashmir" di "Over now"; le atmosfere incantate di "Easy does it", dove la 12 corde di Page non può che rimandare ai momenti più fascinosi di 'III' e 'IV'. Sprecare aggettivi per queste canzoni è tempo perso. Ciascuna a proprio modo, ripropone quello stile unico e straordinario, ricrea quelle atmosfere perdute dopo che la signora con la falce s'era portata via Bonzo e che solo i Kingdome Come e - in parte - i Bonham, erano riusciti a ricreare. Tutta luce? Qualche ombra, inevitabilmente, c'è. Non ci sono assoli memorabili, salvo forse quello di "Don't leave me this way" ; anzi, Jimmy in un paio di casi preferisce delegare il compito all'armonica di John Harris. E la voce di David Coverdale comincia qui a mostrare quelle crepe che si spalancheranno in maniera clamorosa su 'Restless heart'. Eppure, questo quasi impercettibile velo di ruggine non fa che aggiungere fascino all'opera, è una patina che ne raddolcisce i contorni, e ci fa sentire, tutt'altro che spiacevole, il peso del tempo. Cos'altro rimane da dire? Che la sezione ritmica è composta da Jorge Casas al basso (con un paio di incursioni di Ricky Phillips, che andrà poi in tour) e dal veterano Denny Carmassi alla batteria, e la produzione è curata dai nostri due eroi con la preziosa collaborazione di Mike Fraser. Album per nostalgici? Forse. Ma se ancora oggi i dischi degli Zep vendono a palate e la pubblicazione dei live ripescati negli archivi dell'Atlantic viene accolta come un evento, forse la nostalgia è un sentimento più diffuso di quello che si potrebbe supporre a prima vista.
Cosa vi viene in mente quando
sentite/leggete la parola biker?
Come reagite quando vi imbattete nel logo degli Hell’s Angels?
È un universo, quello dei motociclisti americani, che non gode di
buona stampa nel proprio paese. Li abbiamo visti, e sicuramente
continueremo a vederli, in chissà quanti film e telefilm, in
genere presentati sempre sotto una luce se non proprio sinistra,
quanto meno inquietante. “Easy Ryder” è stata l’eccezione
che conferma la regola numero uno: trattare i bikers
sempre come selvaggi, asociali, supertossici, stupratori
potenziali, eccetera eccetera. Rappresentarli come uno di quei
poli negativi che la buona società americana – marcia dalle
fondamenta – ha costantemente bisogno di contemplare per
sentirsi virtuosa e pulita. Può darsi che tutto quello di cui li
accusano sia vero, cosa ne sappiamo davvero noi, lontani migliaia
e migliaia di chilometri? Eppure, se la musica di questa band era
davvero tanto amata dagli Hell’s Angels forse non c’è motivo
di avere paura di quei ragazzi che passano la loro vita a cavallo
di una moto... Difatti, Ron Young (voce, prima di
mettersi a cantare faceva il buttafuori nei bar), Apache (chitarra
solista, era
nella backing band di Etta James), Louren Molinaire (chitarra
ritmica) , Fidel Paniagua (basso), e Tom
Morris (batteria) furono per anni i beniamini di quelle legioni di
centauri che passano la loro vita a scorrazzare su e giù
attraverso gli States a cavallo di una moto. Il loro primo EP
(dopo l’esordio nella compilation ‘Street
survivors’) ‘Name your poison’,
non faceva presagire gran che, solo un’altra band di street
metal in cerca di fortuna, poi – dopo qualche data di supporto
ai Jane’s Addiction – arriva il contratto con la Geffen, e con
il primo album autointitolato, uscito nel 1990, i Little Caesar
(il monicker era il soprannome di un gangster della Chicago anni
’30) stupivano con un competente trattato di rock duro che
sapeva essere nello stesso tempo trucido e finissimo,
riff d’acciaio che non sottomettevano mai la melodia,
tocchi di rock sudista, di musica soul, il tutto magnificamente
prodotto da Bob Rock. Ron Young era un’autentica rivelazione,
con quella sua voce impastata e nitida nello stesso tempo,
perfettamente a suo agio sia nelle schegge più abrasive e
beffarde (“Wrong side of the track”,
l’inno “Rock-n-roll state of mind”)
che nei pezzi dove l’amore per il soul esplode incontenibile, in
particolare nelle due cover, la “Chain of
