r RECENSIONE
Questo 2011 già ci ha dato tante belle cose in ambito hard rock più o meno melodico, al punto che il vostro webmaster si è visto costretto a rallentare sensibilmente la produzione di scritti riguardo tutte quelle preziose anticaglie che in genere catalizzano la sua attenzione per dedicare qualche rigo in più ai dischi in uscita. Non ho l’abitudine di stendere classifiche, mi rifiuto perfino di assegnare voti ai dischi, ma certo questo primo lavoro solista di Chris Ousey ha tutte le probabilità di finire ai primissimi posti di una ipotetica graduatoria degli album dell’anno. Non tanto e non solo per le performances vocali di Chris (chi ha perso contatto con lui dai tempi gloriosi dei Virginia Wolf stenterà a riconoscerlo: la sua voce è diventata profonda ed un po’ rauca) quanto per il team che gli ha confezionato il disco, a partire dal grande Mike Slamer, qui presente nella duplice veste di produttore e chitarrista, coadiuvato da Tommy Denander per chitarre e tastiere, Neil Murray al basso e Greg Bissonette alla batteria: non è una superband ma poco ci manca. ‘Rhyme & Reason’ è un disco che riesce ad essere nella stessa misura e con pari intensità classico, moderno ed originale: e non è una contraddizione. Sopratutto negli arrangiamenti delle tastiere stacca decisamente da quanto è più tradizionale nell’AOR. Ci pensa poi il chitarrismo mai banale di Mike Slamer a coniugare antico e moderno in un telaio che non appare inedito ma neppure trito, la solita rifrittura di cose ascoltate già un milione di volte. “Mother of Invention” già dice tutto, con quel disegno pulsante di keys ed un riff che rotola alla maniera degli ultimi Whitesnake, con un risultato imponente e spettacolare. “Bleeding heart” è serrata, un po’ Journey, con riflessi di metal californiano, “To Break a Heart” viene aperta da una chitarra acustica che viene spazzata via di colpo da una tempesta di riff secchi, affilati, geometrici, sempre sulla rotta degli Whitesnake, cavalcata da un refrain grandioso e drammatico. “Motivation” è sinuosa, elettrica, un potentissimo impasto di chitarre e tastiere un po’ nel segno degli ultimi Winger, mentre “A Chemical high” si risolve in uno strepitoso funky hi-tech su cui svetta un ritornello decisamente R&B, spezzato da un assolo trattato (ovviamente) col wah wah. “Give me Shelter” è un altro ciclone, strofe ritmate da un’inedita amalgama di keys e chitarre in cui va ad incunearsi un classico refrain. Gli Steelhouse Lane vengono chiamati in causa da “The Reason Why”, praticamente una power ballad, anche qui abbiamo una linea melodica tipicamente AOR che si adagia su un disegno ritmico ed armonico originale, nello stesso tempo arioso e potente. “Any Other Day” si impenna con vigore nel refrain alla maniera degli House of Lords più recenti, “Don’t Wanna Dance” è un altro sensazionale aggiornamento di temi classici: riff acuminati, tastiere pulsanti: praticamente sono i Virginia Wolf portati nel ventunesimo secolo (con qualche spunto mutuato ancora dagli Winger). Tocca poi al rhythm & blues alla Foreigner prima maniera di venire splendidamente attualizzato e amplificato con “Watch this space”, mentre un palpitare di chitarre e tastiere taglia il riffing ottantiano di “By Any Other Name”, su cui spicca un bel ritornello. Chiude "A Natural Law”, una power ballad dall’arrangiamento magistrale, un mosaico di ricami elettrici e scoppi d’energia che scivolano gli uni negli altri con fluidità stupefacente. ‘Rhyme & Reason’ svetta su tutti i lavori frigidi, plastificati e monotoni di certe bands svedesi che vanno per la maggiore (e anche sui dischi di superband certificate, messi assieme con il minimo sforzo, badando soltanto a non stancarsi troppo…), e può guardare dall’alto in basso chi, a corto di idee, fantasia o ispirazione, non sa fare altro che riciclare impunemente un pugno di accordi e melodie ben oltre la soglia della decenza o del ridicolo. In questo album ci sono idee originali, fantasia sbrigliata ed ispirazione genuina: se volete sapere dove andrà il rock melodico nel terzo millennio, non lasciatevelo scappare.
