Stavolta cominciamo dal principio. Nella Bibbia dell’AOR, i Journey
sono il Libro della Genesi. Fiat
Lux... Il 1981 è il nostro momento zero, ‘Escape’ l’attimo in
cui esplose la luce fatale. Per un po’ ci godemmo le delizie del
Giardino dell’Eden, e poi su un certo albero si arrampicò un serpente
giunto da Seattle, cantando di un illusorio Nirvana... tanto illusorio,
falso e ridicolo che il serpente finì intossicato dal proprio stesso
veleno. Ma era troppo tardi, il Giardino era già stato spogliato e
devastato, e noi lontani, e la luce ridotta solo ad un barlume fioco. C’è chi si contenta di questo lucore malaticcio, di questo brancolare fra le ombre. Di razzolare tra replicanti mangiacrauti che vent’anni fa venivano correttamente considerati rincalzi di seconda o terza linea ed oggi fanno i galletti soltanto perché non c’è nessun altro a cantare nel pollaio, ed operine balbettanti registrate tra il soggiorno e la cucina da reduci pesti ed ammaccati di quegli anni gloriosi che s’affannano ad ammucchiare dischi su dischi per pagarsi almeno l’affitto e tre pasti al giorno con la misera percentuale che gli spetta sul migliaio di copie che poche etichette volenterose riescono a piazzare su un mercato incerto e rachitico. Io non posso. Io ricordo. Da dove cominciamo? Dai Santana? Lì
si incontrarono Neal Schon e Gregg Rolie (anzi, fu Gregg a portare Neal
nei Santana, dopo averlo visto suonare in un club, e si mormora che Eric
Clapton si dannò l’anima per tentare di strapparlo - senza riuscirci,
ovviamente - alla neonata band del chitarrista messicano). I Santana
collassarono per gli eccessi del loro leader e Neal e Gregg si
ritrovarono a piedi, e il loro manager Herbie Herbert pensò che il
tempo fosse maturo per organizzare una band nuova di zecca, mettendo i
due in contatto con Ross Valory, bassista della Steve Miller Band. La
line up che entrò in studio per registrare quello che avrebbe dovuto
essere il primo disco era completata da un altro chitarrista, George
Tickner, e dal drummer Prairie Prince, ma quanto inciso da questa
formazione non è mai stato pubblicato (perché? Quien
sabe?). Prince se ne andò e al suo posto venne arruolato Aynsley
Dumbar, ex Mother Of Invention (la backing band del genio Frank Zappa) e
poi titolare di una propria band gli Aynsley Dumbar’s Retaliation (i
loro due album sono stati ristampati diversi anni fa). E finalmente, nel
1975, i Journey (scartato - fortunatamente... - il primitivo monicker
di The Golden Gate Rhythm Section) esordiscono con l’album
omonimo, un lavoro quasi tutto strumentale, tra westcoast, folk e prog,
molto lontano da quanto sarebbe venuto dopo. Le cose non cambiarono né
su ‘Look into the future’ (1976) né su
‘Next’(1977), anche se su
quest’ultimo album il sound della band cominciava ad irrobustirsi.
Tickner salutò, lasciando Neal padrone assoluto delle chitarre, e dopo
la breve parentesi del tour con Robert Fleishman (che a tutt’oggi
vivacchia su quella temporanea collaborazione, e dovunque appaia ci
tiene sempre a qualificarsi come “ex-Journey vocalist”:
probabilmente se l’è fatto anche tatuare sulla fronte), entrò nella
band Steve Perry per occuparsi di quelle parti vocali che erano gestite
(molto bene, per la verità) da Gregg Rolie. Steve Perry aveva
cominciato come batterista, girovagando con poca fortuna tra band
minori, l’ultima erano stati gli sfortunati Alien Project, sciolta
anche questa aveva meditato addirittura di ritirarsi dal music business
e meno male che era arrivata l’offerta dei Journey, con il suo
ingresso formalizzato dopo un giro di concerti come supporto per gli EL&P. ‘Infinity’
è il primo giro di boa, un milione di copie vendute, da quel momento è
un’ascesa inarrestabile, prima ‘Evolution’
(1979) poi ‘Departure’ (1980) e il
doppio live ‘Captured’. Frattanto,
Dumbar aveva lasciato il posto all’ex-Montrose Steve Smith
(ritroveremo Aynsley prima nei Jefferson Starship e poi negli Whitesnake),
e anche Gregg Rolie se n’era andato via, amichevolmente, suggerendo
lui stesso a Neal il nome del possibile successore: il tastierista di
una band che aveva riscosso notevole successo con un paio di singoli, i
Babys, un certo Jonathan Cain... E arriviamo infine al 1981, ad ‘Escape’.
