recensione
Ci sono album che pur avendo avuto una grande importanza (in certi casi, una enorme importanza) per la storia del nostro genere, non vengono minimamente considerati dagli aficionados dell’AOR. Talvolta il contributo portato si riduce magari ad una sola canzone (l’esempio migliore che mi viene in mente sono i Police di ‘Synchronicity’: quanta parte dell’AOR ha trovato linfa vitale tra le note di “Every breath you take”?), in altri casi un disco intero è stato ascoltato e studiato con attenzione, certi suoi elementi o l’intera architettura è stata trasposta nel rock melodico e questo senza che i fruitori dell’AOR si siano mai resi del tutto conto di ciò che era successo. Uno dei casi più clamorosi di “cecità da etichetta” (chi ha letto il pezzo “appunti per una definizione dell’AOR” capirà cosa intendo, gli altri possono leggerselo adesso – se credono… – seguendo il link) è rappresentato da ‘90125’, uno stratosferico disco di rock melodico che però non viene registrato nei cataloghi degli album del nostro genere (provate a cercarlo sul catalogo per eccellenza, www.heavyharmonies.com: non c’è!). E questa mancata inclusione trova motivo nel monicker che sovrasta quel titolo numerico. È un disco degli Yes. Non sono stati gli Yes ad inventare il progressive rock, la paternità del genere va a King Crimson, Gentle Giant, Nice. Ma, assieme a Genesis ed ELP, gli Yes sono sicuramente stati del prog la band più celebre ed amata. Band che, dopo i trionfi degli anni ’70, molti avvicendamenti nella line up e tentativi non riuscitissimi di aggiornare il proprio sound in direzione pop, aveva gettato la spugna nel 1980, dopo quel disco strano e maldestro intitolato ‘Drama’, che li vedeva privi di Jon Anderson e Rick Wakeman, sostituiti da Trevor Horn e Geoff Downes (ovvero, i Buggles del successo planetario “Video Killed the Radio Stars”). Per due anni, gli Yes furono ufficialmente sciolti, i membri vecchi e nuovi impegnati a cercare fortuna attraverso carriere soliste o nuove bands e proprio da uno di questi tentativi (purtroppo abortito), che doveva chiamarsi XYZ e coinvolgeva il bassista Chris Squire, il batterista Alan White e sua maestà Jimmy Page (il monicker significava “Ex Yes and Zeppelin”), ricominciò tutto. Dopo che Robert Plant aveva declinato l’invito ad unirsi ai neonati XYZ, Jimmy Page aveva mollato i due ex Yes, i quali cercarono di tenere saldo il monicker entrando in contatto con Trevor Rabin, chitarrista sudafricano che aveva riscosso un discreto successo in patria prima con i Rabbit poi pubblicando una serie di album solisti. Dopo aver provato con gli Asia (in cui militava un altro ex Yes, Steve Howe), Rabin entrò negli XYZ, quel monicker era però ormai non molto coerente con la neonata band (non c’era più l’ex Zeppelin) e divenne Cinema. Chris Squire chiamò come tastierista un altro dei vecchi Yes, Tony Kaye (era stato il key player della prima line up, ma il suo posto era stato preso dopo appena un disco da Rick Wakeman), che dopo aver lasciato la band aveva militato nei Badger e nei Detective. Trevor Horn, con cui Chris Squire era rimasto in ottimi rapporti nonostante il fiasco di ‘Drama’, venne opzionato come produttore e, eventualmente, come cantante. Ma, ai primi del 1983, Jon Anderson si dimostrò molto interessato al materiale che i Cinema stavano registrando (quasi tutto composto da Trevor Rabin) e a quel punto (nonostante qualche incertezza da parte di Rabin) il nuovo monicker fu accantonato e gli Yes vennero ufficialmente resuscitati. ‘90125’ non era un titolo scelto per scherzo o mancanza di fantasia. La decisione di chiamare l’album semplicemente con il codice numerico che l’Atlantic gli aveva assegnato era un messaggio a suo modo molto esplicito. Gli Yes avevano rappresentato fino ad allora il lato più barocco e ridondante del prog, non a caso molte bands americane di pomp rock (la versione yankee e maestosa del rock progressivo) proprio a loro facevano riferimento. Pachidermiche ondate di tastiere e inestricabili ragnatele di chitarre ne avevano caratterizzato il sound fin dai tempi di ‘Fragile’ (1972). Ma con ‘90125’ tutto questo diventava passato, passato remoto. Gli Yes si rifacevano vivi con un suono essenziale, scheletrico pur nel sostanziale rispetto di una certa architettura che la band aveva messo a punto e poteva ormai definirsi classica. Non era un semplice mettersi al passo con i tempi, ma un lucido, geniale modo di cavalcarli: non un trapianto ma una vera e propria ibridazione con quanto nel rock e nel pop stava andando per la maggiore, un tuffo senza esitazioni negli anni ’80 che usava