Avrei dovuto scrivere di questo disco quando venne ristampato dalla American Beat Records nel 2007. Ma chi poteva supporre che nel giro di appena quattro anni non solo quella ristampa sarebbe andata esaurita, ma il suo prezzo sarebbe salito alle stelle? Su eBay, gira intorno ai sessanta dollari, con l’edizione originale a sfondare regolarmente il tetto dei cento; su Amazon USA veleggia intorno ai trenta dollari. Okay, faccio le mie scuse a chi scoprirà di essere arrivato fuori tempo massimo per poter ottenere a prezzo regolare uno dei capolavori dell’AOR ottantiano, e giuro che non è per sadismo che me ne occupo soltanto oggi. Tommy Shaw è un personaggio che non avrebbe bisogno di presentazioni, artefice dei maggiori successi degli Styx fino a quando non lasciò la band per grossi contrasti sulla direzione musicale ai tempi dello strano ‘Kilroy Was Here’. Concluso il faraonico tour a supporto di quell’album, Tommy mollò gli Styx e avviò una carriera solista che nei Big 80s ebbe poca fortuna commerciale ma un grande spessore artistico, tutti i suoi primi tre album sarebbero da passare al setaccio, scelgo l’ultimo, ‘Ambition’, perché lo reputo il migliore ma, ripeto, i due lavori che lo precedono, ‘Girls with Guns’ e ‘What If’, non demeritano affatto nei confronti del terzo. Gli scarsi riscontri in popolarità e moneta sonante spinsero poi Tommy a fare lega con Jack Blades e Ted Nugent nei Damn Yankees, mossa azzeccata in tutti i sensi, considerata l’eccellenza dei due lavori pubblicati da questo monicker e le tante copie vendute. Nel 1995 ci fu il ritorno negli Styx anche se la collaborazione a livello discografico e di songwriting con Jack Blades è proseguita praticamente fino ai giorni nostri, mentre alla lista dei suoi dischi solo dobbiamo aggiungere anche ‘7 Deadly Zens’ nel 1998 e ‘The Great Divide’ quest’anno. Venendo ad ‘Ambition’, non è davvero azzardato classificarlo fra i capolavori, il songwriting stellare è elaborato dalla produzione de luxe di Terry Thomas che dà a queste dieci canzoni un sound che non sai come definire se non usando l’aggettivo “gigantesco”, un trionfo di atmospheric power fra tastiere camaleontiche e chitarre dalla timbrica sempre ricca e luminosa, tre quarti d’ora di assoluta goduria per tutti gli amanti dell’AOR della seconda metà dei Big 80s. L’apertura è affidata al riff pulsante su un tappeto increspato di Hammond di “No Such Thing”, notturna, anthemica e ritmata, con un ritornello da incidere nel bronzo ed un assolo decisamente bluesy. “Dangerous Game” parte con un raffinato gioco di keys e percussioni ed una chitarra splendente: leggiadra e vellutata, diventa elettrica, drammatica e quasi pomp nel coro. Sempre d’atmosfera “The Weight of the World”, ma molto dinamica, un fascinoso chiaroscuro che sale in un crescendo sottile, per nulla teatrale eppure maestoso. Stessa formula per la title track, più rarefatta ma con un’impennata elettrica e potente nel refrain. “Ever Since the World Began” è una magnifica cover dei Survivor, scandita dal pianoforte, con flash di sax al principio ed alla fine, mentre “Are You Ready for Me” è un AOR un po’ Journey dal riffone secco, impetuosa e con un ritornello essenziale. “Somewhere in the Night” si stende su ricami e panneggi di tastiere, un grattare di chitarre elettriche, un ritornello suadente e cromato, la temperatura sale di botto con “Love You Too Much”, travolgente funky AOR high tech dal ritmo danzabile, “Outsider” è drammatica, tagliente, arroventandosi nel coro con una sublime eleganza. Chiude “Lay Them Down”, un’alternanza impagabile di atmosfera e potenza in certi momenti addirittura squassante, refrain semplice e lirico, una vera apoteosi di acciaio e velluto. Insomma, aggiungete pure un altro titolo alla lista degli “imperdibili”…