La Fuga. Verso un futuro che la band forgia con le proprie mani, aiutata
dal solito Kevin Elson e da un nome nuovo tra i produttori, un tale Mike
Stone... Lo scarabeo (o quello che cavolo
è) che la band ha scelto come proprio leitmotif iconografico diventa un’astronave che spacca una sfera
mandandola in frantumi. Quella sfera sono gli anni ’70, e il balzo in
avanti è talmente poderoso che per il nuovo materiale si deve trovare
un’altrettanto nuova etichetta. E’ nato l’AOR, il rock per gli
over 18. Nel giro di un anno il nuovo genere si definisce attraverso le
opere di artisti vecchi e nuovi, i Foreigner e i Toto di ‘IV’,
il Bryan Adams di ‘Reckless’, i
Survivor di ‘Eye of the tiger’, gli
esordi di Aldo Nova e Loverboy... Ma la caratura di ‘Escape’
è tale da situare l’opera su un piedistallo che sovrasta largamente
le prove di tutti i colleghi. Mike Stone e Kevin Elson fanno piazza
pulita del vecchio suono della band, dando alle nuove canzoni un impatto
tecnologico che all’epoca dovette sembrare strabiliante e ancora oggi,
dopo la bellezza di un quarto di secolo (!!!) si mantiene di una
freschezza ed un’attualità forse senza pari.
Le idiote teorie punk sull’immediatezza ed il low-fi (che, a
pensarci bene, non sono poi tanto distanti dal pestifero agire del
cantautorato nostrano, ben esemplificato da Teddy Reno il quale, in una
canzone sussurrata nel film “Totò, Peppino e la malafemmina”,
sosteneva che tutto quello che occorre per fare grande musica sono na voce, na chitarra e o ppoc’ e luna...) venivano spazzate via da
un sofisticato melange di sonorità ricche e potenti, mai fini a se
stesse ma calibrate ad arte per illuminare i nuovi spazi sonori in cui
la band si avventurava con talentuosa sicurezza. Il confronto con quanto
inciso su ‘Departure’ appena un anno
prima non può che stupire, il modo in cui la band si reinventa ha del
miracoloso, dieci canzoni che diventano istantaneamente altrettanti
standard, libri di testo da consultare, da cui (sopratutto) copiare e
ricalcare. Con ‘Escape’, l’hard rock
diventa una volta per tutte melodico,
ma rimanendo sempre hard rock.
Perché questo non è affatto un disco moscio, pop, di ballad ce ne sono
soltanto due, “Still they ride”, che ha
qualche accento power, e “Who’s crying now”:
preferire l’una all’altra è come sostenere che Nicole Kidman è
più sexy di Charlize Theron o viceversa, eppure sembra che i fans si
scannino volentieri su queste due canzoni, dividendosi in maniera
abbastanza netta tra chi preferisce l’una all’altra. Io pendo per
“Who’s crying now”, la frase melodica
del piano di Jonathan Cain contrappuntata dal basso è pura magia, la misura
di questo pezzo è così esemplare e straordinaria che a tutt’oggi nessuno
ha osato confrontarcisi tentando di rubare quelle poche note così
sapientemente modulate (ma debbo attenuare la perentorietà di quel
nessuno, dato che ricordo almeno due furti: uno da parte dei Ten -
chi altri? - su "Someday", l'altro fatto dai Marillion, per "Kayleigh"). “Still they ride”
è più sognante e nel contempo ha qualcosa di epico, solenne, glorioso.
Preferire l’una o l’altra è questione solo di gusti personali,
tutto il resto sono scemenze (e comunque, io, tra Nicole e Charlize, non
sceglierei: le arrafferei al volo entrambe). Delle altre nove canzoni
c’è poco da dire salvo per il fatto che, come già detto, sono nove
standard, e se nel rock vigesse lo stesso modus operandi del jazz, non
ci sarebbe disco di AOR senza una versione di qualcuna di esse.