fools” già interpretata da Aretha Franklin e “I
whish it would rain” dei Temptation (la rifecero anche i
Faces), e poi nella corale power ballad “In
your arm” e nella cavalcata finale “Little
queenie” che parte da un riff funkeggiante e si conclude
con un tripudio di cori femminili e fughe chitarristiche. “Cajun
panther” è uno di quei boogie blues irresistibilmente
bastardi che gli ZZ Top non hanno più saputo fare dopo ‘Eliminator’,
“From the start”, Hard
times” e “Midtown”
parlano la stessa lingua dei Dirty White Boy, quella dell’hard
blues più sincero e struggente, “Down-n-dirty”
paga l’indispensabile dazio agli AC/DC, “Drive
it home” è un superbo hard rock con un testo che pare
ispirato dalla “Trampled underfoot” zeppeliniana, tutta una
sfilza di doppi sensi con cui Ron magnifica le prestazioni della
sua automobile in termini più che erotici... Dopo tour di supporto a Slaughter e
Kiss ed una memorabile esibizione durante un raduno di
motociclisti nel mezzo del deserto del South Dakota, la band tornò
al disco nel 1992, con ‘Influence’,
che vedeva l’ingresso in formazione del grande Earl Slick. Slick
si era rivolto a Ron Young per le parti vocali di due canzoni del
suo album solo, registrato dopo la fine prematura dei Dirty White
Boy, e quando Apache lasciò amichevolmente la band, Ron non ci
pensò due volte ad offrirgli il posto di chitarra solista. Prodotto da Howard Benson, (che
ricordo già all’opera sull’esordio dei Bang
Tango, ottima
street metal band rovinata da un singer che - detto senza mezzi
termini - non sapeva cantare: per saperne di più, seguite il link),
‘Influence’ ha un suono più
asciutto, abrasivo, essenziale, meno cromato di ‘Little
Caesar’, ma la qualità del songwriting restava sempre
altissima. Ron Young si riconfermava cantante duttile e intenso,
capace di prodursi in timbriche
quasi negroidi che in un paio di frangenti lo rendevano un Glenn
Hughes più sanguigno ed impastato, e di passare con disinvoltura
dal più classico boogie - “Rum and
coke”, “Ain’t got it”
- al blues elettrico - “Slow ride”
- a pesi massimi come “You’re mine”,
“Stand up”, “Pray for me”,
e di nobilitare finissime ballads (“Turn
my world around”, “Ballad
of Johnny”, “Ridin’on”). Perché questa band non abbia avuto
il successo che meritava resta una specie di mistero. In quegli
anni l’America si riscopriva affascinata da un rock - più o
meno duro - diretto e senza fronzoli, old
fashioned e un po’ sudista, decretando l’affermazione a
vari livelli per bands come Black
Crowes, Cry Of Love, Junkyard,
Jackyl, Soul
Asylum. Pur compromessi con la non più trendy scena street,
l’hard rock diretto e sanguigno, semplice ma mai banale,
venato di southern e blues che i Little Caesar proponevano aveva
tutte le carte in regola per piacere, anche nell’era del grunge.
Forse giocò a loro sfavore l’immagine di Ron Young, con il suo
aspetto da Hell’s Angels pluripregiudicato, non proprio in
sintonia con il nuovo look malaticcio/rurale che andava per la
maggiore tra i rockers nei primi ’90 (ma fu proprio quella
temibile immagine da biker a regalargli una particina nel film
“Terminator 2” : Ron è quello che dà una botta in testa a
Shwarzenegger in un bar al principio del film). Comunque sia
andata, i Little Caesar - dopo qualche altra esibizione live con
il nuovo drummer Marc Danzeisen (ex Riverdogs) - scomparvero per
un po’ dalle scene. Ron Young transitò brevemente nei Four
Horsemen, poi venne l’album con i Manic Eden ed i Dirt. Nel
1998, la Slick Music (l’etichetta personale di Earl Slick)
pubblicò ‘This time it’s different...!!!’,
una collection di unreleased tracks e brani live. Da un paio d’anni, i Little Caesar si esibiscono saltuariamente nei club di Los Angeles, con il rientrante Tom Morris dietro i tamburi ed il nuovo chitarrista Chris Latham al posto del defezionario Earl Slick. Non pare ci siano album in vista, ma è bello anche soltanto sapere che Ron ed i suoi ragazzi sono di nuovo in giro a suonare. Per la gioia degli Hell’s Angels e non solo.