Larry Gowan è sicuramente uno degli artisti più stimati nel campo dell’AOR, con una carriera ormai più che trentennale alle spalle che gli ha regalato molte soddisfazioni, sopratutto nel suo paese, il Canada, dove è considerato una autentica leggenda vivente. Dal suo primo album autointitolato del 1982 ai lavori che ha inciso da quando si è unito agli Styx, Gowan è titolare di una discografia impeccabile ma, questo non si può negare, generalmente sbilanciata verso le fasce più soft dell’AOR. Solo nel 1990, con ‘Lost Brotherhood’, Larry Gowan si concede infine una bella sferzata di elettricità, accantonando (momentaneamente) le tentazioni pop per entrare con autorità nell’AOR propriamente detto che dominava le classifiche alla fine dei Big 80s. Nella lista dei musicisti che lo coadiuvano su ‘Lost Brotherhood’ spiccano sopratutto i chitarristi: Alex Lifeson, Ken Greer, Steve Shelski, Mladen: un segno inequivocabile dell’irrobustimento del tessuto sonoro rispetto ai lavori precedenti. Come sezione ritmica, Gowan continua ad usufruire di quella (fenomenale) formata da Jerry Marotta e Tony Levin, la produzione è condivisa (come il songwriting) da lui stesso con Eddie Schwartz (Signal). Il risultato finale non può che essere stratosferico, di una raffinatezza quasi unica, a partire da “All the Lovers in the World”, caratterizzata dalla contrapposizione tra la freddezza high tech delle strofe ed il calore del ritornello. La title track sale in un crescendo implacabile ed elegante, notturna ed insinuante, fra il pulsare del basso, i bruschi flash di pianoforte, scivolando su un tappeto di chitarre elettriche incalzanti. “Call It a Mission” è dinamica ed elettrica, eppure fascinosa e cool, un brano di grande respiro che mescola sapientemente Toto e Rush, “The Dragon” si rivela epica più che drammatica, un trionfo di cupo atmospheric power che si dipana tra tastiere imponenti e chitarre lancinanti. “Love Makes You Believe” è l’unica vera ballad del disco, elettroacustica, una melodia che ricorda distintamente le cose migliori di Billy Squier, “Fire It Up” è un eccezionale hard rhythm and blues high tech tra Foreigner e Toto, mentre i Rush in un’ipotetica versione AOR spuntano fra le righe delle melodie fresche ed accattivanti di “Out of a Deeper Hunger” e quelle più dinamiche di “Tender Young Hero” (dove fa capolino anche qualche suggestione Honeymoon Suite). Un intro incantato di keys prelude a “Message from Heaven”, intreccio magistrale di big sound e atmospheric power, drammatica e con un testo spietato, “Holding This Rage” chiude il disco con una power ballad marezzata di parti orchestrali, solenne ed accorata, spezzata da furibondi scoppi di energia, con un finale grandioso e roboante. È un peccato che tutto quanto Gowan ha prodotto prima e dopo ‘Lost Brotherhood’ sia inquadrabile solo marginalmente nell’AOR e riguardi più che altro la musica pop, il rock melodico avrebbe avuto tutto da guadagnare dall’arruolamento in pianta stabile di un artista come lui, ci resta solo questo formidabile disco – reperibile abbastanza facilmente ed a prezzo onesto sul mercato dell’usato – a testimoniare cosa un musicista raffinato ed ispirato può mettere in campo quando affronta il tema dell’Adult Oriented Rock.