Naturalmente, questi undici pezzi li abbiamo riascoltati tante e tante
volte sotto falso nome, in tutto o in parte, al punto che un novello
adepto della fede che, dopo aver frequentato lungamente le opere di
epigoni vecchi e nuovi, si ponesse (finalmente) all’ascolto della band originale,
potrebbe quasi restare deluso, chiedersi se i Journey sono tutto qui...
almeno fino al momento in cui non ricordasse che la data sul disco è
“1981”... e poi, focalizzasse la propria attenzione su
quello che resta un particolare unico e - ad oggi - inimitabile di
questa band: la voce del suo cantante. Definire unica la vocalità di
Steve Perry (lo Steve Perry degli anni ’80, non la sua versione rauca
dei nostri poveri giorni) è assolutamente corretto: quello che più gli
era vicino per qualità è stato Michael Matjievic degli Steelheart, ma
solo sul piano squisitamente tecnico: la stupefacente estensione (che
Matjievic forzava nella dimensione più metallica ed aggressiva della
propria band), la padronanza, l’espressività. Ma le similitudini si
fermano lì. Steve Perry era capace di impeccabili acuti violinacei
eppure la sua voce aveva una pastosità ed una morbidezza da cantante
jazz, una confidenzialità da
piano bar senza mai cadere nello stucchevole (nello stucchevole ci finirà
però quindici anni dopo, quando, a corto di fiato, trasformerà tutte
le ballad di ‘Trial by fire’ in roba
degna del nostro - simpatico, comunque - Fred Bongusto), e questo
persino nei pezzi più tosti e veloci: sul blues di “Lay
it down”, sul rhythm and blues di “Dead
or alive”, sui tempi serrati di “Keep
on runnin’ ”, nella cavalcata dal retrogusto prog di “Escape”.
E’ la sua voce che dà il pathos e sottolinea la grandiosità di “Mother,
father”, che rende “Stone in love”
una perfetta scheggia di hard rock melodico, eccetera eccetera. (Con
questa band si rischia sempre di ridurre ogni discorso ad una sfilza di
superlativi, ma è veramente difficile rimanere sobri e distaccati
quando si discetta degli déi dell’AOR...). Consumati gli elogi di Mr.
Perry, non si può non fare quelli di Jonathan Cain. Il nuovo arrivato
è subito diventato protagonista nel songwriting, tutte le canzoni
portano la sua firma, ed anche il suo modo di suonare stacca una volta
per tutte la band dall’atmosfera seventies,
i vecchi sintetizzatori analogici spariscono, niente organo Hammond e
Moog, col loro suono fascinoso ma datato, soltanto pianoforte e
Wurlitzer, e archi per la conclusiva “Open arms”. Per quanto riguarda Neal Schon...
Di lui si può dire solo che è un mostro ed un enigma. Un mostro di
bravura, e camaleontico come pochi o forse nessuno. Riesce quasi
difficile credere che è lo stesso uomo quello che sfiora la chitarra su
‘Late nite’ (forse il migliore dei suoi
album solisti) tratteggiando quadri languidi e notturni, e poi su ‘Through
the fire’ massacra le corde del suo strumento esplodendo come
un vulcano. Pensi di aver individuato il suo modo di suonare, credi di
riconoscere la sua identità quanto meno nelle timbriche cristalline o
affilate della sua Paul Reed Smith... e lui se ne esce con un lavoro
come ‘Piranha blues’: rauco, abrasivo,
fumoso, sporco in una maniera deliziosamente indecente, roba che sembra
registrata su un quattro piste con le testine consumate nel retro di un
fetido bar in Louisiana (ne riparleremo nella sede più adeguata
dell’Hard Blues Department). Ascoltate l’assolo di “Who’s
crying now”: timbrica chiara, non una nota più del dovuto; poi
saltate a “Lay it down”, quegli accordi
blueseggianti che aprono sfrigolando la canzone. E’ lo stesso uomo a
