Chissà perché il ritorno discografico dei Foreigner è passato praticamente inosservato, quasi in sordina. Anche il tono delle recensioni è stato curiosamente dimesso, qualcuno si è addirittura lamentato del fatto che il disco non era abbastanza heavy, neppure ‘Can’t slow down’ portasse sopra il moniker degli Iron Maiden… A me, questo disco è piaciuto moltissimo, e mi spiace di non avervene riferito tempestivamente, ma con le band più celebri penso sempre di potermela prendere comoda, i Foreigner non hanno certo bisogno di me per vendere dischi, se la recensione non sarà oggi sarà domani, poi il tempo passa, e un giorno mi accorgo (anche tramite la sveglia datami dal sempre cortese Lorenzo) che sono passati due anni e ancora nessuna traccia su AORARCHIVIA della recensione di ‘Can’t slow down’, e che tutto sommato le mie chiacchiere avrebbero potuto venire in soccorso di un disco che non ha riscosso il successo meritato, nonostante l’alta qualità del materiale presentato ed i bonus offerti (non proprio principeschi, dopo tutto: uno striminzito best of – appena dieci canzoni – e un DVD live). I riflettori, naturalmente, erano tutti puntati su Kelly Hansen, che ha pensato bene – anche in virtù delle notevoli affinità vocali – di presentarsi in veste di controfigura canora di Lou Gramm. Kelly aveva esibito un discreto camaleontismo già in passato, replicando alla perfezione o quasi il modo di cantare di Mark Free durante il suo breve passaggio negli Unruly Child, e anche stavolta la clonazione è totale, tutto lo spettro vocale di Lou fatto di toni profondi e quasi ansimanti ed acuti laceranti è riproposto da Kelly con una fedeltà impressionante. Certo, non so quanto possa essere lusinghiero per un cantante – sopratutto un cantante della bravura di Kelly Hansen – venire giudicato favorevolmente per l’imitazione che fa di qualcun altro, ma se lui si è prestato al gioco, è chiaro che la cosa non deve dargli (troppo) fastidio. Il sound di ‘Can’t slow down’ è quello classico della band con qualche piacevole variazione, sopratutto negli arrangiamenti della tastiere, la produzione di Marti Fredericksen è semplicemente stellare. La title track apre come tradizione con un bel riff secco ed un clima rovente temperato dal refrain fatto dei soliti chiaroscuri fascinosi, mentre “In Pieces” è morbida, struggente senza essere lagnosa, con appena qualche accenno moderno. Il ricco capitolo ballads viene aperto dalla super “When It Comes To Love”, con le sue belle rifiniture di sax, “Living In A Dream” è classicamente Foreigner nel riffing e nelle melodie ma con un gusto particolare nel refrain, grazie sopratutto all’inedito arrangiamento della sezione fiati. Di nuovo ballad con la magnifica “I Can’t Give Up”, intensa, orchestrale, poi “Ready” e “I’ll Be Home Tonight” sparano due schegge di big sound per ricordarci da chi i Giant hanno imparato la lezione. Cambio di atmosfera con “Give Me A Sign”, stratosferico, caldissimo rhythm ‘n’ blues con la sua vena anni ’70 e sulla stessa falsariga ma salendo a vette ancora più elevate esplode “Too Late”, questa canzone sembra venire dai tempi di ‘Head Games’, una chitarra rovente che imperversa tra gli ottoni ed un piano martellante e Kelly che spara un refrain deliziosamente cool. Più avventurosa “Lonely”, con il suo gusto british che ricorda un po’ i Little Angels (quelle tastiere così imponenti senza essere pompose) e qualche spunto moderno. “As Long As I Live” è una power ballad dalla bellezza accecante, con quel refrain luminoso che veleggia su un tappeto tenero e malinconico interrotto da un bridge drammatico, mentre “Angel Tonight” – ruvida al punto giusto – si impenna nei territori dell’hard melodico, regalandoci un altro refrain sensazionale. Chiude “Fool For You Anyway”, che impasta soul e rhythm ‘n’ blues, suadente ma tramata da improvvise sferzate di energia. Insomma, ‘Can’t slow down’ è un signor disco e se non ha avuto i riconoscimenti che merita ciò è accaduto solo in virtù dello stato confusionale che regna ormai da anni tra i fans dell’AOR, intossicati dagli scadenti prodotti teutonici e scandinavi che consumano in quantità industriale al punto di non saper più distinguere tra le cose buone e quelle molto meno buone, tra i prodotti originali e quelli riciclati, dando un credito esagerato a chi non se lo merita e snobbando assurdamente chi invece ha fatto e continua a fare la storia del nostro genere.
