La miglior band del metal californiano, punto. E anche
uno dei primi e più inossidabili amori del vostro webmaster. Per
rilevanza storica e valore assoluto, tutti i cinque album della band (i
primi cinque, quelli veramente importanti, di ‘Ratt’
abbiamo già parlato, di ‘Collage’ è
meglio non parlare), si dovrebbero passare sotto il microscopio,
sezionarli canzone per canzone. Ma, detto francamente, non me la sento
di imbarcarmi in una impresa di queste proporzioni. Potrei concentrarmi
su un solo titolo, ma farei torto inevitabilmente agli altri. Se c’è
mai stato un gruppo compatto, sempre accuratamente focalizzato su un
certo sound e nello stesso tempo in grado di modularlo in mille varianti
senza mai ripetersi, questo sono stati i Ratt. Tra ‘Out
of cellar’ e ‘Detonator’ ci
sono differenze a livello di arrangiamenti e produzione, ma la sostanza
resta invariata, “Shame, shame, shame”
non è meno travolgente di “Round and round”,
dopo sei anni la band è sempre lì a farci ballare e sognare quella
California fatta di spiagge popolate di ragazze bionde pronte per il
paginone di Playboy, Corvette che sfrecciano luccicando sotto le palme
di Rodeo Drive, locali notturni consacrati al divertimento più
indiavolato, la California dei Big 80s, un eden esistito solo nella fantasia di quelli
che non ci vivevano, un paradiso di cartapesta, un eldorado che aveva la forza
dolce ed ammaliante dei sogni ad occhi aperti. E i Ratt, più e meglio di tanti
altri, sapevano farci sognare. La band nasce a San Diego, città natale del singer
Stephen Percy, come Mickey Ratt, conservando questo monicker dal 1979
fino al 1981. I Mickey Ratt si trasferiscono a Los Angeles nel 1980, e
conoscono i soliti, inevitabili avvicendamenti nella line up che vedono
succedersi nei vari ruoli futuri nomi grandi e piccoli della scena metal
di L.A., come Matt Thorne e Chris Hagar (poi nei Rough Cutt), Jake E.
Lee (anche lui nei Rough Cutt, poi nella band di Ozzy e fondatore dei
Badlands), Marq Torien (Bulletboys), e Tracii Guns. Proprio con Tracii
alla lead guitar la band, ribattezzata Ratt, esordisce su disco
partecipando alla prima, storica compilation ‘Metal
Massacre’ che nel 1982 segnò l’alba di quella che qualcuno
battezzò New Wave Of American Heavy Metal. Ricordo che su quel vinile
dalla anonima copertina in bianco e nero si potevano ascoltare le prime
prove discografiche anche dei Metallica (anzi, dei “Mettallica’: così
quelli della Metal Blade avevano scritto il nome della band…), con
Dave Mustaine e tal Lloyd Grant alle chitarre ed un James Hatfield che
si dedicava solo al canto. C’erano poi i Malice e gli Steeler (ancora
senza Malmsteen alla chitarra), sempre da Los Angeles, entrambi molto
classic metal, i Bitch, con la screamer Betsy alla voce, i Cirith Ungol,
oscuri signori del metallo epico, e poi, act destinati ad avere scarsa
fortuna, i Pandemonium, gli Avatar (che costrinsero i Savatage a
presentarsi con il monicker che conosciamo, dato che anche loro avevano
scelto di chiamarsi Avatar) e i Demon Flight. I Ratt contribuirono con
"Tell the world", poi inclusa
anche nel loro EP d’esordio autointitolato, uscito nel 1983 per la
Time Coast, che vedeva la band finalmente assestata con la coppia
d’asce Robbin Crosby (ex Phenomenon) e Warren De Martini (The Ripper,
poi con gli Enforcer, band che registrò un disco mai pubblicato). Alla
batteria era arrivato Bobby Blotzer, anche lui debuttante assoluto (ma
aveva partecipato ad un progetto poi abortito con Roger Romeo, il
chitarrista dei Legs Diamond), mentre al basso si era insediato Juan
Crucier (che aveva preso il posto del fratello Tom, anche lui bassista),
che per un po’ suonò sia nei Ratt che nei Dokken. ‘Ratt’ era un EP a