suonarli? Sì! E la qualità veramente miracolosa di Neal è la assoluta
convinzione che mette in ogni singola nota: nulla è mai forzato. Come
un grande attore, Neal Schon muta pelle con grazia e bravura sublimi,
passando da un ruolo all’altro senza imbarazzo, con semplicità ed una
spontaneità assolute. Chiedersi qual’è il Neal Schon “vero”
probabilmente è come interrogarsi sul sesso degli angeli. ‘Escape’
album lavorato allo spasimo, iperprodotto, ogni nota suonata e risuonata
fino alla nausea, ogni ritmo controllato col metronomo? Macché! Venne
registrato in appena sei settimane. Jonathan Cain ha dichiarato poco
tempo fa che Steve Perry incise
le parti vocali di “Mother, father” in
appena due riprese, e in studio tutto fluiva liscio, senza intoppi. “Open
arms”, Jonathan l’aveva scritta ai tempi dei Babys, andò a
casa di Steve Perry e gliela suonò sul piano Wurlitzer, Steve se ne
innamorò subito e quel pomeriggio stesso scrissero assieme il testo, e
la canzone era pronta, bella che finita. Ognuna delle undici tessere che
compongono il mosaico di ‘Escape’ è la
testimonianza di uno stato di grazia, che travalica il mestiere, la
tecnica e la malizia. E non si può che credergli, quando Jonathan Cain
dichiarava: “ Tante volte, mentre suonavo assieme agli altri, mi
sentivo come se fossimo da qualche altra parte, nel cielo di Berkley,
volando...”. Con ‘Escape’,
i Journey raggiunsero per la prima volta il numero uno della classifica
di Billboard, e tra un tour assieme ai Rolling Stones (venivano
presentati non come supporter ma nel ruolo di “special guest”),
spettacoli da headliners (furono i primi in assoluto ad usare degli
schermi giganti durante gli shows), progetti paralleli, ci vollero due
anni per sfornare un nuovo LP. ‘Frontiers’
si fermò al numero 2 di Billboard, ma lo tenne per la bellezza di nove
settimane mentre la vetta era presidiata saldamente da Michael Jackson
con ‘Thriller’, l’album più venduto
della storia della musica pop. ‘Frontiers’
ebbe una gestazione travagliata dal nuovo fronte su cui i Journey
lavoravano, quello delle colonne sonore. Già “Open
arms” era finita nella soudtrack del cartoon “Heavy Metal”,
poi altri due pezzi vennero destinati a quella di “Tron”. Hollywood
chiedeva di continuo canzoni ai Journey, e così due brani destinati a
‘Frontiers’ vennero prelevati per le soundtracks dei film
“Visionquest” e “Two of a kind”, “Only
the young” e “Ask the lonely”.
E dato che Hollywood paga salato ogni canzone e vuole rientrare delle
spese vendendo su disco le colonne sonore dei suoi film, questi due
pezzi dovettero venir esclusi dalla scaletta, e si potevano ascoltare
solo acquistando le soundtracks dei film citati. Ma dopo tredici anni,
“Only the young” e “Ask
the lonely”, tornano - diciamo così - nella loro legittima
casa, dato che nella recentissima ristampa del disco vengono proposte
(assieme a “Liberty” e “Only
solution”) come bonus tracks. E la ristampa è anche il casus
belli di questa recensione, dato che il webmaster si è deciso a
mandare in pensione la sua copia in vinile di ‘Frontiers’
- che ormai è un graffio unico - cogliendo la scusa dell’inclusione
di quelle due canzoni nella nuova edizione rimasterizzata. La qualità
audio di questo CD è davvero fenomenale: già avevo sperimentato con le
riedizioni di ‘Slippery when wet’ e ‘New
Jersey’ dei Bon Jovy gli effetti quasi miracolosi che può
avere un remastering fatto come si deve, ma la pulizia e la ricchezza
del suono di questo CD lasciano quasi sbalorditi. Some day / Love will find you... Qualcuno
si ricorda del videoclip di “Separate ways”?