Voi comprereste un disco che conoscete e possedete già per cinque undicesimi? Io, no. È per questo che del primo album di questa band, ‘Metallic Blue’, non posso riferirvi. Mike Slamer ha certo il sacrosanto diritto di incidere per sé le canzoni che ha scritto per altre band, ma io non ho nessun dovere di ricomprarmele. E dato che cinque canzoni di ‘Metallic Blue’ compaiono su album di House Of Lords, Wall of Silence, Hardline e Tower City in mio possesso, negarmi l’acquisto di quel disco non era poi un’idea del tutto balzana. Il successivo ‘Slaves of the New World’ era fatto solo di materiale inedito, ma saltai anche quello, se per distrazione o scelta economica (non si può comprare tutto) onestamente non me lo ricordo. Mi venne in soccorso Paolo, era l’epoca in cui ci scambiavamo dischi cercando di sorprenderci a vicenda con album che ciascuno supponeva avrebbe fatto gridare l’altro al miracolo, se ricordo bene io gli sottoposi i Tattoo Rodeo del primo disco e lui in cambio mi elargì ‘Slaves of the New World’. Con la chiusura della MTM che lo aveva pubblicato, questo disco divenne praticamente una rarità, fino alla ristampa l’anno passato della Escape, che lo ha riedito assieme a ‘Metallic Blue’, l’opera omnia degli Steelhouse Lane riunita per i posteri. Pare che la band si sfasciò per dissapori tra Mike e il cantante Keith Slack, dopo vennero i Seventh Key ed un disco solista e tanta musica scritta per il cinema e la TV, per i songwriter come Mike Slamer è diventato lo sbocco privilegiato (chiedetelo a Tim Feehan, Steve Plunkett, Stan Bush o Jeff Paris), una strada che comunque era già stata imboccata dopo la chiusura dell’esperienza Streets (la band che Mike aveva messo su con Steve Walsh e Billy Greer) a fine anni ’80. È sicuramente il songwriting il punto forte di questo disco, anche se il suo procedere a balzi tra atmosfere a volte antitetiche può lasciare un po’ spiazzati, manca la fluidità che un bel lavoro di produzione avrebbe sicuramente dato a tutto questo materiale impeccabilmente registrato. Questa discontinuità ha il suo picco su “Son Of a Loaded Gun”, che suona come due canzoni diverse appiccicate e malamente intrecciate, voglio dire che ci sono due temi melodici che si alternano tra le strofe ed il ritornello, entrambi molto suggestivi ma totalmente estranei l’uno all’altro: un malinconico tappeto fatto di chitarre acustiche e pianoforte, molto southern rock alla maniera dei primi Tangier, su cui esplode un refrain duro ed elettrico con delle tastiere pomp molto House of Lords o Tattoo Rodeo, e il problema è che tra strofe e ritornello non c’è assolutamente consequenzialità: separati, sono tutti e due eccellenti; ma messi assieme stridono e fanno a pugni: addirittura l’assolo suona slegato da entrambi. Anche “All or Nothin’” soffre di una certa dicotomia, con il suo bel tessuto hard blues insinuante e notturno tra Dirty White Boy e Badlands a cui viene appioppato un refrain molto melodico e californiano degno degli Warrant. “Give It All to Me” è deliziosamente zeppeliniana secondo la lezione degli Whitesnake, con Keith Slack che planteggia con grande classe, “Find What We’re Lookin’ For” vira negli spazi dell’AOR più arioso e melodico, con il coro un po’ Alias forse un filo troppo pomposo. Diving For Pearls e Tall Stories ispirano “Turn Around”, un magnifico intrecciarsi di chitarre lente e affilate, fascinosa e notturna, con un refrain enorme, mentre “Slaves of the New World” è un hard serrato, geometrico e high tech che rappresenta un vero e proprio tributo alle stesure più originali della Manfred Mann’s Earth Band. “All I Believe In” è preceduta da un lungo, magico intro di chitarra elettrica, una power ballad romantica e seducente; “Into Deep” ci porta sulle spiagge della California tramite un metal molto Ratt a cui segue l’ennesimo cambio di scenario dato che “The Nightmare Begins” si rivela un heavy metal classicheggiante e drammatico, con tanto di sezione d’archi che scandisce il tema della “Last in Line” di Ronnie James Dio. “Seven Seas” fa l’ennesima brusca sterzata, ricorda tanto i Tyketto del primo disco, nello stesso tempo ruvida e melodica, anche la conclusiva “Where Are You Now” guarda alla band di Danny Vaughan ma aggiungendo una bella tranche di big sound alla maniera dei Giant. Personalmente, non ho mai apprezzato molto i dischi dove non si riesce a vedere un filo conduttore e si procede saltabeccando da un genere all’altro, ‘Slaves of the New World’ fa eccezione sopratutto per l’altissima qualità del songwriting e il chitarrismo veramente accattivante di Mike Slamer: un album raccomandato caldamente a tutti.
