E visto che abbiamo fatto trenta con i Perfect Crime, facciamo trentuno con Darby Mills. Non siamo pari a livello di rarità, ma sopra in quello artistico. Con una quotazione media su eBay oscillante attorno ai cinquanta dollari, su questo disco si può davvero fare un pensierino, tanto e tale è quello che Darby e la sua band ci misero dentro. Il problema è trovarlo… Chiusa l’esperienza Headpins (se volete saperne di più, seguite il link), Darby mise su questa band e registrò quest’unico disco per la WEA, prodotto da Dave Pickell. Il singolo “Give it all up” ebbe un certo successo, ma l’anno dopo Darby – smentendo il titolo del disco, che si traduce “mai guardarsi indietro” – preferì tornare sui propri passi e rifondare gli Headpins (senza Brian MacLeod, passato a miglior vita), che continuano ancora oggi con l’attività live. Album di qualità stratosferica, questo ‘Never look back’, e autentica lost gem che non so per quale motivo nessuno si sia ancora preso il disturbo di ristampare. Con il contributo al songwriting di Stan Meissner, Tom DeLuca, Kenny Kaos e Bruce Turgon, Darby e la sua band (Paul Minshall alle tastiere, la graziosa Shelley Andrushko al basso, Corey James Phillips alle chitarre, Jeff Slewidge alla batteria più un consistente gruppo di session men) confezionano un disco che non si limita a proporre esercizi competenti del genere AOR ma in più di una circostanza trova soluzioni originali, sopratutto grazie alla varietà degli arrangiamenti. Darby offre una performance vocale semplicemente strepitosa, variando i toni da un pezzo all’altro con grazia camaleontica ed un’espressività esemplare. La title track apre l’album senza emergenze, classiche melodie AOR canadesi su un tessuto hard edged contrassegnato da begli impasti chitarra / tastiere. “Cry to me”, caratterizzata da un lento martellare di tastiere e da un gran riff di chitarra, rimanda senza incertezze alle cose anni ’80 degli Heart, con Darby che alterna un canto suadente sulle strofe ad uno più urgente nel ritornello. “Give It All Up” è un perfetto incrocio di Heart e Journey, una ballad favolosa che inizia delicata e d’atmosfera ed evolve con un crescendo impetuoso culminando in un finale intenso ed elettrico. “Hot Water” è basata su un riff secco che conduce ad un coro rhythm and blues con tanto di piano boogie, mentre “Monkey” parte con strani accordi di synth bass, un’atmosfera inquietante disinnescata dal canto ironico di Darby e dai panneggi di keys, molto melodici, una canzone avventurosa e piena d’invenzioni, sopratutto negli spunti delle tastiere. “Run” è semplicemente sublime, questi sono gli Heart all’ennesima potenza, una tranche esemplare di big sound, come una cavalcata impetuosa attraverso una prateria sconfinata sotto un cielo di cristallo. “Bad Bad Boy”, invece, è un hard melodico metallico, sexy e ritmato, clamorosamente anthemico, con un assolo di armonica. “Someone Turn The Light On” è ancora una stesura magistrale, dove si intrecciamo magicamente Heart e Foreigner, segnata da un altro crescendo glorioso. “Want It” è l’unico omaggio al recente passato, vibra degli stessi ritmi ancheggianti degli Headpins, sensuale, un canto provocante, quasi un recitato, sopra una chitarra con wah wah a manetta, ed un arrangiamento tutt’altro che convenzionale, completato da un assolo pacato e beffardo. “(Don’t Stop) Keepin’ On” e il disco è già finito: pianoforte, ottoni, una chitarra molto heavy che conducono ad un ritornello tra il rhythm and blues e l’AOR, rifinita da un bridge imponente prima dell’assolo che si sviluppa classicamente lungo il tema melodico del refrain, è un grande sigillo per un grande disco che mi auguro qualche label illuminata si decida prima o poi a cavare fuori dal limbo delle lost gems.