Facevano finta di suonare muovendo le mani nell’aria, ed era veramente
strano vedere Neal alle prese anche lui con l’air
guitar... Dopo “Who’s crying now”,
“Separate ways” è la mia canzone di
sempre dei Journey, la canzone che vorrei avere con me, a portata di
mano, per farla ascoltare a chi mi chiede che cavolo è questo AOR e
sopratutto cos’ha di tanto speciale. Show, don’t tell! cantavano i Rush, ed eccovi una canzone che può racchiudere in sé meglio di ogni altra il
senso dell’Adult (non “album”, Cristo!) Oriented Rock, inutile
perdere tempo in chiacchiere, ascoltate e basta. “Send her
my love” è un altro punto di riferimento assoluto tra le
ballad, sognante, quasi eterea, attraversata dalla chitarra di Neal come
una trama dorata. E via di questo passo... Altri dieci standard,
stracopiati in tutto o in parte da un paio di generazioni di seguaci di
un suono che in questo disco la band mette definitivamente a fuoco, con
timbriche ancora più luccicanti e cromate, una produzione più
raffinata e multilayered, che
non si nega la fisicità nel funk addirittura abrasivo di “Back
talk”, e le reminiscenze prog (“Troubled
child”, con un ritornello molto Yes e Steve che pare quasi fare
il verso a Jon Anderson, e la title track). Tra un lunghissimo tour (otto mesi
tra USA e Giappone, nel booklet del CD sono riportate le date una per
una) e i progetti individuali, per avere un nuovo album ci vollero tre
anni, stavolta. E ‘Raised on radio’ non
ripagò certamente la lunga attesa. Nel 1984, Steve Perry aveva
pubblicato il suo primo disco solista, ‘Street
talk’, e l’album era andato così bene che la CBS mise
praticamente i Journey nelle sue mani, esautorando gli altri. Steve
prese tutta la responsabilità della produzione, emarginò Neal Schon,
fece licenziare Ross Valory e Steve Smith (e l’influenza di Perry
sulla label era diventata tale che neppure Herbie Herbert poté opporsi)
e riuscì persino ad inimicarsi il fedelissimo Jonathan Cain. Le parti
di basso e batteria furono affidate a vari session men, tra cui
spiccavano Randy Jackson al basso e Larry Lodin alla batteria (Steve
Smith riuscì a suonare su due canzoni prima di venire buttato fuori).
Perfino sul titolo dell’album, Steve trovò da ridire, cambiandolo
contro il parere degli altri dall’originale ‘Freedom’ in ‘Raised
on radio’. Il peggio che si può dire di ‘Raised...’,
comunque, è che rappresenta soltanto una continuazione di ‘Street
talk’. Questi, insomma, non sono più i Journey, ma Steve Perry
con i Journey (o quel che ne resta) che suonano dietro di lui. Almeno
quando Steve gli permette di suonare. Dov’è finito Neal Schon? Lo sentiamo distintamente sulla title track, su
“Be good to yourself”, su “I’ll
be allright without you” e poi? In
“Positive touch” l’assolo è delegato
ad un sassofonista... Hai in studio Neal Schon e chiami un sassofonista
per fare un assolo?! ‘Raised on radio’
è un disco che può interessare davvero solo chi apprezza le frange più
soft dell’AOR, quelle che sconfinano nel pop. Il songwriting è buono,
ma, ripeto, questi non sono più i Journey, ma la Steve Perry Band.
Steve - come era successo o succederà a Freddy Mercury, Michael Bolton,
Jimmy Barnes - cade vittima della Sindrome della Grande Voce: non vuole
più essere parte di qualcosa, un elemento (sia pur importante) di una
certa alchimia sonora, desidera solo un minimo tappeto strumentale, uno
sfondo discreto e poco appariscente contro cui la propria vocalità
possa spiccare in tutta la sua magnificenza. E, naturalmente, questo
gioco poco doveva piacere a Neal Schon e Jonathan Cain; così, nonostante
le vendite tutto sommato buone (‘Raised on radio’
arrivò al numero 4 della classifica di Billboard), la svolta pop finì
per ammazzare i Journey; e proprio, ironia della sorte, nell’anno in
cui l’hard rock melodico più metallico conquistava grazie ai Bon Jovy
i favori del grande pubblico. Le strade degli ex compagni si
sono incrociate spesso e volentieri, tra band parallele e carriere
soliste più o meno luminose. Tra le cose più belle, ricordiamo,
ovviamente, i supremi Bad English, dove Neal e Jonathan si alleavano ad
un altro singer straordinario, John Waite; e poi il progetto H.S.A.S.,
con Neal Schon che assieme al vecchio compagno dei Santana Michael
Shrieve, il grande Sammy Hagar e Kenny Aaronson dava un saggio esemplare
di infuocato hard rock americano (un solo album, ‘Through
the fire’, registrato dal vivo ma ampiamente ritoccato in
studio); gli Storm, che vedevano Ross Valory e Steve Smith riunirsi a
Gregg Rolie ed al Perry-clone Kevin Chalfant. A metà anni 90, proprio Steve