P.S. Questa recensione è dedicata a Paolo, che l’aspettava da molto tempo.
Ancora una band italiana (almeno a maggioranza) alle prese con l’AOR, e di nuovo sotto l’egida di una label tedesca. Strani misteri dell’industria discografica: l’italiana per eccellenza, la Frontiers, ha un catalogo imbottito di band tedesche, la tedesca Avenues of Allies pubblica in prevalenza gruppi italiani e svedesi (e la Escape svedese non disdegna gruppi americani o canadesi…). La globalizzazione colpisce ancora, e non in maniera spiacevole, dato che ci porta opere interessanti come questa dei Lionville. Che, almeno se devo giudicare dalla bio fornitami, è più un moniker che una vera e propria band, un progetto messo in cantiere dal chitarrista, cantante e – sopratutto – songwriter Stefano Lionetti, che ha messo assieme una notevole pattuglia di personaggi più o meno noti per incidere queste undici canzoni che ci portano nei territori dell’AOR ultramelodico e vellutato. La produzione è spettacolare, il lavoro di Alessandro Del Vecchio dietro il banco del mixer è ormai una garanzia, la qualità audio pareggia le migliori produzioni del bel tempo che fu di gente come Ron Nevison o Richie Zito, la band fa impeccabilmente il suo dovere (Lars Säfsund dei Work of Art dietro il microfono, Del Vecchio alle tastiere e Pierpaolo Monti alla batteria, e poi Bruce Gaitsch, Mario Percudani, Andrea Maddalone, Tommy Denander e Sven Larsson alle chitarre, Anna Portalupi e Amos Monti al basso), le canzoni funzionano… Ce n’è a sufficienza per sperare in una nuova onda che porti il nostro paese a prendere quel testimone che da troppi anni è in mano ai crucchi, perché se c’è qualcosa che tutte queste nuove band (qualche nome: 8is, Myland, Wake Up Call, Danger Zone) stanno dimostrando è che dalle nostre parti facciamo un AOR decisamente superiore a quello che si suona a Berlino o a Stoccarda, se ne sono resi conto anche i mangiacrauti stessi che snobbano i propri connazionali per pubblicare i parti delle nostre bands. Certo, yankees e canucks stanno sempre su un altro pianeta, ma dal nord america i dischi arrivano col contagocce e quelle poche stille non bastano a soddisfare la nostra sete di rock melodico. Che viene alleviata dai Lionville sopratutto perché questa band si esercita proprio sulla materia dell’AOR americano più patinato: inizia alla grande con “Here By My Side” che impasta Journey e Toto nel segno dei Boulevard; prosegue su questa falsariga con “With You”, più dinamica e magari anche più Journey, segnata da un bell’assolo diviso tra chitarra e tastiere; ci conduce nei territori dell’AOR più soft con “Centre of My Universe”, con i suoi tocchi funky ed il refrain raffinatamente rhythm and blues, il tutto un po’ alla Michael Thompson Band; ingrana la quarta con la decisamente Survivor “Thunder in Your Heart” (praticamente una cover, dato che fu già interpretata da John Farnham per la colonna sonora di un film degli anni ’80); spara una super ballad intitolata “The World Without Your Love” (scritta da Bruce Gaitch e Richard Marx), su cui aleggia il fantasma dei Bad English; impone un classico riff pulsante alla linea melodica molto suggestiva di “Power of My Dreams”; insegue ancora i Bad English tramite la squisita “No End in Sight”; cambia passo tramite “The Chosen Ones”, imponente ma dinamica ed elettrica, gran spiegamento di keys d’atmosfera ma nient’affatto eteree che vanno a disegnare un bel coro pomp (qui, Lars Säfsund duetta con la cantante mascelluta degli Alyson Avenue, Arabella Vitanc); propone un’altra tranche melodica dal refrain vincente con “Over and Over Again”; lascia spazio ad un bello sfogo solista di Alessandro Del Vecchio al centro di “Dreamhunter”; conclude con “Say Goodbye”, un intreccio di acustiche e tastiere nello stile del miglior Mitch Malloy. Per chiudere bene questo pezzo ci vorrebbe uno di quegli slogan tamarri in voga nei Big 80s, tipo: support italian AOR; oppure: italian AOR rules. Ma i Lionville, e la nascente scena di casa nostra, non si meritano un finale così squallido…