come trampolino tutto quanto di buono era stato fatto nei ’70, orchestrato dalla produzione altrettanto geniale di Trevor Horn. L’apertura del disco era una dichiarazione di intenti assolutamente perfetta. “Owner Of a Lonely Heart” parte con un riff secco, minimale, robotico, di chiarissima marca AC/DC, una sorta di negazione di tutto il chitarrismo delicato, sognante ed intricato dell’ex titolare della sei corde, Steve Howe. Le tastiere, anziché figurare tramite panneggi sontuosi e monumentali, fanno la loro comparsa attraverso flash rapidi e intermittenti, il refrain è cantato su toni alternativamente soffusi o gloriosi, dopo un bridge spettacolare Trevor Rabin si esibisce in un assolo lacerante, fatto di note tirate e violente. “Hold On” prosegue lungo la strada dell’hard rock melodico con una solennità quasi epica, un gran crescendo, chitarre che ruggiscono ed il solito refrain luminoso imbastito tramite raffinati impasti vocali. Esotici arpeggi di chitarra introducono “It Can Happen” che si sviluppa lungo un altro crescendo sublime, modulato tramite un perfetto intreccio di chitarre e tastiere camaleontiche: pura magia AOR che in un gioco inestricabile di specchi rimanda a Journey e Rush. E non sono i Toto quelli che sembrano spuntare dal refrain di quell’altro masterpiece intitolato “Changes”, tour de force che inizia con tastiere prog cupe e nervose a cui si contrappone una chitarra ora limpida ora rabbiosa, caratterizzato dalla duplice conduzione vocale di Jon Anderson e Trevor Rabin? Lo strumentale “Cinema” è un altro frammento esemplare del nuovo corso, poco più di due minuti di durata quando nel passato i brani senza voce potevano tirare avanti anche più di un quarto d’ora: avvincente, dinamico ed agile, con la chitarra prima classicamente prog poi ruvida e rockeggiante. “Leave It” ha addirittura un vago flavour rhythm and blues, è dominata dai raffinatissimi impasti vocali e spezzata da un bridge roboante. Su “Our Song” occhieggiano ripetutamente Journey e Toto e quel giro di tastiere è stato preso in prestito Dio solo sa quante volte (dai Danger Danger, per fare un solo nome). “City of Love” è un vero e proprio anthem, dura e martellante: Steve Plunkett deve sicuramente essersela studiata bene… “Hearts” chiude l’album con un ballad solare in crescendo, farcita di magnifici assoli di chitarra e tastiere, una certa solennità che si scioglie in un refrain semplice e melodico. Il riscontro ottenuto da ‘90125’ fu a dir poco faraonico: sei milioni di copie vendute (tre milioni nei soli Stati Uniti) e tour sold out che tennero impegnata la band per un paio d’anni (e fruttarono il bel disco dal vivo ‘9012Live’). Per chi vuol scavarne meglio la genesi, nel 2003, Trevor Rabin pubblicò a proprio nome ‘90124’, una raccolta che comprende demo, alternate takes e canzoni mai pubblicate registrate durante il periodo di pre-produzione di ‘90125’. Il successivo ‘Big Generator’ sposterà ancora di più l’equilibrio generale verso l’hard rock (la title track resta la canzone più violenta mai registrata dagli Yes), anche ‘Union’ (titolo grottesco, considerato che c’erano su quell’album due band – quella originale e quella di ‘90125’ – che suonavano rigorosamente separate: l’unico denominatore comune era la voce di Jon Anderson) e ‘Talk’ metteranno in mostra un più che discreto smalto AOR prima del ritorno a sonorità spiccatamente prog ed agli strumentali di venti minuti, una dimensione che si è rivelata only for fans, dato che i risultati in termini di vendite ottenuti da ‘90125’, ‘Big Generator’ (numero 15 su Billboard e oltre due milioni di copie vendute) e ‘Union’ (un milione e mezzo di copie negli USA) non sono stati neppure lontanamente raggiunti dai dischi successivi (‘Open Your Eyes’, tanto per fare un solo esempio, si piazzò su Billboard solo al numero 151 nel 1997). Alla base di questo passo indietro non c’era un calcolo commerciale, ovviamente, ma solo il desiderio di Jon Anderson ed i suoi vari compagni di viaggio (la line up degli Yes si è fatta da anni terribilmente ballerina, con continui addii e rientri di membri vecchi e nuovi) di riprendere un certo discorso musicale, senza quelli che dovevano essere stati vissuti come dei veri e propri compromessi con il neonato rock ottantiano. Ma ‘90125’ non è stato affatto un compromesso, tutt’altro: resta uno dei dischi di rock melodico più belli e influenti degli anni ’80, un capolavoro assoluto di songwriting e produzione che gli Yes non si sono mai sognati di rinnegare ed ha segnato indissolubilmente il nostro genere, anche se pare che pochi fans dell’AOR se ne siano mai accorti.