Perry (il quale onestamente ammise di essere stato causa e motivo della
fine della band) ricontattò tramite John Kalodner (definito con grande
acutezza da Steve “l’Henry Kissinger del rock”) Jonathan Cain
prima e Neal poi per rimettere assieme i Journey. La reunion del ’96
produsse un disco che personalmente ho trovato deprimente, e tutto ciò
che penso di ‘Trial
by fire’ lo potete leggere seguendo il link. Dopo è
subentrato Steve Augeri, e sono venuti due buoni album, che in Europa
sono pubblicati dalla Frontiers. E se qualcuno avesse detto a Neal e
soci che venticinque anni dopo ‘Escape’,
i Journey avrebbero raccolto la fiducia solo di una minuscola e
coraggiosa label italiana per proseguire il proprio, quasi sempre
impeccabile cammino... C’è sicuramente molto di paradossale, di
strampalato nelle vicende discografiche odierne dell’AOR, genere
americano per antonomasia che le labels americane non vogliono più
pubblicare nel proprio paese, lasciando il testimone a etichette
tedesche, svedesi, italiane, giapponesi. Sarebbe - fatte le debite
proporzioni - come se le case discografiche italiane, di colpo,
decidessero che il cantautorato, dopo i fasti degli anni ’70 e ’80,
non rende più a sufficienza, e lasciasse a terra Baglioni, De Gregori,
Dalla, eccetera, e questi trovassero asilo presso qualche label
americana, ma senza distribuzione in Italia, che si adattasse a vendere
qualche copia dei loro album solo in Nebraska o nel New Mexico a pochi
consumatori originali. Immaginate un cowboy texano che sorveglia le sue
mandrie in groppa ad un cavallo ascoltando “Questo piccolo grande
amore”. Oppure una Cadillac anni ’50 lanciata su una di quelle
highway che corrono dritte come raggi di luce fino ad un orizzonte
lontanissimo tra praterie che sembrano oceani d’erba mentre dalle
casse dell’autoradio esce la voce di Paolo Conte che brontola
“Genova per noi”. Fa ridere, vero? Come i Journey ascoltati ormai
solo a Berlino o a Stoccolma, magari... Perché accade tutto questo? Perché il nostro genere manca di prestigio. Perché la critica ufficiale ci snobba. Sull’ultima guida alla musica rock di Rolling Stones, i dischi dei Journey hanno una media voto di due punti e mezzo su un massimo di cinque. E poco importa che ormai il totale delle vendite globali della band abbia superato i cento milioni (!!) di dischi in tutto il mondo e che Hollywood gli abbia regalato una stella sulla Walk of Fame di Los Angeles. Eppure, queste ristampe non vengono proposte da una piccola etichetta specializzata come la Rock Candy o la Cherry Red, ma dalla Sony, che ha ripubblicato rimasterizzandolo tutto il catalogo dei Journey e c’ha aggiunto due DVD: un live del 1981 ed una raccolta di 18 videoclip. Insomma: i dischi vecchi (e neanche poi tanto, dato che ‘Trial by fire’ è del 1996) sì, ed il materiale recente no. Perché? Forse che tutti quelli che compreranno queste ristampe sono vecchi nostalgici? E’ questo che la Sony pensa? E valeva poi la pena di darsi tanto da fare per un pugno di quarantenni sconsolati: il remastering, le bonus tracks, la nuova grafica dei booklet... ? C’è una sfasatura, in tutto questo, così evidente e plateale da rasentare il grottesco. Dov’è il maledetto senso? Perché l’industria musicale si fa in quattro per vendere i Coldplay o i Muse e non dà neppure un misero contratto di distribuzione ai Journey? Ai posteri...
La versione femminile di Joe
Cocker... è così che Paul Sabu definisce nel booklet di questa
ristampa la sua protetta Alexa Anastasia. E’ la verità?
Assolutamente sì. Potremmo anche paragonare la voce di Alexa a
quella di Tina Turner, una Tina Turner meno acuta e molto più rasposa.
O una Lee Aaron al testosterone. Fate voi. Se amate le voci femminili
flautate ed acute, se per voi esiste solo l’ugola da usignolo
d’acciaio di Ann Wilson, statene lontani. Vi dico solo che nella
track d’apertura, “I can’t shake you”,
è facile prendere questa voce per quella di un formidabile cantante
di sesso maschile. A chi scrive, da sempre innamorato delle voci
rauche ed impastate, va benissimo così. Alexa Anastasia... L’aveva
scoperta proprio lui, il grande Paul Sabu. Il suo unico album era
praticamente un’estensione del progetto Only Child, con Paul a
produrre e suonare la chitarra, ed il key player degli OC Tommy Rude
alle tastiere. Tutte le canzoni salvo una portavano la firma di Paul
Sabu ed altri songwriters (fra cui Joe Lyn Turner). Fin qui, tutto
bene. Ma, come ho già sottolineato nella recensione del primo Only
Child, gli agganci di Paul Sabu non arrivavano fino alle majors.