Poveri Poison. Quante, ma quante gliene hanno dette... L’aggettivo più gentile usato per definirli è stato “froci”, anche se doveva essere evidente a chiunque non avesse gli occhi fasciati di mortadella che Bret e soci consumavano femmine in quantità industriale. Niente di nuovo o di originale in quegli apprezzamenti, comunque. Il glam non è mai stato capito davvero, anche se quello “rinato” negli USA alla metà degli anni ’80 era molto meno provocatorio e “disturbante” della sua forma originale made in UK. Nessun act statunitense ha mai calcato la mano sull’ambiguità di fondo che del glam era l’autentica anima. Così, tutto si è risolto in un modo estremamente vistoso e ricercatamente volgare di porsi all’attenzione del pubblico: la musica non aveva bisogno del rossetto, delle chiome bionde permanentate, del mascara, di quel look stile travestito brasiliano che non trovava alcuna ragion d’essere al di fuori del bisogno di farsi notare. Era solo rock’n’roll, più o meno buono, che di “decadente” non aveva il benché minimo flavour, anche perché nessuno lo ricercava davvero. Non è un caso che a questo genere si dette anche, e con molta più ragione, il nome di party metal: musica allegra da suonare alle feste, la colonna sonora ideale per lo sballo, per fare casino eccetera. ‘Look what the cat dragged in’ e ‘Open up and say ahhh’ furono le più fulgide espressioni di quella stagione, gli invitati che non potevano né dovevano mancare a qualsiasi party selvaggio con cui infiammare la tanto attesa saturday night. Cosa impedisse ai Poison di continuare su questa linea non l’ho mai capito davvero, ma resta il fatto che ad un certo punto quell’identità glam e festaiola cominciò ad andare stretta alla band. Così, prima ci fu ‘Flesh and blood’, singolare esempio di cerchiobottismo dove si cercava di mescolare party metal, street, AOR e blues finendo per non sfondare in nessuna direzione, e poi arrivò questo ‘Native tongue’. In mezzo venne lo split con il supertossico C.C. DeVille, elemento tutt’altro che indispensabile nell’economia della band, ma che per qualche idiota ragione d’immagine Bret e compagni parevano voler tenersi stretto a qualsiasi costo e sicuramente fino al punto di fare più volte la figura degli idioti con la stampa, negando la separazione dal chitarrista come se a lasciare la band fosse stato Eddie Van Halen... A rimpiazzarlo parve che in un primo momento dovesse essere Blues Saraceno, ma poi Bret Michaels decise di arruolare l’enfant prodige Richie Kotzen. Richie - come Saraceno e forse più di lui - era uno dei novelli devoti della musica del diavolo, ed il suo ingresso nei Poison non poteva che significare una netta sterzata della band in direzioni più roots e blueseggianti. Insomma: basta capelli platinati, rossetti e pose ammiccanti, party scatenati e ritornelli per far battere il piedino. La domanda è: avevamo davvero tutti bisogno di un’altra hard rock band “qualsiasi”? Perché, ahinoi, i Poison in versione ripulita e corretta al blues si rivelavano essere nient’altro che questo: una band come le altre. In ‘Native tongue’ non mancavano certo gli spunti, la varietà, le idee, l’energia. Ma troppo spesso Bret pareva muoversi nelle canzoni annaspando come un pesce fuor d’acqua, con quella sua voce che fuori dagli stereotipi glam finiva per rivelarsi debole e anonima, e la competenza di Kotzen non poteva compensare del tutto il fatto che Bobby Dall e Rikki Rocket non erano rampolli del Musician Institute ol Los Angeles ma solo onesti esecutori. I numerosi ospiti ed il tocco raffinato del producer Ritchie Zito potevano rilegare impeccabilmente il tutto, ma non supplire ad una mancanza di fondo: quella di una genuina predisposizione verso l’hard rock sanguigno