L’uomo delle colonne sonore. La voce rauca e intensa che ha risuonato su alcuni dei film più rappresentativi dell’estetica dei Big 80s. Per un po’, questo ruolo di voce fuori campo portò fortuna all’inglese trapiantato negli USA John Parr, regalandogli dei buoni hit single. Ma John, come altri quasi-protagonisti di quell’irripetibile decennio, commise l’errore di non operare mai una scelta di campo chiara e netta: il suo AOR era sempre indeciso tra il pop puro e semplice ed il rock nello stesso tempo duro e sofisticato. Era l’opportunismo cerchiobottistico di chi prova a farsi largo in tutti i mercati possibili o autentica indecisione sulla rotta da prendere? È innegabile che la strategia, per qualche tempo, dette i suoi frutti. Ma già alla fine degli anni ‘80, John Parr era catalogato fra i personaggi di seconda linea nelle liste idealmente compilate dagli uffici marketing delle majors. Il suo AOR de luxe non colpiva più la fantasia dei potenziali acquirenti come accadeva qualche anno prima, anche perché il mercato – e tutto il resto – cambiava in fretta. Se nel 1985 la sua “St. Elmo’s Fire” era stata il leit motive del film omonimo incentrato su un gruppo di giovani alla ricerca del loro posto nel mondo, nello stesso anno 1992 che vedeva l’uscita di ‘Man With a Vision’, la colonna sonora del film simbolo degli anni ‘90, “Singles” (in Italia, uscito col titolo idiota “L’amore è un gioco”), si rivolgeva a Alice In Chains, Mudhoney e compagnia brutta per ritmare le vicissitudini di un altro gruppo di giovani alla ricerca del loro posto in un mondo fattosi all’improvviso tetro e ostile. John Parr (e tanti altri come lui) non serviva più al cinema, e senza la promozione passiva operata dalle colonne sonore il suo nome finì per scivolare in un torpido grigiore, rotto da saltuarie comparse come attore di musical e brevi tour in patria a supporto di altri reduci dei Big 80s (ma anche ai bei tempi che furono, Parr rimase confinato al ruolo di supporting act, sia pure per artisti che in quel torno di tempo riempivano gli stadi: Tina Turner, Heart, Toto, Beach Boys). Alla fine, John Parr resta sempre quello di “St. Elmo’s Fire” (la canzone del film omonimo, e lo specifico perché c’è anche una band AOR che ha adottato – certo non casualmente – quel moniker), anche se il suo album migliore resta per me ‘Man With a Vision’, uscito sette anni dopo quel film, trascurato e poco considerato, nonostante con questo disco John Parr trovi finalmente la quadratura del suo cerchio personale, abbandonando le indecisioni per buttarsi a capofitto nell’AOR propriamente detto. Un album che uscì per una etichetta indipendente svizzera: eloquente segnale di quanto ormai Parr fosse tenuto in considerazione nel 1992 da chi governava la barca del mercato discografico. ‘Man With a Vision’ è impostato tutto su quel big sound americano che pare nessuno sappia o voglia fare ai nostri giorni, ha una sorta di imponenza, di grandiosità hollywoodiana, come se ogni canzone – nonostante tutto – fosse stata calcolata per diventare colonna sonora perlomeno di un videoclip, fin dal breve intro “Wilderness Years”, con quelle voci di personaggi storici che aleggiano sul tappeto strumentale, a cui fa seguito la title track, fascinosa e battagliera ma su cui le chitarre si sentono a malapena, un episodio praticamente di musica pop che per fortuna resta isolato nel contesto di un disco per il resto molto elettrico. “It’s Starting All Over Again” è il