Bello. Senza mezzi termini, senza “se” e senza “ma”. Il primo lavoro solista di Rob Moratti è un disco formidabile, stratosferico, la cosa più bella nell’ambito dell’AOR tout court che il 2011 ci abbia dato fino ad ora assieme al nuovo Journey. Francamente, non mi aspettavo da Rob un lavoro di tale caratura. Forse è stata l’esperienza con i veterani Saga – di cui assunse la leadership vocale nel 2009 con l’album ‘The Human Condition’ – a farlo crescere tanto come songwriter (e produttore), forse ha inciso il contributo di giganti come Reb Beach (autore di quasi tutti gli assoli di chitarra) e Tony Franklin, resta il fatto che ‘Victory’ ha rappresentato una gradevole sorpresa, un disco spettacolare ed emozionante, abbastanza lontano dal pomp muscolare dei comunque ottimi Final Frontier. Gli echi di quell’esperienza (e di quella più recente con i Saga, naturalmente), non mancano, sopratutto grazie alla vocalità ipermelodica di Rob, che si è fatta col tempo più equilibrata, meno esasperata rispetto al sodalizio con Mladen (a volte, non si può negarlo, pur rimanendo sempre impeccabilmente intonato, Rob ci dava un po’ troppo dentro con gli acuti), echi molto consistenti sopratutto nell’iniziale “Life On The Line”, che è introdotta da una sequenza di percussioni secca e moderna a cui fa seguito uno splendido riff pulsante e spezzato su cui si innalza il refrain pomposo in un bel crescendo drammatico. “Everything But Good Bye” parte invece con un fraseggio di chitarre heavy metal che sbocca in un tappeto di keys vellutate su cui scivola la melodia AOR, mentre “Lifetime” si rivela per una power ballad dal telaio molto Def Leppard su cui Rob imprime autorevolmente il sigillo della propria vocalità. “Power Of Love” è classicamente e splendidamente Journey, sopratutto nell’arrangiamento delle tastiere e nei delicati tocchi prog del bridge. Cambio di passo con l’immensa “Hold That Light”, una sorta di pomp moderno, agile e dinamico, segnato dall’intreccio tra keys pulsanti e chitarre sempre molto potenti, con un assolo magistrale che parte metal e ringhioso diventando blues e suadente. Anche la successiva “On And On” entusiasma, un hard melodico che alterna sciabolate di chitarra e Hammond a parti funky e ritmate, con un coro melodico che si libra su un disegno geometrico di tastiere ed un grandissimo assolo finale dove Reb Beach rende omaggio a Jimmy Page. “Take It All Back” è una ballad elegante ed elettroacustica su cui Reb Beach ripropone in maniera impeccabile il chitarrismo di Neal Schon, la fantastica “I Promise You” ci porta nei territori del big sound più vellutato alla maniera dei primi Danger Danger, “Standing On The Top Of The World” è dinamica e suadente nella stessa misura, perfettamente bilanciata tra chitarre e tastiere, con un refrain delizioso. Ancora un grande crescendo in “Jennie”, splendente stesura di pomp robusto ed elettrico, prima del finale rappresentato da “Now More Than Ever”, ballad pianistica, romantica senza eccessi zuccherosi. Detto che resa fonica e produzione sono su altissimi livelli, non mi resta che consigliare caldamente a tutti l’acquisto di ‘Victory’, un album sicuramente destinato ad essere ricordato come uno dei masterpieces dell’annata in corso.