sei pezzi di ruvido metal yankee che attizzò l’interesse della
critica tanto che qualcuno si sbilanciò fino al punto di intravedere
nei Ratt i nuovi Aerosmith. Ma tra la firma del contratto major con l’Atlantic
e la pubblicazione del primo album, ‘Out of
cellar’, sarebbero cambiate tante cose, stravolgendo la
primitiva identità della band. Innanzitutto, nasceva il lungo sodalizio
con Beau Hill, appena entrato nel business della produzione dopo essere
stato membro dei seminali Shangai (a quando la ristampa del loro
disco?); in secondo luogo, i Def Leppard pubblicavano ‘Pyromania’,
un disco che i Ratt evidentemente ascoltarono con attenzione e molto
interesse. Perché era chiaro che le idee della band di Sheffield
stavano alla radice di gran parte del discorso musicale inaugurato con
‘Out of cellar’, anche se i riferimenti
di base variavano in una certa misura: se i Leppard navigavano tenendo
d’occhio il faro rappresentato dagli AC/DC, i Ratt si orientavano
tramite i Kiss, gli Aerosmith e sopratutto i Judas Priest. “Round
and round”, “Wanted man” e “Back
for more” (recuperata dal primo EP) erano i manifesti di un
nuovo modo di intendere la metallurgia pesante: la ritmica sculettante,
i riff geometrici e sopratutto il modo di cantare di Stephen Percy,
perfettamente bilanciato tra la sfacciata provocazione glam e le più
lineari melodie pop. Il look faceva il resto, bandendo il già
consolidato apparato scenico metallaro, le pose minacciose, le borchie,
la pelle nera, insomma tutto l’immaginario orrorifico/truculento in
cui erano rimasti invischiati al principio perfino i Motley Crue. Sarà
pure una leggenda, ma quella tasca che Stephen Percy si era fatta cucire
nella patta di tutti i suoi spandex e, prima di salire sul palco, veniva
riempita di una generosa quantità di ovatta, era un segnale eloquente
per decifrare l’orientamento della band verso tematiche ben diverse da
quelle che avevano caratterizzato l’heavy metal fino a quel momento.
Se ancora nel 1985 Ronnie James Dio cantava di Rock
and roll children eroicamente soli ed emarginati, di gente che
viveva di malinconia e della fede nel metallo, i Ratt già un anno prima
avevano dichiarato l’assoluta compatibilità tra il metal e
l’ottimismo, il volume alto e la gioia di vivere, i riff assassini e
lo spasso. E il pubblico, anche tramite la grancassa suonata da MTV,
trovò subito nei Ratt dei nuovi eroi, spingendo ‘Out
of cellar’ fino al numero 7 di Billboard (tre volte disco di
platino), facendo di “Round and round”
il singolo di maggior successo nella storia del metal californiano. Ci
furono tours con Billy Squier, Ozzy, Motley Crue e Bon Jovy, ed anche la
stampa più glamour non mancò di interessarsi alla band, grazie
sopratutto allo sciupafemmine Robbin Crosby, accreditato di relazioni
con la futura signora Coverdale, Tawny Kitaen, una delle protette di
Prince, Apollonia, ed un paio di playmates, quasi tutte immortalate
prima o dopo sulle copertine dei dischi della band. ‘Invasion of your privacy’,
primo seguito della storia, venne, come sempre accade, atteso al varco:
da tutti i punti di vista, il secondo album è per una band sempre più
importante del primo: deve dare delle conferme, dimostrare la continuità
di un discorso. ‘Invasion…’ dette ai
critici ed al pubblico tutte le rassicurazioni di cui potevano avere
bisogno, e ribadì sopratutto che la band aveva forgiato un proprio
stile, che sarebbe diventato punto di riferimento per innumerevoli
formazioni che ambivano a conquistare le vette del metal più melodico,
consegnando ai fans nuovi classici come “You’re
in love” e “What you give is what you get” dove il cantato di Stephen Percy raggiunge un apice