primo colpo da maestro, il sound prosegue sulla stessa falsariga di “Man With a Vision”, ma in un contesto sexy e notturno, con le chitarre bene in evidenza ed una melodia impagabile. “Restless Heart” (che nel 1987 fece parte della soundtrack del film ‘L’implacabile’) è ritmata da un synth bass, raffinata ed ariosa nonostante l’andamento galoppante. “Ghost Driver” è pura magia AOR, dove gli opposti si coniugano senza mai fare a pugni, una canzone che riesce ad essere sinuosa e potente, vellutata e tagliente, notturna e cromata, un perfetto connubio di forza ed atmosfera. “Bedtime Story” intreccia e fonde Journey, Van Stephenson, Huey Lewis ed i Loverboy con classe e sapienza, mentre su “Come Out Fightin’” aleggiano anche Survivor e Boulevard (questi ultimi sopratutto tramite un sax scatenato). I Journey tornano a fare capolino su “Everytime”, poi arriva il peso massimo del disco, “Killer on the Sheets”, ritmo formidabile, chitarre graffianti e nervose, ancheggiante ed anthemica con un bel solo di organo Hammond. Tempo di boogie con la grande “Dirty Lovin’”, che suona come dei Bad Company epoca ‘Holy Water’ più raffinati e cromati o un Chris Rea in versione AOR. Decisamente Foreigner suona la sublime “This Time”, che spara un refrain limpido e luminoso fra panneggi morbidi e provocanti. “Sarah” chiude con una power ballad davvero power, vibrante e intensa, che forse solo per caso ricorda parecchio l’omonima canzone degli Starship. Se c’è una cosa che la storia ci conferma implacabilmente è che con i trend non si ragiona né si può venire a patti, e in quel 1992, ‘Man With a Vision’ era non soltanto fuori dai trend dominanti, ma immerso fino al collo in una dimensione che l’industria musicale era impegnatissima a cancellare dalla faccia della terra assieme al ricordo dei Big 80s da poco tramontati e che fra queste canzoni baluginano ancora in tutta la loro arrogante, regale e spensierata magnificenza.
I contatti con gli Shy li avevo più o meno persi dopo ‘Misspent youth’, che li vedeva protagonisti dell’ennesimo cambio di direzione musicale, alle prese con un hard rock metallico e californiano dopo la gloria AOR del capolavoro ‘Excess all areas’. ‘Misspent youth’ vendette malissimo e costò alla band il contratto con la MCA (ma anche ‘Excess…’ non era andato proprio alla grande, al punto che un’altra major, la RCA, li aveva licenziati senza misericordia). Ricomparvero nel 1994 con ‘Welcome to the madhouse’, a cui sono seguiti altri quattro dischi, sempre contraddistinti da cambiamenti più o meno radicali nel sound, l’ultimo questo album autointitolato che li vede alle prese con un hard melodico che parla senza indecisioni la lingua dei Ten, in particolare quella dei primi tre album: l’impianto generale del sound, gli arrangiamenti straripanti, la grandeur nell’uso delle tastiere, gli interventi solisti di Steve Harris palesemente ispirati al chitarrismo di Vinnie Burns rimandano senza possibilità di equivoci alle prime cose della band di Gary Hughes. Non stiamo parlando di un semplice ricalco (che avrebbe molto del grottesco, considerando la quantità di ricalchi, prestiti e trapianti di cui è infarcita la musica dei Ten), piuttosto dell’esplorazione dei medesimi territori, di un esprimersi secondo quel certo registro. L’identità nel sound diviene quasi perfetta anche in virtù della voce del nuovo cantante (l’ex Phenomena Lee Small) che può essere descritto come un Gary Hughes più profondo, tecnico e potente. E