Del primo, formidabile album di questa band vi ho già riferito a pagina 1. Occupiamoci adesso di quello che è venuto dopo. 'Waiting for the sun' è stato pubblicato nel 1998, ma in realtà la band - nel senso più ampio che si può dare a questo termine - s'era già fatta risentire nel 1995, con 'Tormented', attribuito alla sola Marcie Free (la quale - per quei due o tre che ancora non lo sapessero - non è altri che Mark Free dopo il cambiamento di sesso). Gli unici punti deboli di quest'album erano la produzione (curata da Bruce Gowdy e Marcie) e la resa sonora, ben lontani dalla spettacolarità di 'Unruly child'. Per il resto, la band si esibiva nuovamente nel suo originalissimo e fenomenale impasto di melodic rock, progressive e riff zeppeliniani; rispetto al primo album c'era forse una maggior dinamicità, i riferimenti ai Led Zeppelin erano costanti lungo tutto il disco, raggiungendo il top nella divina "High an' dry", e anche se la voce di Marcie cominciava a mostrare un po' la corda, si può affermare che il disco reggeva senza arrossire il confronto con il suo pur inarrivabile predecessore. Poi Marcie salutava e si ritirava nell'ombra, Bruce Gowdy e Guy Allison riformavano i World Trade e si dedicavano ad un'intensa attività di turnisti e produttori, finché, nel '98, il Ragazzo Indisciplinato tornava a materializzarsi in una nuova versione, che vedeva il solo Gowdy alle chitarre e tastiere, il solito Jay Schellen dietro i tamburi, l'ospite Ricky Phillips al basso, ed al canto il bravissimo Kelly Hansen, già compagno del batterista nei grandi Hurricane (a quando una ristampa dei loro primi due album? Le mie copie in vinile stanno per raggiungere gli ultimi stadi della consunzione...) . Della produzione si incarica Bruce Gowdy, e bisogna subito sottolineare che di passi avanti il nostro Bruce ne ha fatti parecchi dai tempi di 'Tormented', dato che 'Waiting for the sun' ha un suono di grande spessore. Il songwriting è eccellente, gli arrangiamenti senza una sbavatura, Kelly Hansen ha un tono abbastanza simile a quello di Marcie Free da non far rimpiangere troppo la sua assenza. Come su 'Tormented', qui la lingua degli UC ha un accento quanto mai zeppeliniano: suadente, magica, un po' misteriosa. Il top? Forse "Heart run free" e "Fool again", ma è un po' come cercare il pelo nell'uovo, non c'è un solo pezzo per cui si debba decretare pollice verso. Piuttosto, non capisco per quale motivo Bruce Gowdy abbia deciso di reincidere due pezzi di 'Tormented', “Forever”e "Still Believe". A parte la miglior resa sonora, queste nuove versioni sono praticamente identiche a quelle originali, perfino il cantato di Kelly Hansen segue scrupolosamente le linee tracciate da Marcie... Il dubbio che siano state buttate lì per fare mucchio è più che lecito. Ci sono poi due episodi anomali perché completamente estranei allo stile della band. "Do you ever think of me" è una grandissima ballad alla Foreigner scritta dalla premiata ditta Held/Greenwood (e incisa anche dagli Heaven & Earth di Stuart Smith nel loro primo album), mentre "Live in the night" è un rithm and blues scatenato e divertente di cui è autore il solo Gowdy: bellissime canzoni, ma, ripeto, molto diverse dal materiale di cui si compone il resto del disco. Al primo ascolto si resta un po' sconcertati, ma la qualità dei pezzi è indiscutibile. E arriviamo al 2003, ed a 'III'. Torna in squadra Guy Allison, ma se ne vanno Jay Schellen e Kelly Hansen. Il nuovo cantante è lo sconosciuto Philip Bardowell, mentre Bruce Gowdy e Guy Allison si incaricano anche delle parti di basso e batteria, oltre che della produzione. La qualità sonora del nuovo album è ancora superiore a quella di 'Waiting for the sun', la produzione impeccabile. Ma perché Bruce Gowdy insiste a reincidere le canzoni di 'Tormented'? Stavolta tocca a "The devil knows your name", che viene reintitolata "Tear me down", "Falling", e "Unruly child" che viene però pesantemente riarrangiata e proposta con un altro testo. Il songwiting, al solito, è di classe superiore, però la band sembra in crisi di personalità, il suo stile si diluisce e a volte si perde del tutto, come su "Vertigo", che potrebbe essere uscita dal songbook dei Von Groove, o su "King of tragedy" che riecheggia un po' i Millenium, mentre "Bring me home" mi ricorda a tratti certe cose degli All About Eve. Bardowell ha un bel vocione, magari ancora un po' grezzo, ma è un taglio netto con il passato ed i vocalist planteggianti a cui la band ci aveva abituati. Gran disco, ma chi amava quel suono così particolare, quello stile unico non può che rimanere (parzialmente) deluso.