di martellante intensità robotica, “Lay it down”,“Closer to my heart”,
“Between the eyes”. ‘Invasion…’
toccò il numero 14 su Billboard e vendette due milioni e mezzo di
copie, un risultato certo non disprezzabile ma largamente inferiore a
quello di ‘Out of cellar’. Gli
scivoloni verso il basso si susseguirono un album dopo l’altro, ‘Dancing
undercover’ (con le super “Body talk”,
“Dance” e “Enough
is enough”) fu ancora multiplatino, ‘Reach
for the sky’ (dove le perle si intitolano “Way
Cool Jr.”, “Bottom Line” e
“I want a woman”) arrivò a 1.700.000
copie, fino a che, nel 1990, ‘Detonator’,
nonostante il numero 23 su Billboard, riuscì soltanto a raggiungere lo
status di disco d’oro. Perché? Era successo qualcosa? La band s’era
sgasata, le canzoni non funzionavano? Assolutamente. Ma i recensori ed i
critici brontolavano: ecco un altro disco dei Ratt, il solito
disco dei Ratt. Il peccato della band, per loro, era quello di non
cambiare, di rimanere ancorati a quel certo discorso fatto di metal
poppeggiante. E questo era un crimine? Cosa
c’era di sbagliato? Personalmente, non ho mai trovato punti deboli in nessuno
dei dischi della band. ‘Detonator’ mi
pare addirittura il loro miglior lavoro in assoluto: la produzione,
affidata stavolta ad Arthur Payson, è ancora più cromata e tagliente,
il contributo al songwriting di Desmond Child porta una maggior vena
melodica in un contesto sempre fragorosamente elettrico, il chitarrismo
di Warren De Martini (ormai padrone delle chitarre, dato che Robbin
Crosby stava scivolando sempre più giù lungo la china della
tossicodipendenza ed il suo input nella vita della band era andato via
via riducendosi fino a diventare quasi impalpabile) è più dinamico e
vario. “Shame, shame, shame”, “Lovin'
You Is A Dirty Job”, “Top secret”,
la power ballad “Givin' Yourself Away”
sono le ennesime prove di forza di una band capace come nessun’altra
di coniugare opposti come il metal e la musica pop. Il fatto che fossero
passati sei anni da ‘Out of cellar’
significava soltanto che i Ratt erano più vivi che mai e sempre capaci
di esprimersi ad alto livello. Nel 1992, i Firehouse vinsero il premio
di miglior band emergente agli American Music Awards: e quale senso
aveva che dei critici premiassero una band che aveva proprio nei Ratt il
principale punto di riferimento, una band che faceva praticamente le
stesse cose dei Ratt e, nello stesso tempo, attaccassero Stephen Percy e
compagnia accusandoli di essere immobili come cariatidi? Cosa aveva mai
il primo Firehouse per eccitare i critici che ‘Detonator’
non aveva? Non che i Ratt non
c’abbiano provato a fare qualcosa di diverso. Su ‘Reach
for the sky’ non c’era forse il blues “Way
cool jr.” a dimostrazione che la band era perfettamente in
grado di esprimersi su altri registri e sempre alla grande? Ma è
inutile scervellarsi, cercare ragioni per attacchi pretestuosi. È vero
che le vendite calarono, questo è un dato di fatto, ma la concorrenza
si era fatta bestiale. ‘Reach for the sky’,
ancora nel 1988 fu disco d’oro e di platino, ma due anni dopo, ‘Detonator’
dovette vedersela con Whitesnake, Bad English, Guns N’ Roses, poi nel
1991 arrivarono i Nirvana… L’ultimo tour fu oltretutto complicato
dallo stato di salute sempre più compromesso di Robbin Crosby, ormai
completamente obnubilato dagli stupefacenti, che dopo il fattaccio del
concerto di Tokio (suonò senza rendersene conto due canzoni con una
chitarra che aveva l’accordatura sbagliata, e i risultati sono
facilmente immaginabili) dovette essere estromesso e spedito in clinica
(il suo posto, per le ultime date americane del tour, fu preso da
Michael Shenker). Quando poi la band tornò ad incidere nel 1999, senza
Robbin Crosby, sempre strafatto, e Juan Crucier (che pare avesse tentato