allora, quando, dopo un intro sinfonico e solenne, irrompe l’hard rock guerriero ma melodico “Land of a Thousand Lies”, non puoi fare a meno di chiederti se questi sono gli Shy o se stai invece ascoltando un nuovo disco dei Ten. Il sospetto si fa ancora più forte con “So Many Tears”: intro fascinoso e quasi leggiadro su cui fa capolino prima una deliziosa frase di chitarra poi si abbatte un serratissimo e movimentato impasto di chitarre e tastiere spezzato da un assolo torrenziale: e quella frase di chitarra l’ho già sentita in una canzone dei Ten… che magari l’avevano a loro volta fregata a qualcun altro… Chiudiamo un occhio, anzi chiudiamoli tutti e due e andiamo a “Ran out of Time”, suadente, notturna eppure cromatissima e con una discreta vena melodica di marca Journey, avvolta in un bell’arrangiamento movimentato. “Breathe” è una power ballad arricchita da una sontuosa sezione d’archi, mentre “Blood on the Line” si rivela turbinosa e avvincente ed ha un refrain che vale un milione di sterline, ma anche “Pray” – potente, veloce e melodica – esibisce un bel ritornello, stavolta romantico e accorato nonostante il volume sostenuto della canzone. Un’altra power ballad di grandissimo spessore arriva con “Only for the Night”; “Live for me” – annunciata da un panneggio di archi palpitanti – è scandita da un chitarrone secco e imponente ed esibisce un refrain splendidamente Foreigner. Molto Journey è, invece, “Over You”, fatta di chiaroscuri intensi, con un magistrale intrecciarsi di linee melodiche. “Sanctuary” si apre con un sovrapporsi di tastiere, un’acustica tintinnante ed una chitarra elettrica che disegna una melodia struggente per poi incedere con un passo nello stesso tempo solenne e sensuale, zeppeliniano e grandioso secondo la lezione degli House of Lords, che si scioglie in un refrain suadente, con un assolo che potreste giurare è stato suonato da Vinnie Burns in persona. “Save Me” è un altro magistrale crescendo su base Journey e per concludere in coerenza, “Union Of Souls” porta dritta in territorio Little Angels, c’è la stessa scioltezza ritmica, la familiare matrice melodica scanzonata della band di Toby Jepson applicata ad un telaio Ten epoca ‘The Robe’: ed ho parlato di coerenza perché la maggior novità dell’ultimo Ten, ‘Stormwarning’, sta proprio nell’interesse mostrato da Gary Hughes per l’universo sonoro dei Little Angels in almeno un paio di canzoni. Sto recensendo un promo, la Escape nella bio si profonde in note biografiche ma l’aspetto tecnico è ridotto al nome del produttore (Andy Faulkner), ed al mixer (Simon Hanhart), e allora, se assieme agli Shy si fosse messo al lavoro come songwriter proprio Gary Hughes (tutto è possibile) non avremmo più alcun motivo di meravigliarci di questa vera e propria conversione al sound dei Ten. E se avessero fatto invece tutto da soli? Insomma, un po’ di meraviglia resta, ma quel che conta è che il disco è veramente buono, e tutti quelli che hanno amato 'The Name of the Rose’ o ‘Babylon’ non potranno non accoglierlo con immenso piacere, fregandosene del moniker che lo sovrasta. Intendo: se pure gli Shy vi piacciono punto o poco (quali Shy, oltretutto? Quelli di ‘Excess…’ o ‘Misspent…’?), questo disco autointitolato degli Shy non ha praticamente niente, urla “Ten!” a più non posso, ed è a quella band che dobbiamo riferirci per poterne calibrare l'ipotetico gradimento. Ed io, che dei Ten sono senza mezzi termini un fan, ‘Shy’ l’ho gradito moltissimo.