L'elemento che forse più caratterizza questa band rispetto alla concorrenza è senza dubbio quello di riuscire ad alternare sui suoi dischi dei piccoli capolavori a delle incredibili ciofeche. Sull'ultimo 'Garden of Eden' c'erano due autentiche perle, "Vagabond" e "Hard day long", alternate a composizioni ordinarie o terribilmente anemiche. Poteva essere considerato il sintomo di una band in crescita, o un'attitudine che si sarebbe confermata del tempo? L'unico modo per sapere era buttarsi sul nuovo 'Dangerous love'. Che non ha chiarito la situazione, non ha dissolto i dubbi, aggiungendo solo confusione a confusione. Gli Snakes In Paradise erano una band di hard melodico ed AOR. Ma poi i critici hanno cominciato a martellarli con la presunta - e per me assolutamente inconsistente - somiglianza con gli Whitesnake. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la collaborazione del cantante Stefan Berggren con i Company of Snakes, presunti eredi del glorioso Serpens Albus. A quel punto, i SIP hanno cominciato a credere veramente di essere i nuovi Whitesnake, e sul nuovo disco si lanciano a capofitto nell' hard rock blues, emarginando spesso il loro bravo keybord player per confezionare un suono che nei loro sogni dovrebbe replicare quello della band a cui inopportunamente vengono paragonati. Ma il blues è fatto di sangue, sudore e lacrime, è tutta una questione di nervi ed emozioni, di tocco. Non è roba di testa, ma di testicoli. E questa band continua ad essere troppo algida, cristallina; insomma: svedese. Berggren potenzialmente avrebbe anche la voce giusta per cantare il blues, ma è sempre troppo rilassato, inespressivo, non forza i toni, non alza il volume. Le prime tracce dell'album, tutte devote a questa nuova dimensione, lasciano una sensazione curiosa di incompiutezza o forse di insufficienza, ci sono i riff e la voce, ma manca la forza, la tensione interna, sembra che la band offra il suo bravo compitino fatto di pura accademia, senza nerbo né spina dorsale. Per fortuna, mano a mano che il disco procede, i SIP tornano all'hard melodico che gli è più congeniale, confezionando del buon hard-AOR, ma senza i picchi di 'Garden of Eden'. Di quest'album ho letto recensioni entusiastiche, ma a me sembra un passo indietro rispetto al disco precedente. Ciascuno dovrebbe limitarsi a fare ciò che gli riesce meglio, e agli Snakes In Paradise quello che riesce veramente bene è l'AOR. Prima se ne convinceranno, meglio sarà.