Nella classifica dei dischi fantasma, quest’album d’esordio di Paul Laine occupa sicuramente uno dei posti d’onore. Non batte ‘Loud and clear’ dei Signal, ma ci va molto vicino. Edito da una major, prodotto niente meno che da Bruce Fairbairn, recensito entusiasticamente in mezzo mondo… ma, in concreto, quanti riuscirono ad ascoltarlo? Si dovette aspettare la ristampa della tedesca Long Island, che nel 1995 lo rimasterizzò con l’aggiunta di quattro bonus tracks, perché fosse realmente disponibile, e oggi questa ristampa è molto più semplice da reperire dell’elusiva versione originale, anche se i prezzi su eBay, caso forse unico, sono gli stessi per entrambe le edizioni, fra i trenta ed i sessanta dollari. Canadese, sotto contratto con l’agenzia di management che curava gli interessi anche di Bryan Adams e Loverboy, Paul Laine non ebbe difficoltà a trovare un ottimo deal con la Elektra, che gli dette l’opportunità di registrare un album con il principe dei produttori, Bruce Fairbairn. Eccellente polistrumentista, Paul per incidere ‘Stick It In Your Ear’ mise comunque su una backing band di tutto rispetto (Kenny Kaos alle chitarre, Mickey Curry dietro i tamburi, John Webster alle tastiere, René Worst al basso e altri ancora). Disco eccellente, ma che avrebbe potuto forse essere ancora migliore se Paul fosse riuscito a mettere da parte la sua fin troppo evidente soggezione all’hard melodico di matrice Bon Jovi (epoca ‘New Jersey’), da cui solo di rado riesce ad affrancarsi, come nella track d’apertura, “One Step Over the Line”, un masterpiece di potenza ed atmosfera che parte con un intro di pura grandeur fatto di percussioni, tastiere spettacolari e sciabolate di chitarre che lasciano il posto ad un riff di granito che taglia i veli dorati stesi dall’organo Hammond tra i flash di keys, il refrain anthemico ed urlato ed un bridge davvero sui generis che vede protagonista una chitarra lacerante su una base ritmica quasi jazz. Dopo questo trionfo di arena rock – a cui non è ovviamente estraneo il grandissimo lavoro di produzione di Bruce Fairbairn, che su questa sola canzone si produce anche al pianoforte – Paul propone con “We Are the Young” un class metal più convenzionale, dove la tessitura molto Whitesnake si contrappone al refrain melodico ed arioso. “Dorianna”, preceduta da un intro d’organo, è una power ballad d'ispirazione Journey ma interpretata in una chiave più elettrica e irruente. “Is It Love” è più vellutata, elettroacustica ma con un refrain imponente, mentre “Heart of America” si muove agilmente tra Bon Jovi e Loverboy, guidata dalle tastiere con un andamento anthemico. Molto californiana e decisamente party oriented risulta invece la divertente “Main Attraction”, ma è “Doin’ Time” l’altro pezzo da novanta del disco, un hard boogie blues che impasta Little Caesar e ZZ Top, rifinito dall’armonica: strepitosamente cool… “I’ll Be There” è una big ballad d'atmosfera, grandiosa e leggiadra nello stesso tempo, ma la conclusiva (nell’edizione originale) “Break Down the Barricades” torna a parlare la lingua di Jon e compagnia, con ottimo gusto ed il solito flavour anthemico. Le bonus tracks della ristampa Long Island sono quattro. Le prime due dicono veramente poco: “My Hometown” potrebbe fare il paio con “Break Down the Barricades” se non fosse che risulta un po’ monotona e inutilmente lunga; “Only Your Heart” suona come dei Journey più heavy e senza tastiere. Per entrambe si può usare lo stesso aggettivo: superflue. Altra musica su “Keep On Running”, che si snoda tra tastiere ed un tappeto di chitarre elettroacustiche decisamente western, autorizzando paragoni con Tattoo Rodeo e Tangier: super. Perché diavolo la lasciarono fuori? Anche “After The Rain” meritava l’inclusione, una bella power ballad ancora in bilico tra Bon Jovi e Loverboy. Nonostante la reperibilità minima, ‘Stick It In Your Ear’ fu il passaporto che permise a Paul di entrare nei Danger Danger, con cui registrò cinque dischi prima di lasciarli nel 2005 per seguire l’attività della sua nuova band, gli Shugaazer. Nel 1996 ci fu la sua seconda uscita come solista, ‘Can’t Get Enough’, poco più di un pugno di demo precedenti il suo arruolamento nei Danger Danger, l’ultima raccolta di materiale composto nello stile più canonico del nostro genere, considerato che prima con i DD, poi con gli Shugaazer, Paul Laine si voterà anima e corpo al new breed of melodic rock, scelta che gli ha (ovviamente) alienato le simpatie del vostro webmaster, che ha sempre trovato indigesto qualunque innesto pseudo moderno nel corpo dell’AOR.