Per il sottoscritto, il primo ascolto di un album è sempre una sorta di esperienza traumatica, particolarmente scioccante se si tratta del disco di una band di cui conosco la produzione a menadito. Solleva una scatenata sarabanda di stati d’animo, raramente positivi, ma temperati dalla ormai consolidata consapevolezza che le impressioni di quel primo ascolto non sempre saranno confermate dai successivi. In linea di massima, raramente mi è capitato di venire travolto da un disco al primo passaggio (due eccezioni notevoli sono stati gli Whitesnake di ‘Slip of the tongue’ e ‘Good to be bad’), più spesso – molto più spesso – mentre mi levo le cuffie e ripongo il CD e spengo lo stereo, è tutto un rimuginare, a volte perplesso, altre indeciso. È buono, interessante, è eccellente, fa schifo… Nove volte su dieci, tutto è rimandato all’ascolto successivo, e magari a quello dopo, quando tutto si fa più chiaro (più o meno) nella mia testa. Il primo ascolto di ‘Big Money’ mi ha lasciato deluso non per quanto avevo sentito, piuttosto per tutto quello che mancava e invece mi aspettavo di trovare. Rinnovato il sodalizio con Mark Baker, credevo che James Christian avrebbe continuato sulla (buona) strada di ‘Cartesian dream’. E lo ha fatto, ma con un distinguo che alle mie orecchie è suonato molto significativo: non c’è qui traccia dell’hard melodico festaiolo e divertente di canzoni come “Born to be your Baby” e “Bangin’”. Non che ‘Big Money’ sia un disco serioso, tutt’altro, ma quella componente party oriented che era stata secondo me la novità più piacevole di ‘Cartesian…’ qui manca del tutto. Canzone dopo canzone, ascoltavo ‘Big Money’ aspettando (e sperando) di sentirla comparire, e quando mi rendevo conto che in quel determinato brano mancava, dopo il disappunto scattava l’attesa per quello successivo, questo sarà nello stile di “Repo Man” o “Saved by the Rock”, pensavo, e invece… In definitiva, più che ascoltare, attendevo. E poiché l’attesa è stata vana, la prima impressione che ‘Big Money’ mi ha dato è stata di vuoto. Quello che speravo ci fosse non c’era. Se avessi dovuto fare una recensione dopo quella prima presa di contatto, quasi non avrei saputo che scrivere. Il disco mi era scivolata addosso come acqua sulla pietra. Ho dovuto aggiustare le mie coordinate mentali per sentirlo veramente. Alzare un muro davanti a ‘Cartesian dream’, evitando paragoni e confronti. Ed ho scoperto un gran bel disco. Il songwriting è più scintillante che mai, e non è certo un caso, tutte e dodici le canzoni portano la firma di Mark Baker, mica quella di un qualsiasi svedese del cazzo… ‘Big money’ è un album di hard rock melodico americano al top e il fatto che sia meno party oriented di ‘Cartesian dream’ non ne diminuisce certo il valore, addirittura la continuità nel songwriting è superiore rispetto al disco precedente, non ci sono pause né divagazioni, tutto scorre fluido, lucente e compatto come un fiume di metallo fuso, il primo getto è la title track, con il suo class metal al solito sfarzoso e spettacolare, “One Man Down” parte con un’acustica western, scivola attraverso un riff zeppeliniano ed un refrain sinuoso, “First To Cry” è un dinamico hard melodico che esibisce un altro bel ritornello, “Someday When” riesce ad essere nello stesso tempo leggera e drammatica, sopratutto in grazia delle azzeccate linee vocali, sontuosa e molto Journey. “Searchin’” è uno strepitoso mid tempo cromato, flessuoso ed elettrico, “Livin’ in a Dream World” è invece turbinosa e barocca, molto Rainbow (anche troppo, la somiglianza con “Gates of Babylon” è addirittura sfacciata), con un refrain che alleggerisce decisamente il clima pomposo ed un assolo totalmente alla Blackmoore di Jimi Bell. Buona la power ballad pianistica “The Next Time I Hold You”, grandissima “Run for Your Life”, arena rock spettacolare, agile e roboante. “Hologram” ha una magnifica estensione melodica ed un refrain stuzzicante, forse il top del disco. “Seven” è un bel metal californiano ben lubrificato dagli impasti vocali e dalle tastiere, “Once Twice” è urgente, serrata, con un altro eccellente refrain e chiude la vampiresca “Blood”, ancora metal losangeleno, notturno e insinuante con un ritornello molto Def Leppard. Alla fine, l’unica causa di frizione aurale (prendo in prestito l’espressione dal critico jazz Gianfranco Salvatore) sta nella qualità audio che in più di una circostanza avrebbe potuto essere migliore (le tastiere sopratutto hanno spesso un suono fangoso e qua e là spunta in sottofondo un fruscio che fa tanto analogico). Considerata la registrazione casalinga (i Her’s Majesty’s Music Room Studios di West Palm Beach non sono altro che il soggiorno o il garage della casa di James e Robin Beck) il risultato finale è comunque buono, ma non posso fare a meno di chiedermi perché il disco della sua signora, James lo abbia fatto registrare in uno studio vero (con conseguente, alta qualità audio) mentre il suo lavoro si sia accontentato di inciderlo a casa (qualche maligno potrebbe dare la risposta: perché aveva finito i soldi…). ‘Big money’ resta comunque uno dei più bei dischi di hard melodico dell’anno che si avvia alla conclusione, imprescindibile per chi continua a ritenere che l’AOR migliore arriva sempre e comunque da oltreoceano.