"Maledetti americani! Solo loro, e solamente alcuni di loro, sono capaci di produrre dischi come questo, artisticamente scarsi, tecnicamente imbattibili, commercialmente vincenti". Così iniziava la recensione di questo disco firmata da Stefano Bonagura e pubblicata sul numero di 111 del giugno del 1990 di Fare Musica. E' un giudizio lapidario che mi ha perseguitato per anni, anche perché ho sempre considerato FM una delle poche riviste veramente equilibrate e obiettive nel troppo spesso fazioso panorama della stampa musicale italiana, l'unica pubblicazione che trattava con competenza e rigore tutti i generi musicali, dal jazz al thrash metal. Naturalmente, i suoi collaboratori avevano le loro brave preferenze, e se era chiarissimo che al top delle loro classifiche dell'epoca stavano bands come gli Smiths, i Sonic Youth, gli U2 o i Public Enemy, c'era da parte della rivista la disponibilità ad accogliere anche proposte in netto contrasto con i gusti della redazione. Artisticamente scarsi... un giudizio che non poteva limitarsi ai soli Damn Yankees, ma finiva per coinvolgere più o meno direttamente tutto il genere musicale in cui la band veniva a situarsi. E se questa non è certamente la sede per affrontare un discorso critico di portata talmente ampia, non si può neppure liquidarlo sostenendo che le opinioni altrui sono pure e semplici idiozie. A me pare piuttosto che il recensore di FM dimostrasse di possedere una visione dell'arte molto limitata. Come se un critico che si occupa di pittura, sostenesse che gli unici quadri dotati di un qualche valore "artistico" siano quelli di Picasso, Klimt, De Chirico o Francis Bacon. L'arte ha mille volti, e non possiamo scegliere quelli che più ci piacciono e far finta che gli altri non esistano. Personalmente, non posso dire che gli Smiths ed i Sonic Youth mi piacciano, tutt'altro, ma non mi sognerei mai di negare per principio che la loro proposta abbia un valore. Hanno un bel dire certi sapientoni che la musica "si divide solo in buona e cattiva": i generi musicali sono una realtà, ed hanno una loro precisa ragione d'essere. Potrete ripetermi all'infinito che Bob Marley era un grande, che in questo momento c'è più gente nel mondo che ascolta "No woman, no cry" di quanti hanno mai sentito le canzoni dei Bad English: per il sottoscritto, l'ascolto del reggae rimane sempre una atroce forma di tortura. La musica non si giudica con la lente d'ingrandimento, non è un fatto di testa, ma di cuore. Non porta concetti, ma emozioni. Non si può ascoltarla in maniera asettica, assegnandole un giudizio di valore in astratto. Ma non si può neppure graduare questo giudizio esclusivamente sul proprio coinvolgimento emotivo, è necessario mantenere quel minimo di oggettività che - quantomeno - possa farci ammettere: questa roba non mi piace, perciò non posso valutarla con criterio. Ma Bonagura, nella sua recensione, fa un ulteriore passo avanti, dicendo, sostanzialmente: questa roba, tutto sommato, mi piace e mi diverte, ma artisticamente rimane roba da poco. E questo è, lo ripeto, guardare al mondo dell'arte con i paraocchi. Assegnare per principio all'arte certi valori ed escluderne altri. Qual'era, artisticamente, la colpa dei Damn Yankees? Quella di suonare troppo bene, seguendo i più classici schemi della canzone? Quello di testi disimpegnati, a volte umoristici? La completa adesione ai canoni del rock americano? Forse la chiave per comprendere l'avversione istintiva che tanti critici, ancora oggi, nutrono verso l'hard rock sta proprio in quel "tecnicamente imbattibili": la gran parte di questi signori è nata professionalmente col punk, ed ha assorbito e metabolizzato tutti suoi miti musicali: il fatto di non saper suonare, di avere una tecnica strumentale approssimativa, visto come un merito; i testi politicizzati, nichilisti, comunque "impegnati"; l'immagine dimessa/provocatoria... In definitiva: l'esaltazione dell'imperfezione in musica, dell'approssimazione come indispensabile elemento formale. É la logica che vuole il rozzo e caotico 'London calling' superiore a 'Sandinista', l'album dove i Clash avevano imparato finalmente a suonare in maniera accettabile i loro strumenti... Difficile, quindi, che i Damn Yankees potessero raccogliere simpatie in un tale ambiente. Nascevano come una sorta di superband, dato che il quartetto annoverava tre stars di più o meno lunga militanza nelle schiere del rock americano. Ted Nugent, il madman, chitarrista dall'irruenza quasi mitica, e già una mezza leggenda; Tommy Shawn, storico pilastro dei pomp-gods Styx; Jack Blades, col suo più modesto ma validissimo passato di bass player e cantante dei mai abbastanza lodati Nightranger, al cui impianto armonico generale sembrava rifarsi sopratutto la nuova band. L'unico sconosciuto era il batterista, Michael Cartellone. Con l'aiuto all'hammond di Alan Pasqua e la sapiente produzione di Ron Nevison, confezionano un mezzo miracolo di songwriting che unisce hard melodico, rithm'n'blues, rock'n'roll ed AOR in un'amalgama tecnicamente imbattibile e artisticamente impeccabile. Un disco completo: ci sono gli anthem ("Coming of age", "Bad reputation", "Rock city"), il boogie scanzonato ( "Mystified"), la ballad spezzacuori ( "High enough"), l'inevitabile pezzo fast and furious ( "Pilediver" ). Un copione già noto, ma interpretato con virtuosismo e intensità. La scheggia di un mosaico di emozioni in cui una parte non trascurabile di una generazione si è ritrovata, ed ha vissuto gli anni più importati della propria vita. Da questo inconfutabile dato di fatto, coloro che non appartengono al nostro mondo musicale dovrebbero partire, se volessero compiere un serio tentativo di comprendere quanta arte può esserci o no in questo disco.