che purtroppo i Poison non avevano. Non è un caso che i momenti migliori dell’album siano quelli in cui la band scatena tutta la sua verve festaiola, ossia “Body talk”, “Ain’t that the truth” e “Strike up the band” (quest’ultima, però, ignobilmente fregata agli Steelheart). C’è poi anche da mettere in conto una scaletta tutta sbagliata che concentra inspiegabilmente nella prima parte del disco i pezzi più morbidi: la sequenza “Stand”, “Stay alive” e “Until you suffer some” è quasi micidiale per le palpebre, che alla fine sentono un prepotente desiderio di distendersi sui bulbi oculari... E la colpa di questo aperto invito a cadere tra le braccia di Morfeo non è tanto delle canzoni (“Stand” è un riuscito connubio di acustiche folk, armonie soul e cori gospell; “Stay alive” è un soul blues con un bell’assolo dal sapore settantiano; “Until you suffer some”, una ballad elettrica ben rilegata dall’hammond), quanto del loro nefasto inanellamento proprio a principio dell’album, appena dopo l’iniziale “The scream”, discreta prova di street rock urbano e funkeggiante preceduta da un potente intro percussivo. Anche “Bring it home” si muove lungo queste coordinate, veramente bello l’arrangiamento, ma quando Bret forza la voce per mettersi a fare il duro/scafato-che-conosce-la-vita-delle-strade diventa quasi patetico; il testo politico/sociale, poi, c’entra con questa band come i proverbiali cavoli serviti con il tè delle cinque. Per fortuna arrivano subito “7 days over you” e “Ain’t that the truth” (separate da un breve sfogo solistico di Richie alla chitarra acustica) a rimettere i ragazzi in carreggiata: hard aerosmithiani, festosi, danzerecci, il primo tutto piano boogie e fiati, il secondo più glam: grandi! “Theatre of soul” è una pregevole ballad elettrica, intensa, bluesata e nient’affatto zuccherosa., “Strike up the band” sarebbe fantastica se - come già annotato sopra - non avesse il coro spudoratamente trafugato alla “Down n’dirty” degli Steelheart. “Ride child ride” è un roots rock di maniera, quel genere di rilettura molto commerciale del classico rock yankee in cui eccelleva Jon Bon Jovy, mentre “Blind faith” è il filo più diretto con il passato recente della band, un glam rock anthemico quanto basta. Chiude “Bastard son of a thousand blues”, un blues che trova la propria forza sopratutto nell’atmosfera scanzonata. Bret Michaels è la negazione del cantante blues, eppure qui risulta gradevole e convincente, perché è palese che interpreta la canzone senza prendersi sul serio, senza forzature ridicole. Tra chitarre elettriche, piano ed un armonica sgusciante, il pezzo scorre via piacevolmente, regalandoci anche il miglior assolo di Richie Kotzen: forse non il top dell’album, ma di certo il momento più riuscito. L’accoglienza che i fans riservarono a ‘Native tongue’ non fu proprio entusiastica, e nel 1993, nel pieno dell’uragano grunge, i Poison sembravano dover fare la stessa fine che era toccata ai Motley Crüe: scomparire tra i fischi e/o il disinteresse di chi solo qualche mese prima li idolatrava. Una vigorosa spinta sulla strada del disastro se la dettero però da soli quando Richie Kotzen, prima di un concerto, si mise a fare apprezzamenti poco eleganti sulla ex-ragazza di Rikki Rocket e sua attuale compagna di letto (in seguito - addirittura - moglie), informando con dovizia di particolari il resto della band (Rikki compreso) delle sue straordinarie performances amatorie. La conferenza finì con il drummer che cercava di tappare a pugni gli occhi al chitarrista, l’immediato licenziamento di Richie e la sostanziale fine di una band che proprio il transfuga C.C. DeVille mantiene ancor’oggi viva con dischi inconsistenti e sciapi come una gazzosa sfiatata.