Un’altra lost gem? Non del tutto. Una lost gem, per essere veramente tale, dovrebbe essere conosciuta e apprezzata solo da un ristretto numero di amatori. Ma questo unico album degli Aviator è stato fin dalla sua uscita nel 1986 osannato da pubblico e critica. Se ne sai appena appena di AOR non puoi non aver sentito parlare degli Aviator e del loro solitario capolavoro. E dunque, come si spiega che il disco sia finito quasi immediatamente fuori catalogo e la band abbia sempre fatto la fame, sciogliendosi per disperazione quando un secondo, eccellente demo venne snobbato anche dalle case discografiche più pulciose? E' andata così perché, tra il dire e il fare c’è di mezzo il portafogli. Voglio dire che tutti parlavano bene di questa band, si sbrodolavano in incensamenti ed elogi, ma quando si trattava di spendere un po’ di dollari per comprare il benedetto disco… be’, evidentemente c’era sempre qualcosa di più importante o urgente su cui investire i soldi, tipo far lavare la macchina, andare a vedere un film intellettuale come “Rocky III” o prenotare i biglietti dell’ultimo concerto degli AC/DC. È la stessa, identica cosa successa a (tanto per fare solo tre titoli) ‘Tough it Out’ degli FM, a ‘Excess all Areas’ degli Shy, a 'Land of the Gun' dei Legs Diamond: grandi dischi di cui tutti cantavano le lodi ma che nessuno si sognava di comprare. Quanti poi fra quelli che tornivano frasi ad effetto per magnificarli li abbia realmente ascoltati, mi piacerebbe davvero saperlo. Se ‘Tough it Out’ è stato per anni fra i forati e dunque era reperibile – ed a prezzo vile – ‘Aviator’ per molto tempo è scomparso dalla faccia della terra. Ristampato finalmente nel 1997 dalla Escape su CD, è svanito ancora una volta e pare che nessuna label si voglia scomodare a proporlo in una nuova edizione… forse perché anche quella ristampa la Escape faticò a venderla? Meglio allora andare a ripescare i Melidian o far incidere l’ennesimo album a Gary Barden… Gli Aviator nascevano dalle ceneri dei Network: non la band del disco fantasma ‘Crashin’ Hollywood’ ma un gruppo pop di non grande successo che incise due album prima di sciogliersi. Nei Network militavano Richie Cerniglia (chitarre) e Michael Ricciardella (batteria): arruolati il singer Ernie White ed il bassista dal buon curriculum (Eddie Money, John Cougar, James Brown, Bruce Springsteen) Steve Vitale, firmarono per la RCA ed entrarono in studio con il producer de luxe Neil Kernon. L’album che venne fuori da queste sessions era un eccelso trattato di AOR hard edged che con puntualità non ripagata dai risultati pratici (leggi: dischi venduti) si poneva all’avanguardia del nuovo trend che dall’ Adult Oriented Rock voleva volumi più alti e meno tastiere. “Front Line” si sviluppava in un arena rock dal refrain energico e molto Survivor, “Back on the Street” era festaiola, californiana, decisamente Autograph, mentre “Don't Turn Away” riprendeva temi cari agli Starz attualizzandoli in chiave AOR. “Wrong Place Wrong Time” era una magnifica scheggia di big sound con i muscoli che sfociava in un ritornello pop alla Loverboy; “Never Let the Rock Stop”, un super anthem dove Ernie e soci suonavano come degli Autograph più ruvidi e secchi, e l’apprezzamento per la band di Steve Plunkett prosegue con “Come Back”, basata su un bel riffone serrato eppure melodica e ariosa. La melodia patinata di “Magic”, tra Loverboy e Survivor, precedeva “Can’t Stop”, veloce ed agile (e ancora debitrice a Jim Peterick e compagni). I Loverboy avrebbero certamente firmato con orgoglio “Too Young”, bella tosta eppure sinuosa, con quel refrain e le tastiere deliziosamente pop, idem come sopra per l’altrettanto irresistibile “Every Schoolboy Knows”, col suo ritmo robotico e l’ennesima spruzzata di Autograph, mentre c’era un po’ di Journey nell’AOR di “Through the Night”, anthemico e spettacolare pur nella squisita semplicità del ritornello. Le due bonus track contenute nella ristampa del 1997 erano stata prelevate dal demo già citato, “Woman in Love” era un favoloso metal californiano molto Ratt, diretto e melodico, condito di qualche sfumatura bluesy, mentre “Holding On”, lenta, notturna, d’atmosfera, era un altro grandissimo momento ispirato ai soliti Autograph. Nel 1998 (mi pare) venne pubblicato come bootleg un disco intitolato ‘Second unreleased’, composto da una dozzina di canzoni prelevate da quel demo di cui abbiamo già detto, che Dio solo sa perché non riuscì a garantire un nuovo deal ad una band che certo non diceva molto di nuovo, ma aveva un songwriting brillante ed ispirato e ci ha dato un disco da accogliere col tappeto rosso in una ideale hall of fame dell’AOR.