E’ ascoltando dischi come questo dei Mechanix che ci si rende veramente conto di come siano cambiati i tempi, ed il nostro modo di giudicare la musica che ci viene offerta. Se fosse stato pubblicato - come avrebbe dovuto - una dozzina d’anni fa, quest’album sarebbe stato classificato tra gli “onesti” prodotti di hard melodico; oggi, i Mechanix fanno gridare al miracolo, esaltano e sembrano giunti a noi dall’empireo del melodic rock. Ma agli inizi dei ’90, l’AOR era praticamente in overdose, e di roba sopraffina, mentre oggi i suoi addicted vivono in perenne crisi d’astinenza e con ben poco a disposizione per farla passare. Gli estremi, in questo caso, non si toccano, neppure si sfiorano. Ma quanto vale, allora, questa band? Quanto vale realmente? Di sicuro, i ragazzi non si sforzano neppure un po’ di essere originali. Un bella dose di Dokken, Ratt, Heaven's Edge, Bon Jovy, Autograph, un pizzico di Van Halen: questi gli ingredienti della loro ricetta principale. Metal melodico americano, insomma, mai troppo aggressivo né eccessivamente aoereggiante, sapientemente dilatato dalle tastiere. Non mancano la soft ballad alla Journey ( “Another night”), né la power ballad alla Giant (“Can’t let go”). E quando il cantante riesce a mettere da parte la sua fanatica ammirazione per Rob Halford, le atmosfere si fanno più scanzonate e leggere, a volte quasi street. Recuperato dagli scaffali di qualche major che di fronte alla faccia da tossico perso di Kurt Kobain si sentì venir meno il desiderio di pubblicare l’ennesimo trattato di hard melodico stile anni ’80, quest’album esce con dieci e più anni di ritardo, a sottolineare le contraddizioni di due epoche tanto diverse da sembrare a volte lontane secoli e non un misero decennio.
Mi ero trattenuto fino ad oggi dal parlare di questo disco perché da molti -sicuramente troppi - anni la sua reperibilità era praticamente zero. Pubblicato dalla Geffen nel 1987, rappresenta a tutt'oggi il top assoluto per il grande singer australiano, che dopo quest'album si è spostato su un terreno più mainstream, nella vana ricerca di un successo internazionale che ha finito per alienargli le simpatie di quanti speravano di aver trovato nella sua voce un'alternativa più vigorosa e sanguigna al sempre più evanescente Bryan Adams. Jimmy Barnes deve avere un sonno molto agitato da incubi in cui viene perseguitato da apparizioni che hanno il volto di Michael Bolton, ma la sua è sempre stata una battaglia perduta in partenza: troppo maschia, troppo irruente la sua voce per poter competere con gli acuti flautati del ex-Blackjack. 'Freight train heart' era certo la strada giusta da battere, con il suo mix di AOR e solido rock'n'roll, per raggiungere i quartieri alti del melodic rock da top ten di Billboard, ma quella voce così potente e furibonda, impetuosa e bollente come lava avrebbe trovato terreno molto più fertile per esprimersi nei terreni impervi e ad alto wattaggio dell'hard rock, magari quello più blues based (alla Dirty White Boy, tanto per capirci). Jimmy preferì invece la strada apparentemente più facile e remunerativa dell' AOR e riuscì a percorrerla comunque con grande autorevolezza. La Geffen assemblò per lui un team stellare, che vedeva, tra gli altri, Neal Shon, Johathan Cain, Rick Brewster, Johnny Diesel, Randy Jackson e Jerry Marotta, alternarsi sui vari pezzi, mentre del songwriting si occupavano, oltre a Jimmy, anche Shon e Cain, con David Roberts, Jim Vallance, Desmond Child e Joe Lyn Tumer. Le atmosfere prevalenti in quest'album vengono sicuramente dal pianeta Journey, con puntate verso il pop rock alla Huey Lewis ( "I wanna get started with you", che non a caso vede Lewis ai backing vocals ed all'armonica) o Bryan Adams ( "I'm stilI on your side" ), e qualche incursione nell'universo Foreigner (la conclusiva "Walk on"). Tutte canzoni magistrali, fatte di un AOR sofisticato in cui la voce di Jimmy innerva carne e sangue bollente. Eppure, quando il nostro innesta il turbo e parte la scatenata "Lessons in love", e ci ritroviamo catapultati in quella dimensione hard rock'n'roll che ancora oggi è il trademark dei gruppi australiani, non possiamo fare a meno di chiederci se Jimmy non stesse sbagliando tutto e - perché no? - truffando se stesso: qui è un leone che va a caccia nel suo ambiente naturale, nelle altre canzoni sembra lanciare i suoi ruggiti da una villa di Beverly Hills. Due parole sulla recentissima ristampa. Per motivi a me sconosciuti, nella track list stampata sul retro copertina è stata aggiunta "Thick skinned", che però appartiene ad un altro album e qui, naturalmente, non è presente. Dunque, le canzoni sono dieci e non undici. Il booklet è stato realizzato presumibilmente con delle scansioni dell'originale o della busta del vinile. Il problema è che il furbastro che le ha fatte ha impostato una risoluzione troppo bassa, col risultato di rendere praticamente incomprensibili i testi. Per non rischiare la cecità, consiglio a chi volesse leggerseli di scaricarli da questo sito, www.jimmybarnes.co.uk , un archivio completo di tutte le Iyrics del nostro.
Non si può certo dire che l’AOR abbia mai trovato in Gran Bretagna terreno fertile. Con la scena hard/metal locale che stava avviandosi inesorabilmente all’estinzione quando il genere ebbe i suoi natali in USA, sarebbe stato difficile che le poche bands che tentarono con pochissima fortuna la strada del melodic rock potessero venire ricordate come capiscuola. I Def Leppard furono l’eccezione ad una regola che negli anni trovò solo conferme. Ma le bands britanniche avevano forse qualcosa che, nel complesso, non funzionava? Diciamo subito che una via inglese all’AOR non è mai esistita, e tutti seguivano con maggiore o minor efficacia modelli canadesi o americani. La bravura, il look giusto, nulla sembrava poter spingere una band inglese di AOR sulla strada del successo: quelli che c’ hanno provato con più convinzione sono stati gli Shy, all’epoca di quel piccolo capolavoro che fu ‘Excess all areas’, e sappiamo tutti com’è andata. Perché il mercato principe erano sempre gli USA, l’Europa all’epoca era sorda alle sirene del melodic rock, e quando qualcuno tentava di pompare una band inglese su quel mercato, il risultato era sempre un bello zero tondo. Provare qualcosa di diverso, osare l’originalità, anche in piccole dosi, doveva apparire un suicidio nel suicidio a quei pochi coraggiosi/incoscienti che decidevano di tentare la carta dell’Adult Oriented Rock. Eppure qualcuno, timidamente, senza strafare, ha tentato di inventarsi un suono, una propria ricetta personale. E questi qualcuno sono stati, mi pare, i Virgina Wolf (di cui riparleremo, hanno da poco ristampato i loro album) e - più risoluti e decisi - i Dare di questo disco. Darren Warthon - conosciuto per la sua militanza negli ultimi Thin Lizzy - guardava certamente al melodic rock canadese, in particolare a quella favolosa realtà che furono i Refugee ( ecco un’altra band di cui sarebbe imperativo ristampare il capolavoro, ‘Burning the inside out’), ai Saga, ai Journey più FM, ma riusciva comunque a distillare una formula autonoma che trovava nell’equilibrio tra il fraseggio limpido e misurato della chitarra di Vinnie Burns (chi lo ha poi conosciuto straripante e metallico nei Ten non potrà che rimanere sorpreso) e le tastiere malinconiche e sognanti suonate da lui stesso e da Brian Cox la sua caratteristica più interessante. E poi c’era il cantato: sussurrato, a volte addirittura ansimante, Darren Warthon era una specie di Lou Gramm cupo e in chiave di basso. Perché questo è tutt’altro che un album solare. C’è un’atmosfera drammatica che aleggia su tutto il disco, una melanconia molto british, che non ci fa dimenticare neppure per un attimo che questo lavoro è stato registrato nella fumosa Manchester. Musica ricca di chiaroscuri, che i testi seguono con assoluta coerenza, ma mai monocorde, tutt’altro: la band svaria fra i generi, passando dalla vaga solennità pomp di “Under the sun”, all’hard melodico di “Heartbreaker”, dalle suggestioni celtiche di “Raindance” al puro AOR di “Don’t let go”. Dopo questo disco, Darren Warthon decise però che la strada del melodic rock non lo avrebbe mai portato da nessuna parte, e cambiò rotta, proponendo con il successivo ‘Blood from stone’ una clonazione del suono Thin Lizzy di dubbia efficacia. Delle gesta più recenti della band parleremo forse in futuro, per ora basta sottolineare che la magia racchiusa in questo disco, i Dare non sono più riusciti a replicarla.