Buona la seconda: con questa frase si può condensare la carriera artistica di Fred Curci, leader degli Alias. Erano, gli Alias, la sua seconda band, difatti. La prima erano stati gli Sheriff. Grande band, gli Sheriff: fulgido esempio di AOR canadese di elevatissima caratura. Ma, nonostante un contratto major con la Capitol, tour fortunati ed un buon airplay, gli Sheriff non vendevano dischi, per il semplice motivo che tra la Capitol USA e la filiale canadese non ci si era messi d’accordo su come e quanto distribuire il il prodotto negli Stati Uniti, dove risultava più o meno irreperibile. Avviliti da questo comportamento incoerente, gli Sheriff si sciolsero nel 1985, con Curci ed il chitarrista Steve De Marchi che continuarono a scrivere canzoni e registrare demo finché non capitò quello che non si può che definire un colpo di fortuna: un DJ cominciò a trasmettere di nuovo la canzone che aveva fruttato agli Sheriff un buon successo su Billboard, “When I’m With You”. Risultato: dopo sei anni, la canzone entrò in classifica per la seconda volta e la Capitol americana si decise (finalmente!) a stampare ‘Sheriff’ anche negli USA. Le condizioni sembravano propizie perché la band potesse prendersi quel successo che strameritava, ma quando Curci e De Marchi contattarono gli altri membri degli Sheriff, non li trovarono interessati ad una reunion: il key player Arnold Lanni ed il bassista Wolf Hassel avevano fondato i Frozen Ghost, erano alle prese con il loro secondo album e di tornare a lavorare con (o forse per) Curci non vollero saperne. Così, Fred arruolò Roger Fisher (chitarra), Steve Fossen and Michael Derosier (sezione ritmica), tutti ex Heart (Fisher aveva lasciato la band nel 1979, Fossen e Derosier nell’’82) e – forse per evitare polemiche con Lanni e Hassel – adottò un nuovo moniker, Alias, venendo subito rimesso sotto contratto dalla EMI Capitol, che spedì la band in studio con Rick Neigher come produttore, fornendo anche i servigi di diversi songwriters (Stan Diamond, Brett Walker, Jeff Paris) per confezionare un disco che non tradì le attese, dato che fu d’oro in USA e di platino in Canada (questo, almeno, afferma Fred Curci sul suo sito: che il disco abbia venduto, non lo metto in dubbio; che abbia totalizzato mezzo milione di copie, mi sento autorizzato a dubitarne considerato che su Billboard raggiunse appena il 114° posto). Disco senza emergenze, ‘Alias’, sia negli arrangiamenti che nel songwriting (Rick Neigher non è mai stato un produttore dallo stile particolarmente originale, tutt’altro), che punta tutto sulle canzoni, undici in totale, AOR di netta marca Canuck con precisi riferimenti ai Triumph che si succedono con regolarità lungo tutto l’arco dell’album, dall’iniziale “Say What I Wanna Say” (che mette subito a fuoco lo stile della band, fatto di tastiere vellutate contrapposte a parti di chitarra essenziali) con un refrain urgente che fa molto Foreigner, fino alla conclusiva “Standing In The Darkness” un hard melodico scanzonato che sembra uscito da un qualunque disco dei Big 80s della band di Rik Emmett. “Haunted Heart” aggiunge al cocktail qualche sfumatura Survivor, “Waiting For Love” richiama i più classici Loverboy nel giro pop delle tastiere ed i Boulevard per le linee melodiche, “The Power” sovrappone una trama rhythm and blues al solito ordito Triumph, un disegno riproposto anche su “Heroes”, ballad dal bel crescendo, fresca e ariosa. “What To Do” varia il passo proponendo una melodia anthemica che fa tanto Billy Squier, “After All The Love Is Gone” è di nuovo Canuck AOR prima di “More Than Words Can Say”, ballatona molto elettrica, il maggior successo della band a livello di airplay (suonata più di un milione di volte alla radio e numero 2 nella classifica