Tanti conoscono questo signore solo perché il suo nome figura tra i songwriters di ‘Time to burn’ dei Giant… Van firmò quattro canzoni assieme a Dan Huff e compagni nel 1992, quando la sua avventura in ambito AOR si era già conclusa da sei anni. Aveva cominciato con il country, scrivendo per superstars come Crystal Gayle e Kenny Rogers, poi c’era stata la breve parentesi rock, due favolosi album, il primo nel 1984, ‘Righteous Anger’, che ebbe un discreto successo (numero 54 su Billboard), il secondo e migliore ‘Suspicious Heart’ uscì nel 1986 ma per chissà quale motivo venne ignorato dal pubblico e Van tornò al country, sempre come songwriter prima di unirsi ai Blackhawk, riagguantando i piani alti delle classifiche con questa band prima che un cancro lo uccidesse nel 2001, ad appena 46 anni. Assistito da una backing band galattica (Dan Huff e Michael Landau alle chitarre, Alan Pasqua alle tastiere, Mike Baird e Dennis Belfield come sezione ritmica più contributi minori di altri personaggi di spicco fra i session man della scena di Los Angeles), con la produzione de luxe di Richard Landis, Van Stephenson realizzo con ‘Suspicious Heart’ un prodotto di valore assoluto nell’ambito dell’AOR di metà anni ’80: se non ottenne i giusti riscontri, questo si dovette sopratutto alle politiche suicide della MCA, sempre insofferente ad offrire ai propri artisti un minimo di promozione (pensate solo ai Boulevard di ‘Into the street’). “We’re Doing Alright” è un perfetto brano d’apertura, con il suo flavour di rock mainstream trasposto nella dimensione dell’AOR, mentre “(We Should Be) Together Tonight” parla la lingua del miglior Bryan Adams. L’atmospheric power regna sovrano sulla title track, con il suo gioco impeccabile di chitarre e tastiere su cui si innalza una melodia suadente eppure accorata, e “Confidentially Yours”, che esibisce un refrain pop rock di chiara marca Billy Squier. “Never Enough Night” e “Desperate Hours” sono immense ballad, la seconda è una sorta di preludio più vellutato ai Giant, con un refrain di nuovo ispirato da Billy Squier. “Dancing With Danger” è notturna e fascinosa (Bryan Adams viene preso ancora a riferimento) ma con un refrain semplicissimo, essenziale, un po’ Loverboy. Sferzata di energia nel finale, le ultime tre canzoni sono decisamente elettriche, prima “Fist Full of Heat”, dinamica ma sempre supremamente elegante, poi il gusto pop e scanzonato in stile Loverboy di “Make It Glamorous” e per chiudere il riff secco di “No Secrets”, che esibisce anche un bridge spettacolare ed un assolo breve e tagliente. Da parecchi anni questo capolavoro del nostro genere era relegato tra le lost gems, standing ovation all’etichetta tedesca che è andato a ripescarlo e lo ha reso nuovamente disponibile fuori dai canali dell’usato a peso d’oro, almeno per qualche tempo. La tiratura sarà inevitabilmente limitata, perciò il mio consiglio è di precipitarvi a prenderlo, prima che ‘Suspicious Heart’ rientri in quei canali cari ed esclusivi da cui ha temporaneamente rifatto capolino.