DOMANDA: Egregio webmaster del sito AOR Archivia, qual’ è a suo parere la differenza più spiccata e caratteristica tra il melodic rock degli anni d’oro e quello attuale? RISPOSTA: Senza alcun dubbio: la produzione.
Lo so, come introduzione è ignobile, ma proprio non sapevo come impostare il discorso su questo superbo album, tanto magnificamente rappresentativo dell’ hard melodico losangeleno degli anni ’80, e su ciò che lo rende così fluido, godibile, impeccabile: la produzione. Il produttore, questo sconosciuto... Charlie Mallozzi, produttore e ingegnere del suono italiano, in una divertente intervista pubblicata una decina di anni fa su Fare Musica, dichiarava: “...in Italia non si riesce ad avere chiaro il concetto del produttore: chi è questo tipo che se ne sta in studio, fondamentalmente a non fare un cazzo”. Verissimo. E se questo concetto da noi non lo hanno ancora acquisito musicisti e discografici, figuriamoci i giornalisti, i critici, i recensori... Eppure, proprio noi che bazzichiamo l’AOR, dovremmo ormai averlo chiaro, questo concetto, perché siamo passati da album iperprodotti a dischi composti da bands magari volenterose e ben dotate nel songwriting, ma prive di una guida o, meglio, di una regia che operi su molteplici livelli tecnici e artistici. Se il primo album dei Ten era un prodotto tanto straordinario, il merito era anche di quel mostro di bravura che risponde al nome di Mike Stone, l’uomo che - giova ricordarlo - ha inventato il suono moderno dei Journey. Come non addebitare le sottili differenze tra i due solitari capolavori dei Bad English, al cambio di guida tecnica, con il primo disco prodotto da Ritchie Zito ed il secondo passato nelle mani di Ron Nevison? Come avrebbero potuto i Ratt codificare il loro mix di pop e metal senza la lucidità di Beau Hill che li guidava dietro il banco del mixer? I Bon Jovy non sono forse esplosi quando si sono affidati per confezionare le loro canzoni a Bruce Fairbairn? Debbo continuare scomodando Mutt Lange, Andy Jones, Bob Ezrin, Eddie Kramer...? Oggi le etichette che fanno sopravvivere l’AOR non possono permettersi i cachet dei top men della produzione e così ci si arrangia alla meglio, affidandosi a ingegneri del suono che possono garantire una resa sonora ottimale ma non danno logicamente alcun input artistico, o su personaggi più o meno prestigiosi che si improvvisano produttori con risultati a volte deludenti (un esempio: Howard Leese sull’ultimo disco degli Heaven And Heart, di cui riparleremo presto), oppure si decide di fare da soli, e qui tutto diventa una lotteria, perché la produzione non si improvvisa e non è neanche una questione di esperienza, ma di attitudine: di band espertissime e scafate che hanno massacrato i propri dischi autoproducendoseli ci sono innumerevoli esempi, ed uno dei più clamorosi - tanto per restare in ambito AOR - fu, secondo me, quello dei Legs Diamond di 'Town bad girl'. I Black’N’Blue, dopo aver visto il loro pur ottimo album d’esordio snobbato dalle radio, credettero di dover accentuare la propria impostazione anthemica/melodica per poter accedere più facilmente all’airplay, e si affidarono all’uomo che aveva coordinato le operazioni sugli ultimi album dei Loverboy, Bruce Fairbairn, ed ai suoi due ingegneri del suono dell’epoca, Bob Rock e Mike Fraser. E questo team delle meraviglie non poteva fallire, posto che da parte della band ci fosse almeno un minimo di collaborazione. Perché, sia chiaro una volta per tutte, il produttore non è il re Mida, e se la band non è in grado di sfornare altro che merda, lui non può trasformare quella merda in oro con trucchi ed effetti. Ma la band di Tommy Thayer e Jaime St.James arrivò in studio carica di lingotti a 24 carati, ed il compito di Fairbairn e dei sui fidi fu solo quello di aiutarli a fonderli in tanti gioielli luccicanti, e poi rifinirli e lucidarli a dovere. ‘Without