Ed eccoci alle prese con un’altra band che non si può non definire “mitica”. Questo abusato aggettivo dobbiamo però applicarlo ai Surgin’ nella sua accezione letterale: come accaduto agli Aviator, anche i Surgin’ erano (sono) una band sopratutto “nominata”, un moniker da sparare per darsi arie da intenditore di AOR primi ’80. Considerato che la ristampa del loro unico album di studio, ‘When Midnight Comes’ (‘Tokyo Rose’ e ‘Electric Nights’ sono raccolte di demo precedenti l’incisione di quel disco) è arrivata solo nel 2001 ed è finita rapidamente nelle liste delle offerte super scontate (ma anche la prima edizione, la MFN faticò non poco a darla via, al punto che ancora nel 1989 il disco era presente nel suo catalogo), si può dubitare che a tutto quel gran chiacchierare siano poi seguiti i fatti, ovvero, che qualcuno sia andato a comprare il benedetto disco. Diversamente dagli Aviator, però, i Surgin’ si sciolsero rapidamente, e non tanto per l’insuccesso dell’album quanto per il pessimo management, almeno se dobbiamo credere a Jack Ponti, che corredò la ristampa del 2001 di una succinta ma succosa storia di quella che dal principio alla fine fu la sua creatura. È da questo breve testo che attingerò tutte le notizie biografiche, considerata l’autorevolezza della fonte. La storia comincia nel New Jersey, con una piccola band rimasta senza contratto, The Rest, nella quale militavano Jack Ponti ed un ragazzotto italoamericano dal cognome impronunciabile per gli yankees, Bongiovanni, e se non avete capito di chi stiamo parlando… Jack ed il futuro Jon Bon Jovi erano cresciuti assieme e nei The Rest mossero i primi, sofferti passi nel music business. Jon riuscì prima del suo amicone a trovare un contratto, pubblicando il primo album della sua band nel 1984, Jack Ponti faticò un po’ di più ad uscire dalla palude in cui erano rimasti invischiati i The Rest (nonostante un demo prodotto addirittura da Billy Squier): alla fine, sciolse quella band e fondò i Surgin’ che trovarono immediatamente un contratto con la EMI America grazie ad un altro personaggio di spicco, Roy Thomas Baker. La registrazione dell’album fu tormentatissima, si cominciò a lavorare con Rob Freeman, ma tra lui e Jack non si stabilì un buon feeling, così, dopo aver inciso cinque canzoni, Freeman venne allontanato e si riprese più o meno da capo a registrare con John Luongo (produttore di John Waits, tra gli altri). Nonostante l’eccellenza del disco, la EMI decise di non pubblicarlo in Europa, dove uscì sotto l’egida della Music For Nations. Ma, come Jack Ponti scrive nelle note del CD: “Bad management gives you bad career”. Così, dopo appena qualche concerto (l’ultimo show lo suonarono come supporters per gli Aerosmith), i Surgin’ si sciolsero e passarono nei libri di storia. Jack Ponti, già mentre registrava il disco aveva preso la decisione di dedicarsi alla produzione e passò in pianta stabile dall’altro lato del banco del mixer, diventando un produttore e songwriter di successo (attualmente è proprietario di una compagnia di management). Quello che resta sono trentasette minuti scarsi di musica: straordinaria, entusiasmante musica. La matrice non era poi tanto lontana da quella dei primi Bon Jovi, ma qui si flirta più apertamente con l’universo pop, e il songwriting è parecchi palmi sopra quello dei primi album della band di Jon. È tutto fresco eppure urgente, il parto di una band giovane che brucia dalla voglia di emergere, alle prese con un linguaggio nuovo quale era quello dell’AOR nel 1985. E che i Surgin’ avessero tutte le carte per poter entrare in quella scena da protagonisti è evidente fin dal principio, con