Sono tornati i Ratt, sono tornati i Keel, si sono rifatti vivi i King Kobra, potevano mancare all’appello i Black ’N Blue? Tommy Thayer non è più della partita (è da qualche anno il chitarrista dei Kiss), ma la band riunita dal leader Jamie St.James non soffre troppo la sua assenza, ripresentandosi con un disco tagliato a misura per tutti gli amanti del metal californiano più festaiolo. Questo è l’album più heavy inciso dai Black ‘N Blue, ma le secchiate di watt che la band ci riversa addosso non affogano mai la melodia, Jamie e compagni restano sempre i più illustri rappresentanti della metallurgia pesante da spiaggia, i Beach Boys dell’heavy metal losangeleno (solo loro potevano intitolare una canzone “Nature of the Beach”…). È vero che il sound più classico della band, quello del capolavoro ‘Without love’, si ripresenta qui solo episodicamente ma quel disco rappresenta un momento irripetibile di lucidità nel songwriting e produzione (per i dettagli, seguite il link) e se consideriamo che in questa circostanza la band ha fatto tutto da sola (della produzione si è incaricato Jef Warner) non possiamo che dare un voto alto al risultato finale, che resta sempre, perfettamente inquadrabile nel vasto panorama del metal californiano, a partire dall’iniziale “Monkey”, che prende le mosse dal materiale Kiss oriented degli ultimi due album, cupa, serrata e molto heavy. Sempre un po’ kisseggiante anche “Target”, ma molto più melodica, scanzonata e allupata, dove ritroviamo quegli impasti vocali che costituiscono un trademark della band, con un finale di tastiere molto anni ’70. “Hail Hail” è un anthem classicamente californiano, trucido e leggero nella stessa misura (W.A.S.P. meets Poison?), con quel genere di testo buffonescamente satanico che può essere firmato solo da una band di L.A. dei bei tempi andati. “Fool’s Bleed” si realizza tramite una bella progressione, dalle armonie zeppeliniane che preludono ad un intermezzo in crescendo prima del ritornello heavy metal. “C’mon” sono due minuti e mezzo di party metal veloce e sfacciato prima di “Jaime’s Got the Beer”, boutade per chitarre acustiche e bottiglie di birra che precede “Angry Drunk Son of a Bitch”, un’altra scheggia heavy metal sguaiata e divertente. Il sound di ‘Without love’ torna prorompente con le grandi “So Long” e “Falling Down” (divise dall’intermezzo acustico “Trippin’”), “Candy” è un super arena rock fragoroso e superamplificato, con un testo infarcito di doppi sensi da vietare ai minori. Anche la title track si rivela un anthem, stavolta su base AC/DC, mentre “World Goes Round” è un hard melodico un po’ anni ’60 nelle melodie, pieno di armonie esotiche. Nell’edizione giapponese troviamo un’altra canzone, “I Smell a Ratt”, un divertente r’n’r metallizzato, prima del brano nascosto “A Tribute To Hawking” altra boutade – o cazzata che dir si voglia – dove una vocetta filtrata che fa il verso al sintetizzatore vocale usato dal fisico Stephen Hawking per comunicare gracchia su un tappeto acustico e spagnoleggiante. In definitiva, se la Los Angeles metallica dei Big 80s – beffarda, volgare, infoiata e rigorosamente consacrata al divertimento più oltraggioso – rappresenta la vostra terra dei sogni, non potete permettervi di ignorare ‘Hell Yeah!’ ed i ritrovati Black ‘N Blue.
Non c’è niente da fare. Niente. Possono sbattersi quanto gli pare, ma non serve a niente. Gli manca qualcosa dentro, a tutti quanti loro. Di chi (o che) accidente sto parlando, si chiedono i miei più che disorientati lettori? Dei tedeschi. E degli svedesi. E magari degli inglesi. Di tutti i non americani che si buttano a fare l’hard melodico. Possono ascoltare caterve di dischi, giorno e notte, ma il risultato finale sarà sempre un’approssimazione, uno sfiorare, un “vorrei tanto ma più di questo non ce la faccio”. Gli mancherà comunque qualcosa. Non sono nati in California o a Toronto. Non respirano quell’aria, i loro occhi sono condannati a