Questo disco uscì per la piccola indipendente Savage, e si candidava
autorevolmente alla partecipazione come ospite d’onore ad
un’ipotetica puntata speciale di “Chi l’ha visto?” dedicata
alla produzioni musicali. Lode alla MTM che è andata a ripescarlo e
l’ha rimasterizzato (molto bene, oltretutto). Se amate gli Only Child, questo
disco sarà una festa per le vostre orecchie, anche se bisogna
rimarcare certe differenze dalla navicella madre, in particolare
l’approccio più keys-oriented che però non si traduce in
tentazione pop, dato che Tommy Rude era un tastierista dal tocco
pesante e capace di timbriche e arrangiamenti poco convenzionali ma
sempre assolutamente rock: direi addirittura che la vera rivelazione
di quest’album era proprio lui, che fin dall’iniziale “I
can’t shake you” dimostrava di non volersi piegare a fare
tappezzeria, come spesso e volentieri accade a chi suona le tastiere
in una hard rock band. La canzone è un tipico anthem alla Sabu, con
un gran chitarrone in evidenza, mentre la successiva “We
don’t remember why” è più ritmata e fa meno
arena rock. “Dance the night away”
ricorda molto le cose più AOR di Lee Aaron, “Wanderlust”
innesta sul tipico Sabu sound un refrain alla Scorpions, notevole
l’alternanza tra il coro imponente e le strofe suadenti. Tastiere
particolarmente “pesanti” caratterizzano “Let
it rock”, bella serrata, “A cry away”
è il piccolo masterpiece dell’album, una power ballad dal refrain
sinuoso, l’assolo è tutto demandato alle keys, come degli Hurricane
in versione AOR? Grande atmosfera su “Cool
wind”, lenta e maestosa, poi c’è il bel crescendo di “Heart
to heart”, ancora con una parte solista di keys impostata -
mi sembra - sul Moog e sul Mellotron, e le tastiere sono protagoniste
anche sul classico “Spooky”, smaltata
(ovviamente) di rhythm and
blues. Chiude “From
now on”, col suo clima drammatico, quasi una power ballad. Alexa meritava certo più
attenzione di quanta ne abbia avuta, provò anche a fare l’attrice,
il fisico non le mancava, eppure la copertina di questo disco non
puntava sul suo notevole personale, un semplice disegno stilizzato,
bastava quella voce fenomenale, pensarono forse quelli della Savage,
invece...
Belle, sexy, con voci favolose...
ma quante erano, nei Big 80s?
E che fine hanno fatto? Ci si sarebbe potuto fare un numero speciale
di Playboy, tante erano... Brian MacLeod buonanima doveva essere uno di quelli
che in mezzo alle belle figliole ci sguazzava con sommo gaudio.