la title track che apre l’album sparando un grande anthem ben giostrato fra un riffone secco ed heavy e tastiere molto pop combinati in un arrangiamento variegato e policromo. “Shot Through the Heart” l’avevamo già ascoltata sul primo Bon Jovi, Jack e Jon l’avevano scritta assieme ai tempi dei The Rest, irrompe con un pianoforte martellante alla Toto, prende strade più pop un po’ in stile Loverboy esplodendo in un grande refrain. “Not Done Lovin’ You” è una power ballad a tratti sognante, a tratti aggressiva, con un altro refrain memorabile. “In the Heat of It All” viaggia su un basso pulsante, allo stesso ritmo da tango di certe canzoni degli Whitesnake (“Don’t Break my Heart Again”, “Gambler”), incrociando alla perfezione chitarre massicce e tastiere cristalline, suonando come dei Loverboy più fisici ed heavy e con un altro ritornello strepitoso. Ancora una power ballad divina con “Wait Until Morning”, mentre una deliziosa leggerezza AOR si insinua in “Hands of Time”, giostrata su un arrangiamento esemplare. I Loverboy tornano a fare capolino sulle tre canzoni successive, “Turn the Radio On” è un classico pop rock nello stile primi anni ’80 della band di Mike Reno, martellante e robotico, con un ritornello travolgente nella sua semplicità, “Heartbeat Away” è invece lenta e d’atmosfera mentre “Hot Nights” è veloce ed aggressiva. Gran finale con il ritornello melodico e potente di “Desiree” che si stende su un bel tappeto dove si intrecciano keys incalzanti e chitarre secche e grattanti. Jack Ponti scrive di aver sempre considerato il primo disco dei Baton Rouge una sorta di secondo album dei Surgin’, ma la matrice sonora delle due band era tanto differente che – almeno nelle mie orecchie… – il paragone non regge gran ché. Piuttosto, come ho scritto nel pezzo dedicato alla band di Kelly Keeling che potete leggere seguendo il link, è il terzo disco autointitolato dei Baton Rouge che – al di là del moniker – ritrova quelle coordinate sonore messe a punto da Jack per una band tanto sfortunata quanto eccellente.
Se un disco mi ha dato dubbi e incertezze e perplessità come ‘We are the Brokenhearted’ non me lo ricordo. A volte mi ci sono voluti anni (sì, proprio anni) per arrivare a capire ed amare un certo album, e forse questo nuovo lavoro dei Beggars & Thieves avrà la stessa sorte. Non mi convince, eppure continuo a riascoltarlo, ancora e ancora. Va innanzitutto dato atto alla coppia Merlino-Mancuso di aver scansato la troppo facile strada della celebrazione, anche se la cover dell’album parrebbe suggerire strategie di tutt’altro genere. Sono riusciti a conservare il loro classico sound, o perlomeno una sua consistente fetta, ma in questo quarto episodio della loro discografia hanno anche deciso di esplorare altre strade. Diciamo subito che il songwriting è meno d’impatto rispetto ai primi due dischi e certe sfumature sono del tutto scomparse dalle loro alchimie sonore: il flavour zeppeliniano, le tentazioni glam, la componente blues sono solo un ricordo. Cosa resta, allora? Quel loro particolare registro di big sound mutuato per la gran parte dalle band New Wave britanniche, Simple Minds e U2 in testa. Proprio gli U2 sembrano diventati il principale punto di riferimento, gli U2 epoca ‘The Joshua Tree’, con Luie Merlino che per tutto il disco pare impegnato sopratutto a ricalcare lo stile vocale di Bono. Tutto questo non dà una direzione esattamente imprevedibile a ‘We are the brokenhearted’, perché, come già annotato, quelle influenze erano una parte cospicua del bagaglio sonoro della band già su ‘Beggars & Thieves’, piuttosto li avvicina ulteriormente ad act come Diving For Pearls