vedere altre cose rispetto ai musicisti d’oltre Atlantico. Sono ingiusto e magari anche malevolo? Ma che altro si può pensare quando un qualunque Glen Bridger, chitarrista praticamente sconosciuto in forza da qualche anno agli Head East (band attiva da una trentina d’anni sul fronte live ma che ha registrato il suo ultimo lavoro nel 1988, se ricordo bene), uno che non aveva mai inciso dischi in vita sua, se ne esce con un album del genere? Se fossi un musicista tedesco o svedese, dopo aver ascoltato questa prima fatica di Glen, andrei ad impiccarmi all’albero più vicino, per pura e semplice disperazione. E non è che stiamo parlando di un capolavoro, tipo gli ultimi album di Whitesnake, Winger, Tall Stories o Unruly Child. No. ‘Bridger’ è “solo” un disco di hard rock melodico, onesto e piacevole, senza pretese e con i suoi inevitabili punti deboli. Ma ha quell’indefinibile quid che non trovate mai nelle produzioni germaniche o genericamente europee. I punti deboli del disco si concentrano essenzialmente nella orribile copertina (cosa dovrebbe significare quella Les Paul appoggiata ad una parete di lamiera?), e nelle prime due tracks, la moderna “Tuesday Afternoon” e l’hard melodico “How Long”, entrambe anonime e prive di mordente. “On the Ledge”, invece, è un hard rock notevole, bluesy e notturno, “Don’t Push Me” un bel class metal tempestoso spezzato da pause lente e ipnotiche, “Without a sound” una piacevole power ballad, sognante e luminosa. “Free”, elettroacustica e ritmata, ha una linea melodica ariosa, “Live for the Moment” è una ballad vellutata tutta acustiche e keys, “Good to be Home” è un bell’impasto di elettriche acustiche e Hammond, quasi una power ballad, calda e intensa. Il ritmo sale con “Gonna Get Better”, un heavy metal americano veloce e selvatico, rallenta ancora per “Once in a Lifetime”, super ballad tutta archi e piano e sale di nuovo con la cover molto ispirata di “Heaven And Hell”, in omaggio a Ronnie James Dio, riscritta tramite percussioni sintetiche, chitarre stoppate e tastiere che ne dilatano con gusto lo spettro melodico. Detto che delle parti vocali si incarica il bravissimo Terry Ilous (XYZ), che la produzione è nelle mani di JK Northrup e qui suonano personaggi tutt’altro che minori della scena hard rock USA (Marcus Nand, Larry Hart, Sam McCaslin, lo stesso JK Northrup), non ci sarebbe altro da aggiungere. Può darsi, però, che qualcuno abbia già letto la recensione di questo disco fatta da Andrew McNiece su Melodicrock.com, e si ritrovi perplesso di fronte ad una divergenza di opinioni tanto clamorosa, poiché da quanto ho scritto è chiaro che per me questo disco è tutt’altro che malvagio, mentre Andrew lo ha sommariamente e implicitamente qualificato con il più noto appellativo fantozziano. Chi dei due si è bevuto il cervello, allora: io, oppure il mio collega australiano? Probabilmente, è un problema di gusti. Il webmaster di Melodicrock.com va pazzo per l’AOR tedesco e svedese, stravede per il cosiddetto rock melodico moderno (Harem Scarem e compagnia) mentre si dimostra generalmente tiepido verso l’hard melodico ed il class metal di matrice tradizionalmente americana (i nuovi album di King Kobra e Black ‘N Blue non lo hanno per nulla esaltato), cioé quello che per me è, resta e sempre resterà il rock melodico “vero”, quello che crucchi e vichinghi non hanno ancora imparato a fare decentemente. I miei precordi si esaltano proprio per quella musica che lascia freddino il buon Andrew e restano invece coerentemente gelidi verso le proposte che arrivano dalle lande meno temperate del Nord Europa. E allora, se i vostri gusti sono sintonizzati su quelli del nostro amico australiano, forse ‘Bridger’ non è adatto a voi. Se, come il sottoscritto, ritenete invece che proprio alla gran parte dell’AOR proposto da tedeschi e svedesi vada applicato l’epiteto che i colleghi hanno coniato per il ragionier Ugo Fantozzi, questo disco non vi deluderà.