Prima aveva messo su gli Headpins, con Darby Mills alla voce (una
che prima di mettersi a cantare, faceva la modella), poi - forse
assodato il fatto che gli Headpins non stavano andando da nessuna parte
- mollò Darby (che si rifece viva poi nel 1992 con una propria
band, gli Unsung Heroes, per un bel disco, ‘Never
look back’) e si concentrò su Chrissy. Il vecchio moniker
venne messo da parte, e anche se Chrissy Steele si limitava su
questo disco unicamente a cantare, Brian il volpone credé
opportuno ripresentarsi al pubblico schiaffando il nome della
sua nuova singer in copertina, offrendo anche agli occhi avidi dei
possibili acquirenti una foto della stessa tutt’altro che
castigata. Bene, perché no? Perché invocare modestia e pudore
quando madre natura ha operato con tale e tanta grazia? E se
qualcuno poteva malignamente obiettare che si trattava della solita
strategia delle band di rock duro, riempire gli occhi per coprire il
vuoto, si poteva sempre rammentare allo scettico di turno che una
delle più apprezzate band underground, i Boss Hog di Jon Spencer,
piazzarono sulla copertina di un EP la loro cantante (e moglie di
Jon, fra l’altro...) completamente nuda (per soprasomma, la
suddetta cantante, Cristina Martinez, spesso e volentieri si esibiva
anche dal vivo senza uno straccio addosso, ed era pure un gran bello
spettacolo, dato che la ragazza possedeva un notevole personale). E
perché non ricordare anche le performances di Inger Lorre, la
sconvolta singer dei Nymphs, che una volta, sempre su un
palcoscenico, davanti a qualche centinaio di spettatori allibiti, si
produsse in un lavoretto di bocca al suo ragazzo perché
– sono parole sue – aveva bisogno di mandare giù
qualcosa per schiarirsi la gola? E i dischi dei Genitortures, ed il
loro live show a base di giochini sado-maso in diretta orchestrati
dalla leader Gen? Le ragazze dell’ AOR e dell’hard rock, di
fronte a queste assatanate, facevano
la figura di suore canossiane... Ultimissima, lussuosa nota di
colore: ‘Magnet to Steele’ venne
registrato (è scritto nel booklet del CD) sullo yacht di MacLeod,
mentre navigava lungo la costa del Pacifico, e doveva essere un gran
bel navigare... Prima di associarsi a
MacLeod, Chrissy aveva fatto parte dei Reform School, in cui militava anche il chitarrista
Joe Wowk, poi nei Paradise di Doug Johnson. Del songwriting di ‘Magnet
to Steele' si incaricarono MacLeod (che suonava anche tutte
le parti di chitarra) e Tim Feehan (di cui
voglio ricordare gli splendidi ‘Full contact’
e ‘Pray for rain’, eccelsi trattati
di AOR canadese), con qualche contributo anche da parte di Jeff
Paris, Mike Reno e Scott Smith, mentre la sola “Cry
myself to sleep” portava in esclusiva la firma di
songwriters esterni (era stata scritta da Mutt Lange per i Romeo’s
Daughter). ‘Magnet to
Steele’ è un album bello tosto, dove la melodia viaggia
sempre su affilate trame chitarristiche: molto più hard melodico
che AOR, insomma; Chrissy aveva polmoni da vendere ma nello stesso
tempo sapeva ben prodursi sulle ballad, anzi, sulla ballad,
l’unica del disco, la già citata “Cry
myself to sleep”, che ha un coro (ovviamente)
Leppardeggiante, una canzone graziosa e niente più ma nobilitata da
un buon arrangiamento. Tutt’altra musica (in senso letterale ed in
quello lato) sulle canzoni scritte da MacLeod e Feehan. “Love
you till it hurts” è sostenuta da un tostissimo riff di
scuola AC/DC su cui va ad adagiarsi un coro suadente, “Armed
and dangerous” attacca con un altro riff crudo poi si apre
alla melodia, il contributo di Jeff Paris è palese nel refrain. “Move
over” è un po’ Ratteggiante, il tempo del coro è quasi
boogie, Chrissy urla come una pazza ma riuscendo a controllare
sempre mirabilmente la voce. “Love don’t
last forever” è una power ballad con qualche ombra Bon
Jovi mentre “Try me” è quasi
anthemica, un po’ alla Autograph, magari. “Two
bodies” è più d’atmosfera ma sempre bella soda, molto
Lee Aaron, con una piacevole alternanza tra parti più melodiche di chiaro stampo Def Leppard ed
altre anthemiche. “Murder in the first
degree”: dopo l’intro d’atmosfera di basso e keys entra
un gigantesco riff Zeppeliniano, la scansione ritmica del coro è di
nuovo boogie, formidabile. Tinte blues caratterizzano “King
of hearts” e “Magnet to steel”,
mentre “Two lips (don’t make a kiss)”
punta sull’atmospheric power, un po’ alla Michael Thompson Band,
ma molto più dura, ha solo il difetto di essere un pelo troppo
lunga. Nel complesso, il songwriting scintilla, il livello di tutte
le composizioni è elevatissimo, Chrissy aveva una voce fantastica,
come una Lee Aaron dai toni più alti e cristallini, ma
i riscontri furono modesti: questo disco uscì nel
terrificante 1991, proprio in contemporanea con il secondo album di
certi zozzoni di Seattle. Peccato non ci sia stato tempo per
un’altra crociera...
P.S. Non sia mai detto che il webmaster lasci i suoi fedeli lettori brucianti di curiosità inappagata: se volete dare un’occhiata a quella copertina dei Boss Hog – e avete compiuto diciotto anni – cliccate qui.
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