dei singoli di Billboard), per i miei gusti un pelo troppo manierata. “One More Chance” è più tagliente e californiana, con bellissime linee melodiche sul pulsare del synth bass, mentre “True Emotion” aggiunge alla solita ricetta qualche spruzzo Journey. Gli Alias andarono pochissimo in tour, perché mentre stavano aprendo gli show per i REO Speedwagon i tre ex Heart mollarono i due ex Sheriff per le solite “divergenze musicali”, poi giunse il grunge a tagliare le gambe alla band, risorta inaspettatamente nel 2009 con ‘Never say never’, uno dei tanti dischi registrati e non pubblicati per colpa di Cobain e compagnia brutta, arrivato infine nei negozi per chissà quale miracolo, dove Curci e De Marchi irrobustivano un po’ le trame del loro sound e, sempre con l’aiuto di vari songwriter (tra cui Mark Baker, James Christian e Jess Harms), davano un degno successore ad un debutto che non è improprio annoverare tra i classici del nostro genere.
Tanti anni fa, tra le mie conoscenze annoveravo una persona che poteva ben definirsi un fanatico degli Iron Maiden. Ascoltava anche altro, il suo range era abbastanza ampio, dagli Slayer fino ai Guns N’ Roses, ma i Maiden erano la band prediletta, il punto di riferimento, il totem davanti a cui si prostrava quotidianamente in adorazione. Quando uscì questo disco, parto di uno dei chitarristi della sua band, lo acquistò incautamente a scatola chiusa, senza leggere prima una recensione, certo che Adrian Smith non potesse che seguire le rotte della navicella madre da cui era temporaneamente (così si supponeva) sceso. Ricordo ancora benissimo l’espressione della sua faccia quando gli domandai com’era l’album: più che disgustato, appariva inorridito. Disse: «È il genere di roba che piace a te. Se lo vuoi, te lo regalo ». Nel piccolo circolo di conoscenti che avevo in ambito metallaro, naturalmente venivo guardato come una sorta di strano animale, dato che preferivo quei mezzi finocchi dei Ratt o dei Motley Crue a déi del metallo duro e cazzuto come Manowar, Saxon o, appunto, Iron Maiden, e nomi come Bon Jovi, Journey o Foreigner era meglio non farli proprio in loro presenza, che al massimo tolleravano piccole dosi di Marillion di tanto in tanto (fargli notare che i suddetti avevano scopiazzato il loro maggior successo, “Kayleigh”, proprio dai Journey, era tempo perso). L’offerta, dunque, non era dettata da generosità o amicizia ma solo da una sorta di velato disprezzo, tipo: io non mi sporco con questa roba, misto alla necessità impellente di cancellare l’eresia appena consumata da uno dei più illustri membri del culto, rimuovendola come l’esperienza traumatica che in effetti era stata. La mia già consolidata diffidenza verso il rock melodico britannico non contribuì a mandarmi al settimo cielo, ma era comunque un vinile in omaggio, e il P2P era molto di là da venire, con tutto quello che segue. Preso dunque in carico ‘Silver and gold’, mi accinsi all’ascolto senza alcuna aspettativa particolare, sicuramente però stuzzicato dal giudizio negativo del fanatico di cui sopra e dalla più che benevola recensione nel frattempo pubblicata su un noto magazine nazionale dal nostrano guru dell’AOR, Beppe Riva, che concludeva il suo pezzo con queste parole: “forse, grazie a lui [Adrian Smith] il pubblico headbanger comincerà a conoscere e ad apprezzare una musica di classe, prima giudicata frettolosamente ‘wimp’, che nelle mani di un loro idolo può diventare stimolante”. Purtroppo, l’effetto del disco sugli headbangers auspicato da Riva fu di segno completamente opposto, come potei constatare di persona: non stimolante, ma deprimente. E come poteva mai, un fanatico delle cavalcate gotiche dei Maiden, trovarsi a proprio agio in questo caleidoscopio di stili e melodie