e Neverland che con più convinzione cercavano di trapiantare quello stile nel tessuto dell’hard rock. Insomma: sono sempre loro, eppure non lo sono. I frammenti di ‘We are the Brokenhearted’ più debitori alla band di The Edge sono l’iniziale “We Come Undone” e “Stranded”: se la prima ha la solita, grande estensione melodica, la seconda risulta piuttosto anonima. “Oil & Water” è ricamata di intarsi acustici sul tappeto elettrico: dolente ma suggestiva, allo stesso modo di “Never Gonna See You Again”, su cui risalta il pianoforte, con un arrangiamento a tratti incisivo ed a tratti rarefatto. “Innocence” è più dinamica e policroma, fatta di riff pulsanti, ricchi panneggi di keys, un refrain sempre U2 inspired. “Beautiful Losers” è caratterizzata da un’acustica spagnoleggiante, timide tentazioni Beatles ed uno dei classici refrain della band, mentre la cupa “Seven Seconds” sta in equilibrio su un riff dondolante ed elementare su cui si stende una bella melodia. “Wash Away” è una power ballad nelle migliori tradizioni, con gran spiegamento di tastiere e chitarre acustiche, “Midnight Blue” ripropone il loro classico registro di big sound, ma virato in una tinta oscura e inquietante. Chiude la title track, canzone luminosa, corale, con un bell’arrangiamento orchestrale ed un carattere quasi anthemico, conclusa forse per compensazione da un fraseggio tenebroso di chitarra ed un sax lancinante. Certo molto superiore al ‘The grey album’ (o meglio, al materiale registrato appositamente per quel disco: per saperne di più, seguite il link), ma il confronto con i primi due album ci riconsegna una band che ha variato discretamente il proprio passo, ed in una direzione che rischia di sconcertare più di un fan.
Facciamo un piccolo test. Qual è la prima cosa che vi viene in mente quando vi imbattete nel nome della cantante/chitarrista statunitense? Non è telepatia, ma so con assoluta certezza che si tratta di queste cinque parole: I love rock ‘n’ roll… È un tormentone transgenerazionale che avrà ormai quasi la stessa notorietà di “Smoke on water”: che se la meriti, naturalmente, è un altro paio di maniche. Che Joan Jett sia identificata con quella canzone, poi, è una mezza ingiustizia, dopotutto non l’ha scritta lei, ma gli Arrows, Joan – come i Quiet Riot con la loro storica cover di “Cum on feel the noise” – arrivò semplicemente a proporla al momento giusto, nel 1981 (la versione originale è del ’75), all’alba di quei Big 80s che avrebbero consacrato l’hard rock melodico come genere di alta classifica. Un milione di copie vendute del 45 giri nei soli Stati Uniti, ed una identificazione della ex Runaways con la canzone che Joan pare non ha mai sentito come un peso. Ma, oltre “I Love Rock ‘n’ Roll”, c’è qualcos’ altro che ci autorizza a collocare Joan Jett nell’empireo del rock? La mia sensazione è che, se non fosse stato per quella fortunata cover, Joan avrebbe avuto una carriera in linea con quella della sua collega Lita Ford: un volare basso, appena rischiarato da qualche breve periodo di rinomanza prevalentemente fortuita o più o meno imposta da una promozione rabbiosa. È un fatto che Lita Ford, come chitarrista si mangiava Joan a colazione e aveva un modo di cantare più vivace ed accattivante. La voce di Joan Jett è sempre stata di una monotonia senza pari, fredda e robotica, cantilenante, con gli urletti che seminava in abbondanza tra un verso e l’altro che finivano per suonare irritanti o meccanici. Una voce da una sola canzone, insomma, perché sciropparsi un intero album di Joan Jett significava il più delle volte rischiare un colpo di sonno, anche per colpa di una produzione generalmente