Love’ è non solo il top album di questa band sfortunata, ma anche uno dei più fulgidi episodi di melodic metal mai registrato, che tante band - primi fra tutti, i Poison - hanno avuto come sicuro punto di riferimento per tracciare una rotta nei territori difficili del party metal, dell’hard rock festaiolo e anthemico, spettacolare, danzereccio, ma qui mai sguaiato, volgare, debordante. Jaime St.James era un singer assolutamente perfetto per il genere: voce forte, pulita, dotata di una tonalità ideale, né acuta né profonda. Tommy Thayer sapeva mettere la propria chitarra al completo servizio delle canzoni e contemporaneamente esplodere in assoli deraglianti, ben coadiuvato dalla ritmica incisiva e precisa di Jeff Warner. E più che i calibrati interventi delle tastiere, sul sound della band incidono i cori, magnificamente orchestrati, che ne dilatano lo spettro melodico arricchendolo di molteplici sfumature tra i fraseggi delle chitarre. La title track, “Stop the lightning”, “Nature of the beach”, “Bombastic plastic” si pongono al perfetto crocevia tra Ratt, Motley Crue e Autograph, “Swing time” ripropone, cromato e lucidato a specchio, il Van Halen sound dell’era Roth, “Two wrongs” innesta i Kiss ed un viscerale mid tempo blues in una splendente intelaiatura melodic metal, mentre “Strange things” con i suoi accenti quasi dark alla Ozzy del periodo più class, quello di ‘Ultimate sin’, dimostra che anche nel melodic rock degli anni ’80 c’era spazio e voglia di sperimentare soluzioni inusuali, e ottenendo risultati di rilievo assoluto. E se tutta questa magnificenza è sicuramente in buona parte merito del lavoro di Bruce Fairbairn, è con Gene Simmons che ce la dobbiamo prendere per il tracollo e la fine dei Black’n’Blue. Dopo un tour di spalla ai Kiss, difatti, Jaime St.James decise di mettersi integralmente nelle mani del buon Gene per la produzione degli album successivi. E Simmons non seppe fare nulla di meglio che trasformare i Black’n’Blue in una copia sbiadita (molto sbiadita) dei Kiss di ‘Asylum’. Se ‘Nasty Nasty’ ancora riusciva a galleggiare, ‘In heat’, pubblicato nel 1988, andò a fondo immediatamente, trascinando con sé una band che avrebbe di certo meritato molto più di quanto ha ottenuto.
Questa band non si può certamente iscrivere di diritto nel registro di quelle che hanno fatto la storia del melodic rock. Eppure, se andiamo a leggere letteralmente quell’ormai mitico acronimo, Adult Oriented Rock, ebbene, quale band potrebbe tradurlo meglio nella realtà? Quale band può meglio rappresentare un genere di musica rock particolarmente fragorosa ma il cui target non sono gli adolescenti? Sarà un po’ tirata per i capelli, ma certo i Rush sono quanto di più adulto l’hard rock abbia mai generato. L’aggettivo non va ovviamente preso nel suo senso più comune e scontato. I Rush sono una band cerebrale anche se nient’affatto complessa, che non offre un coinvolgimento emotivo brutale e diretto. Le evoluzioni della loro musica hanno la freddezza raffinata di certa fusion, ma non scadono mai nel tecnicismo fine a se stesso, nel “sentite quanto siamo bravi”, in quel vuoto privo di senso fatto di scale ripetute e variate all’infinito che mandano in visibilio (Dio solo sa perché) tutti i fans dei Dream Theater. Questa band scrive canzoni, ed alla forma base della canzone sta sempre rigorosamente appiccicata. E le loro canzoni, sublime paradosso, potrebbero anche essere fischiettate sotto la doccia, anche se credo che mai a qualcuno sia passato anche solo lontanamente per la testa di farlo. Insomma: sono bravissimi, si possono ammirare, ma difficilmente si amano, i Rush. Nel loro universo musicale fatto di ghiaccio e cristallo, di lame affilate e gelidi bagliori e orizzonti sconfinati, manca il calore, l’emozione violenta, l’impatto propriamente fisico che siamo abituati ad associare all’hard rock... ed è proprio