Neanche stavolta ai Nickelback è riuscito di far breccia nelle simpatie degli aficionados più generalisti di musica rock del nostro paese. ‘Here and now’ ha fatto capolino nella classifica solitamente attendibile di Sorrisi & Canzoni al numero 20 e dopo una sola settimana è svanito. La critica lo ha massacrato. E non solo quella trendy, che non ha ancora perdonato alla band la svolta cominciata con ‘The long road’ verso territori caratterizzati da una minor rudezza sonora, ma anche una parte non indifferente di quella specializzata. Le accuse a Chad e compagni sono state del più vario tenore, spaziando da una generale inefficacia del songwriting a strane lagnanze circa una durata troppo breve di ‘Here and now’ che trovo assurde, sopratutto quando vengono da persone che spesso e volentieri si lamentano del fatto che nell’era del CD gli album hanno l’obbligo di durare un’ora o giù di lì e gli artisti li imbottiscono di filler. Naturalmente, i Nickelback se ne possono fregare allegramente sia delle critiche negative che della poca attenzione rivoltagli nel nostro paese. Nel Nord America vendono dischi a camionate e i tour sono sempre sold out, e non saranno certo un po’ di stroncature biliose a fermare la loro corsa. A me, ‘Here and now’ è piaciuto, e tanto. È la naturale prosecuzione di ‘Dark horse’, ormai tutto l’universo melodico dei Def Leppard è stato assorbito e metabolizzato dalla band, diventando parte integrante del loro sound in maniera sottile e quasi impercettibile, anche se l’apertura di ‘Here and now’ è affidata ai riffoni stoppati ed ai ritmi da techno dance di “This Means War”, e vi piaccia o no l’idea, anche questo è hard melodico, ed un hard melodico dannatamente efficace. Riflessi della band di Joe Elliot arrivano invece da “Bottoms Up”, facendosi largo tra un riffone monolitico e ritmiche quanto mai abrasive ed un assolo acido ed effettato. “When We Stand Together” è la prima ballad, elettroacustica, suggestioni country folk, un ritmo fantastico ed una melodia strepitosa. “Midnight Queen” è violenta e convulsa ma anche scanzonata e allupata, questo è il party rock del ventunesimo secolo, “Gotta Get Me Some” non è da meno, un incrociarsi fenomenale di riff stoppati e funkeggianti con un ritmo incalzante ed irresistibile e la melodia che trova spazio nel ritornello. Un’altra power ballad arriva con “Lullaby”, un pianoforte le dà un’atmosfera a tratti addirittura leggiadra. Di “Kiss It Goodbye” posso dire questo: se i Ratt avessero osato di più sul loro recente ‘Infestation’, questa canzone avrebbero potuto firmarla loro: una grande scheggia di metal californiano in versione Nickelback. “Trying Not To Love You” è una ballad perfetta nella sua semplicità con quelle melodie in assoluto equilibrio fra passato e presente del rock, ma anche “Holding On To Heaven” incanta con nitide tentazioni AOR che la spingono fino ad altezze siderali. “Everything I Wanna Do” propone ancora una bella scansione ritmica su un tessuto elettrico che è l’unico ricordo delle mestizie in passato tanto care alla band, e chiude “Don’t Ever Let It End”, una piece elettroacustica e distesa, dove i Nickelback possono dichiarare tutta la loro prima insospettabile devozione ai Def Leppard senza il minimo imbarazzo. Adesso forse sarà più chiaro perché questo disco non è andato giù a tante persone. Che fine hanno fatto i Nickelback cupi e mortiferi dei primi dischi, quelli che cantavano di umiliazioni, suicidi, amici in O.D., figli abbandonati, amori rifiutati o andati in malora, rockstar trucidate? Anche i testi delle loro canzoni hanno oggi una leggerezza strafottente e divertita, mentre le ballad hanno acquistato un sereno lirismo prima sconosciuto ad una band che solo i più ottusi conservatori possono rifiutarsi di considerare a pieno titolo una delle più belle realtà del rock melodico.
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