ridotta all’osso, con arrangiamenti essenziali ed un sound scheletrico ed opaco che finivano per svilire un songwriting magari tutt’altro che malvagio, considerando che Joan ha avuto più volte come collaboratori nella stesura delle canzoni pezzi grossi come Desmond Child e Diane Warren. Come album tipo scelgo ‘Up your alley’, perché mi sembra quello dove il songwriting è in potenza più brillante, con un lotto di canzoni che se fossero state interpretate diversamente avrebbero avuto ben altra riuscita, invece… L’inizio, certo, è da infarto, con “I Hate Myself For Loving You”, che ha uno di quei refrain che si stampano indelebilmente nel cranio dopo il primo ascolto, l’ennesimo lampo di genio di Desmond Child impeccabilmente servito in forma di anthem, con il canto robotico di Joan che in questa situazione non è per niente fuori luogo: sono pochi accordi sapientemente miscelati, secchi e ritmati, che devono fare da tappeto per un ritornello geometrico e dondolante a cui vocalizzi troppo sofisticati toglierebbero impatto. Potremmo dire: la canzone che vale l’acquisto. Ma tutto il resto? “Ridin’ With James Dean” viaggia su un riff minimale, c’è qualche buona rifinitura di chitarra qua e là ed un ombra di sax che scivola su una melodia elementare. “Little Liar” è una buona power ballad scritta da Desmond Child con (ovvie) sfumature Bon Jovi, ma un arrangiamento un pelo più movimentato non sarebbe stato fuori luogo. “Tulane” è una cover di Chuck Berry tutto sommato abbastanza insipida, rock’n’roll con una pianoforte mixato così basso che probabilmente si riesce a sentirlo solo ascoltando in cuffia. Altra cover con la “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges: funziona meglio della canzone precedente perché l’andamento martellante ed ipnotico del pezzo si adatta benissimo alla vocalità di Joan, anche se della lascivia malata che Iggy Pop dava ai versi qui non resta molto. “I Still Dream About You” prosegue lungo la solita rotta, tre accordi e pedalare, e neppure ad un ritmo forsennato: arrivati a questo punto, già si comincia a sbadigliare… Per fortuna, ritorna Desmond Child a movimentare un po’ il quadro con “You Want In, I Want Out”: la melodia è un po’ più vivace, c’è qualche nota di tastiere ed un refrain anthemico (che però arieggia discretamente quello di “I Hate Myself For Loving You”, il buon Desmond non si smentisce mai…). “Just Like In the Movies” è un boogie Ratteggiante, abbastanza vivace e divertente, c’è perfino una sezione fiati (mixata bene in fondo, of course). “Desire” è invece una power ballad veramente soporifera nonostante il contributo di Diane Warren: Joan sembra poco più di un carillon, una bambola meccanica a cui hanno dato la carica, fredda, vuota, senza anima. “Back It Up” è infiocchettata di accordi grassi e bluesy, ha un andamento da danza guerriera ma si infiacchisce (tanto per cambiare) nel ritornello e la stessa musica si ripete sulla conclusiva “Play That Song Again”, che parte benino con le chitarre acustiche che ammiccano sul tappeto elettrico, sgonfiandosi nel refrain che viene risolto con la solita cantilena. Come abbia fatto Joan Jett a diventare una mezza leggenda, insomma, proprio non riesco a spiegarlo, eppure Rolling Stone continua imperterrita a includerla nella classifica dei cento più grandi chitarristi rock (una lista che ovviamente non comprende gente come Doug Aldritch, Steve Stevens o George Lynch). Joan sognava di diventare la nuova Suzi Quatro: ha avuto molto di più, e non mi pare proprio che quello che ha ricevuto in rinomanza e credito artistico se lo sia meritato.
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