dove andavano a fondersi alla perfezione AOR americano e prog? La raffinatezza del disco, la volontà di Adrian Smith di offrire qualcosa di originale in ambito rock melodico non trovarono però terreno fertile neppure tra i fans dell’AOR, considerato che ‘Silver and gold’ fu un flop commerciale. Il tempo ha fatto giustizia e oggi l’unico album degli A.S.A.P. passa di mano su eBay per non meno di trenta dollari, iscritto senza mezzi termini nel registro delle lost gems: una magra consolazione per Adrian, suppongo. Radunati tre membri della sua band pre-Maiden, gli Urchin (il futuro FM Andy Barnett, e Dave Colwell alle chitarre, e il formidabile tastierista Richard Young), arruolato come bassista Robin Clayton e come batterista il figlio di Ringo Starr, Zak Starkey, Adrian Smith (qui per la prima ed unica volta anche in veste di cantante) dunque decise (coraggiosamente, senza dubbio) di evadere dall’universo sonoro della vergine di ferro e suonare musica che potesse dire qualcosa di nuovo nel genere AOR, riuscendoci in maniera addirittura stupefacente. L’unica concessione al convenzionale che Adrian si concede è la pur godibilissima “Kid Gone Astray”, ispirata alle stesure più Springsteeniane di Bon Jovi, il resto del disco si snoda lungo un percorso avventuroso ed avvincente che inizia con “The Lion”, annunciata e chiusa da un disegno pulsante di tastiere, dinamica, con qualche vaga sfumatura Journey su una melodia per nulla scontata. La title track è un AOR spettacolare, suadente, notturno, ma con un irresistibile refrain che potrebbe venire dal songbook degli Autograph, arricchita da un arrangiamento molto movimentato di tastiere. “Down the Wire” è un altro momento strepitoso, quasi un anthem, come dei Def Leppard un po’ stralunati innestati su una ritmica imprevedibile, con un bridge fatto di chitarra acustica e giri avvolgenti di keys. “You Could Be a King” miscela con gusto AOR e prog, ma “After the Storm” è un’altra vetta dell’album, una sublime alternanza di acciaio e velluto, di potenza ed atmosfera, che traspone su un telaio hard rock temi presi a prestito da Yes e Styx. Anche “Misunderstood” non manca di stupire, un class metal marezzato da misteriosi flash di tastiere, con un refrain boogie al crocevia di Ratt e Great White intarsiato di sprazzi funky (!!). “Fallen Heroes” si realizza nell’alternanza tra le strofe dove galoppa un impasto esplosivo di chitarre e tastiere ed il refrain molto Yes, con il plus di un assolo spettacolare di chitarra. Neanche il party rock sfugge ad una rilettura originale, su “Wishing Your Life Away” la tecnologia si mescola al più classico suono californiano, e chiude “Blood on the Ocean”, che segue le stesse rotte di “After the Storm” ma è più dinamica ed elettrica, impreziosita da due lunghi assoli molto Neal Schon. Alla fine, l’unico effetto che ‘Silver and gold’ ebbe sulla carriera di Adrian fu quello di rompere i suoi buoni rapporti con Steve Harris e farlo escludere dai Maiden durante la pre produzione di ‘No Prayer For the Dying’. La sua band successiva, gli Psycho Motel, con due dischi all’attivo, non aveva più niente a che fare con il rock melodico, poi nel ’99 ci fu il ritorno negli Iron Maiden, e a quel punto gli A.S.A.P. erano solo un ricordo (sbiadito?) per Adrian Smith, ma non per quelli che nei Big 80s credevano che nell’hard melodico ci fosse spazio per sperimentare e trovare cose nuove: ‘Silver and gold’ dimostrò ad usura che questo spazio c’era, ma come altri dischi (basti pensare a ‘Modern Pilgrim’ di Mark Ashton, che ha più di un punto di contatto con ‘Silver and gold’) non riuscì a far breccia su un mercato che si era già cristallizzato attorno a modelli a cui i fans chiedevano che le band si attenessero in maniera rigorosa.