in questo, probabilmente, che risiede il fascino ammaliante della band, in quel noli me tangere, in quella distanza, nella purezza immacolata di un sound che riesce a coniugare potenza, melodia e lirismo ad un fondamentale distacco. Un equilibrio difficile, che la band ha più volte perduto e riacquistato, e che in ‘Hold your fire’ trova probabilmente la sua realizzazione più straordinaria ed impeccabile. Quest’album viene spesso descritto come il top del periodo più techno-rock della band, mentre i dischi successivi sarebbero decisamente più hard oriented, più vicini alla classica dimensione del rock duro. Francamente, non so proprio su cosa si basi questa teoria. Chi ha orecchie per sentire, si renderà conto facilmente che nulla è cambiato nel suono e nell’atteggiamento dei Rush, che piuttosto hanno alternato ottimi lavori ad altri veramente brutti e privi di ispirazione ( come ‘Roll the bones’). ‘Hold your fire’ è un gioiello di rock duro e melodico dalle molte sfaccettature, ma tutte illuminate dalla stessa luce tersa, trasparente, la luce delle grandi altezze che risplende sotto un cielo immenso e dai colori carichi e freddi. E nel variare dei temi, nel mutare degli approcci, permane quell’atmosfera rarefatta che riveste di brina anche le canzoni in apparenza più calde, come “Time stand still”, dal bellissimo testo. Quello dei testi è un capitolo particolare su cui vale la pena di spendere qualche parola. Li scrive da sempre solo e soltanto il batterista, Neil Peart, che però - purtroppo - non è Jim Morrison (oggi unanimemente riconosciuto dalla critica letteraria come uno dei più grandi poeti americani degli anni ’60), ma - questa è la mia impressione - a volte crede di essere lui, sfornando testi intricatissimi, che possono essere cerebrali o all’insegna di una filosofia spicciola camuffata da poesia, e troppo spesso costituiscono una pesantissima zavorra per le canzoni. Bisogna però ammettere che quando il buon Neil riesce ad azzeccare il testo giusto, il risultato complessivo è da antologia. Questa musica, dunque, non avvince, non fa battere il piede né induce all’headbanging, piuttosto ammalia, seduce carezzando con dita pallide e fredde, o graffiando con artigli di ghiaccio, come in quella straordinaria scheggia di gelido hard rock che è “Turn the page”. “Mission” , “Lock and key”, “Second nature” sembrano più dirette, camuffando sotto facili refrain architetture di raffinata complessità, “Thai Shan” si sviluppa su toni quasi etnici. “Open secret” potrebbe essere il parto di una versione dei Foreigner depurata di ogni zuccheroso sentimentalismo, mentre “Force ten” e la conclusiva “High water” hanno quella solennità arcana, sinuosa ed elegante che non troverete mai nei dischi delle pomp bands. Geddy Lee - che si disimpegna con uguale bravura nei ruoli di cantante, bassista e tastierista - è una specie di Jon Anderson meno celestiale ed aulico: tagliente, pulito ma non asettico, espressivo secondo un suo stile personale, dove i toni non vengono mai forzati eppure le emozioni prendono a volte toni accorati; Alex Lifeson è uno di quei chitarristi che sanno mettersi al completo servizio delle canzoni pur possedendo una tecnica assolutamente mostruosa, e che nei suoi momenti solisti fa apparire tipi come Malmsteen niente più che poveri saltimbanchi. Questa band si potrebbe descrivere efficacemente usando uno slogan pubblicitario di qualche anno fa: per molti, ma non per tutti. Non per snobismo, per carità. E’ che seguendo i Rush, vi troverete a percorrere strade che solitamente l’hard rock non incrocia, a seguire rotte che nel nostro genere sono poco comuni. Io non sono tra quelli che sostengono che nella vita bisogna provare tutto, ma una chance ai Rush consiglio di darla. La loro musica è uno sguardo su una dimensione fascinosa e sconfinata. L’unico pericolo, è il rischio di rimanervi intrappolati... |