Dei Dante Fox, fino al 2007, non si poteva certo parlare male, ma neanche mandarli in paradiso. Alle spalle avevano due dischi di hard melodico pubblicati dalla ineffabile Now & Then nel suo solito stile: un numero infimo di copie stampate, copertine che parevano disegnate da un dodicenne con l’ausilio di un programma grafico da due soldi e realizzate con qualcosa che poteva anche essere una fotocopiatrice a colori, distribuzione operata con strategie al limite del massonico. Chi aveva avuto la fortuna di riuscire ad entrarne in possesso si era trovato al cospetto di una band che sapeva il fatto suo ma non spiccava certo per originalità o personalità. Nel settimo anno del nuovo millennio, i Dante Fox facevano uscire il loro terzo album per una label seria, la Frontiers, che rendeva il prodotto disponibile anche a chi non era pronto ad imbarcarsi in una caccia al tesoro e, sopratutto, trovavano un proprio spazio espressivo autonomo facendo un salto di qualità imprevedibile considerate le matrici convenzionali su cui era stata modellata in precedenza la loro musica. Il trampolino che i Dante Fox avevano usato per spiccare questo salto, (ed era un notevole distinguo dalla agguerritissima concorrenza), era rappresentato dall’universo sonoro di una band che non fa parte della costellazione dell’AOR, gli All About Eve, in particolare l’universo racchiuso nei suoi primi due album, ‘All About Eve’ e ‘Scarlett and other stories’. Gli All About Eve furono una band inglese di discreto successo nella seconda metà degli anni ’80, almeno in patria. Guidati dalla voce fragile di Julianne Reagan (brevemente transitata nei Gene Loves Jezebel) e dalla chitarra dell’ex Sisters of Mercy Tim Bricheno, si esprimevano tramite una musica romantica, tenera, struggente, pervasa di una malinconia agrodolce, di una mestizia tutt’altro che piagnucolosa, musica a volte delicata altre bruciante, che svariava nei vasti territori del rock e del folk. Mille volte sono stato tentato di parlarne qui, ma, nonostante tutti i miei sforzi per infilarli in qualche modo nel panorama del rock melodico, la loro musica non aveva proprio nulla a che spartire con l’AOR, nasceva da un humus completamente diverso e anche se il risultato finale aveva ottime probabilità di interessare anche gli appassionati di hard rock et similia (come il vostro webmaster, appunto) cacciarli a forza nel nostro genere costituiva una forzatura inammissibile. Che quel sound fosse però traducibile nel linguaggio dell’AOR era possibile e rappresentava tutt’altro che una forzatura e i Dante Fox riuscirono con ‘Under The Seven Skies’ a fare proprio questo: presero gli All About Eve e li trapiantarono nel fertile terreno dell’hard rock melodico, ottenendo un risultato finale eccellente. La voce della cantante Sue Millet è il trait d’union più evidente fra questi universi sonori nello stesso tempo così simili e così distanti, potente e tecnicamente ineccepibile come quella di Julianne Reagan non è mai stata ma sensibile e duttile, capace di spaziare tra i registri più diversi. E “The Last Goodbye” chiarisce immediatamente gli intenti della band, con la sua vivacità ritmica, le chitarre che ruggiscono fra limpide punteggiature di piano e le linee melodiche un po’ malinconiche intonate da Sue. “Firing Guns” poggia su un riff zeppeliniano ed un refrain solenne e molto british, ma “Hold Out Your Hand” è di nuovo All About Eve sound in versione AOR, elettroacustica e solare, a tratti delicata ed a tratti graffiante. Più elettrica “Breaking Me Down”, che parte bluesy e sale drammatica e potente nel bridge dominato da tastiere turbinose che sbocca in un ritornello urlato e quasi rabbioso. “Goodbye To Yesterday” è una power ballad con le stesse trepidazioni, le stesse malinconie tenere degli All About Eve perfettamente ricamate sul tessuto del rock melodico, “Walking The Line” vira invece nell’universo dei Ten, bella tosta eppure con una grande atmosfera, anche “Love Tried To Find You” divaga piacevolmente, una power ballad molto Survivor, poi c’è “Save Me" con il suo riff secco alla AC/DC stemperato dal calore dell’organo Hammond e spezzato da deliziosi breaks melodici prima di “Lucky Ones (Born Tonight In The Setting Sun)”: annunciata da un riffeggiare turbinoso e swingante che si stempera in un fraseggio avvolgente di piano su cui si srotola una melodia fascinosa e piena di chiaroscuri prima che esploda un ritornello emozionale ed accorato. In chiusura, i nove minuti della title track, che intarsia una melodia molto Journey su un telaio che deve molto ai Ten più sinfonici, spezzato da un assolo blues sofisticato e notturno che trascolora in un ulteriore intervento solista molto Neal Schon, un finale orchestrale e solenne con una lunga coda misteriosa e arcana fatta di tastiere e vocalizzi di una Sue Willet semplicemente strepitosa. Ho qualche riserva sul mixaggio, che in certe circostanze risulta eccessivamente fragoroso, ma nel complesso il suono di questo disco si mantiene su ottimi livelli, un ulteriore plus per un lavoro memorabile, ispirato ed a cui la band sta per dare un seguito che mi auguro sia degno successore di un album fra i più belli che l’AOR abbia prodotto nel ventunesimo secolo.
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