Catalogatelo sotto la voce “songwriter”, accanto a gente come Desmond Child, Mark Spiro, Mark Baker, Stan Bush, Steve Plunkett, Jeff Paris. Se nel cielo dell’AOR Tim Feehan (canadese, classe 1957) è passato come una meteora, la sua attività di autore di colonne sonore e produttore prosegue a tutt’oggi con successo, sopratutto in TV (ha scritto musica per Numb3rs, Las Vegas, Desperate Housewives, Boston Legal, My Name is Earl, Brothers & Sisters, Ugly Betty e Dio sa quanti altri film e telefilm). Dopo l’esordio con i Footloose nel 1980, Tim ci provò con la musica pop e due dischi nell’ ’81 e nell’ ’83 prima di entrare a pieno titolo nell’industria musicale come songwriter nel 1986. L’anno successivo venne il suo primo disco rock, ‘Tim Feehan’, pregevolissimo ma ancora una punta troppo soft, solo nel 1990 arriverà il capolavoro con questo ‘Full Contact’, un perfetto concentrato di AOR che trovava la sua forza nella qualità stellare del songwriting. Sorretto da una backing band da infarto (Brian MacLeod, Steve Lukather, Michael Landau, Bruce Gaitsch, Mike Baird, C.J. Vanston e tanti altri ancora), coadiuvato in prevalenza da MacLeod al songwriting e da David Cole per la produzione, Tim Feehan inaugura il disco incidendo per sé la “Heart in pieces” che assieme a Brian MacLeod aveva scritto per i Chicago due anni prima: drammatica e intensa, una gigantesca porzione di big sound dominata dai flash di tastiere ed una chitarra solitaria e lacerante. “It Ain’t Easy” è uno scintillante funky hi-tech che rimanda al quasi contemporaneo lavoro di Richard Marx, ‘Repeat Offender’, allo stesso modo della vellutata “Somebody Else’s Moment” (con un ombra di Bad English in più, e non per caso, dato che su questa canzone ha messo mano Mark Spiro). “Something to Hide” è dinamica e ritmata, fatta di tastiere pulsanti, basso slappato, chitarre che dalle retrovie erompono all’improvviso esplodendo in riff imponenti. “Stand” è il peso massimo dell’album, un anthem condotto da un riff elementare, con un po’ di quello sculettare tanto caro a Brian MacLeod, mentre “Dive!”, pur impostata anch’essa su un andamento anthemico, è più tecnologica e sinuosa, con uno straordinario intrecciarsi dei cori. “Can’t Let Go” è una stesura notturna, movimentata, struggente, tra i Giant era ‘Last Of The Runaways’ e gli Honeymoon Suite, “Feel It Believe It” è invece scanzonata e solare, un po’ alla Huey Lewis. “Just Like You and Me” sculetta che è un piacere anche se ha un refrain molto rhythm & blues: è chiaro che MacLeod ha contribuito con l’intelaiatura, il riff e le strofe mentre Tim c’ha messo il ritornello. “Look Before You Leap” chiude con un’altra tranche di sconfinata melodia, tra Chicago e Foreigner. Dopo questo album venne “Pray for rain” nel 1996, sempre contraddistinto da un songwriting di grandissima classe ma molto meno elettrico, poi il silenzio, rotto nel 2003 dalla raccolta di demo ‘Tracks I Forgot About’. A livello di songwriting, Tim Feehan lascerà un’altra traccia indelebile nel nostro genere componendo assieme a Brian MacLeod l’unico album di Chrissy Steele (per saperne di più, seguite il link). Attendere ulteriori segnali da lui non mi pare sia lecito: troppo poco remunerativo l’AOR, ormai, perché Tim possa offrirci qualcosa più di qualche vecchio demo registrato ai bei tempi che furono.
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