Ho già più volte sottolineato il carattere isterico e incoerente della proposta in ambito ristampe, che va avanti senza il minimo filo logico all’interno delle stesse etichette che se ne occupano in prevalenza. Perché l’inglese Cherry Red ha deciso di ristampare soltanto il secondo album dei Tora Tora? Cos’aveva il primo che non andava? L’etichetta originale era sempre la stessa, si poteva impacchettare tutto in un solo CD, per non parlare poi del terzo album registrato e mai pubblicato... Ma dato che è veramente tempo perso quello impiegato nel tentativo di decifrare le contorsioni mentali di chi comanda la barca delle labels discografiche, glissiamo via e occupiamoci della musica dei Tora Tora. Il primo album, la band di Memphis che prendeva il proprio monicker dalla parola d’ordine che i giapponesi scelsero per dare il via al bombardamento di Pearl Harbour (era anche il titolo di un film di guerra degli anni ’50), lo pubblicò nel 1989, il titolo era un coerente ‘Surprise attack’ e collocava i Tora Tora nella scia dello street metal americano che in quegli anni faceva furore. Echi di Guns N’Roses, Skid Row e rock sudista risuonavano attraverso un telaio rude, a tratti ispido ed a volte sfacciatamente boogie sulla scia dei primi ZZ Top. Un grande disco di hard rock americano senza compromessi commerciali, ma con questo ‘Wild America’ i Tora Tora seppero fare di meglio, guardando più lontano, variando l’approccio, distillando un suono meno violento, arricchito di Hammond, archi e sezioni fiati, più attento alla melodia e sfoderando sopratutto un songwriting autorevole e illuminato (con qualche aiuto dal grande Taylor Rhodes). Prodotto da Arthur Payson, ‘Wild America’ era un mosaico di suggestioni che andavano da una sardonica rilettura del rock’n’roll più bluesato via-Van Halen già sperimentata dai Bulletboys ( “Amnesia”, con quel suo riff cadenzato ed il basso in evidenza; “Shattered”, veloce e funkeggiante; “Cold fever”, dove si avverte pure qualcosa dei Little Caesar), allo street essenziale, tirato, sleaze senza rozzezze (la title track, dal coro quasi anthemico; la conclusiva “City of kings”). “Dead man’s hand” sconfina in territorio Aerosmith/Cinderella/Blackeyed Susan: fiati, piano honky-tonk, scanzonata, grandissima... “As time goes by” è un piccolo capolavoro: sospesa tra la cowboy song ed il folk zeppeliniano, morbidamente avvolta dall’hammond, un refrain fascinoso, struggente ed insinuante nello stesso tempo che non vi uscirà più dalla testa... “Lay your money down” svaria tra Aerosmith e Tesla, genuinamente root nella sua alternanza di acustico ed elettrico su un ritornello solido e rude come cuoio. “Dirty secret” è un’altra perla che sa di rhythm’n’blues energizzato, condita da un piccante assolo tutto slide, “Faith healer” una power ballad impetuosa, con l’elettrica che cavalca e s’impenna sulle acustiche e l’hammond, con un’atmosfera settantiana ma anche echi di Tesla/ GN’R/ Beggars & Thieves. L’ultimo masterpiece è “Nowhere to go but down”: intro di dodici corde, un giro di chitarra avvolgente e poi il folk, la cowboy song, i Tesla, gli Aerosmith e addirittura i Foreigner vengono impastati dalla band per una power ballad assolutamente superba. Menzione d’obbligo per il singer Anthony Corder, una specie di Phil Lewis più pulito e melodico. Il primo disco entrò nella top 50 di Billboard, ma questo ‘Wild America’ uscì troppo tardi, nel ’92: a buon intenditor... I Tora Tora riuscirono comunque a registrare un altro album nel 1994 che doveva intitolarsi ‘Revolution day’, ma non a pubblicarlo. Forse la Cherry Red ci sta già facendo un pensiero? Speriamo bene. In questa ristampa favolosamente rimasterizzata c’è una bonus track, la versione Radio Mix di “Wild America”, e (nel booklet, ovviamente) un lungo pezzo scritto dal giornalista Jerry Ewing prelevato da Classic Rock Magazine, in cui apprendiamo che, mentre Corder ed il bassista Patrick Francis hanno una nuova band, gli Homemade Flavour, il chitarrista Keith Douglas ed il drummer John Paterson hanno appeso gli strumenti al chiodo: il primo lavora nella fabbrica di colla di famiglia, il secondo ha messo su un negozio che vende articoli per caccia e pesca... Non so a voi che effetto fa, ma a me questi dettagli biografici hanno messo addosso una tristezza da non dire. Non era giusto che finisse così, cazzo... |