con Bobby Blotzer di tenere in vita il monicker dopo l’abbandono di
Percy e De Martini, ma senza molto impegno), naturalmente la critica non
trovò ‘Ratt’ degno dei dischi
precedenti, sopratutto perché non somigliava in tutto e per tutto a
quanto era stato fatto fino al 1990… Li volevano diversi: bene, ecco i
Ratt che fanno cose diverse rispetto a “Round
and round” o “Dance”. E
neppure questo andava bene! A me, ‘Ratt’
è sempre piaciuto molto, una dimostrazione di quanto una band possa
rinnovarsi con intelligenza senza rinnegare il proprio passato: per una
disanima approfondita, seguite il link. Nel ventunesimo secolo, la storia della band, tanto
per cambiare, si ingarbuglia discretamente. L’ingresso di John Corabi
come secondo chitarrista (Robbin Crosby, ormai definitivamente fuori,
muore nel 2002 per un overdose: l’anno precedente gli era stato
diagnosticato l’AIDS), l’abbandono di Stephen Percy e le beghe
legali con De Martini e Blotzer per l’uso del monicker, Jizzy Pearl
come nuovo vocalist, concerti, celebrazioni, il rientro di Stephen e
l’addio di Corabi, sostituito nientemeno che da Carlos Cavazo. E,
sopratutto, l’annuncio di un nuovo disco, che pare dovrebbe essere
pronto nel 2009. Per rinnovare la leggenda, celebrarla o farla a pezzi?
Inutile tentare pronostici. Possiamo solo aspettare. E, naturalmente,
incrociare le dita…
Che la fortuna sia cieca, è un fatto assodato. Che il successo nel rock non abbia praticamente riflesso nella bontà della proposta, idem. Ma, certe volte, non si può fare a meno di chiedersi: perché? Perché certe bands hanno sfondato mentre altre sono rimaste al palo? Perché il pubblico ha scelto proprio certi act invece che altri? Nello specifico: perché Sandy Saraya ebbe successo (moderato, ma comunque significativo) mentre le sue colleghe facevano fiasco? La sua voce non era niente di eccezionale: graziosa ma un po’ anonima, e di volume non certo esorbitante. Non brutta, ma neppure superba. Non aveva i toni sexy e viziosi di Lorraine Lewis (Femme Fatale), l’intensità e la profondità di Debbie Davis (Witness), il carattere e la potenza di Teresa Straley (Harlow), la camaleontica esuberanza di Chrissy Steele e Darby Mills, e non voglio neppure tirare in ballo principesse come Ann Wilson, Pat Benatar, Alannah Myles, Joanna Dean e Robin Beck. Il songwriting dei Saraya era eccellente, ma, tanto per continuare a fare paragoni forse antipatici ma per nulla fuori luogo, i Witness gli stavano un palmo sopra. Sandy aveva indubbiamente un aspetto piacente, ma se si comprassero dischi solo per il personale della cantante, allora Lee Aaron ed i Femme Fatale avrebbero dovuto vendere LP a camionate (e così non è stato). La promozione di cui la band godette fu discreta, ma anche in questo comparto non si registrano singolarità, nessun impegno per imporre di forza il personaggio come accadde invece con le Vixen, sponsorizzate dalla loro label al punto da portarle a suonare ai Monsters Of Rock europei. Cosa resta? Solo la fortuna. E Sandy ne ebbe in misura molto superiore a quella che toccò alle sue colleghe, anche in campo extramusicale, dato che riuscì a farsi impalmare da Brian Wheat, il bassista dei Tesla, da cui successivamente si separò, e con le leggi americane che prevedono una spartizione al cinquanta per cento dei capitali della coppia in caso di divorzio, si può concludere che oggi Sandy finanziariamente se la passi nient’affatto male. Di ‘Saraya’, non si può non sottolineare l’efficacia del songwriting (tutto interno alla band) e della produzione di Jeff Glixman. Da segnalare in particolare le parti di chitarra di Tony “Bruno” Rey, già all’opera sull’esordio (ineguagliato) dei Danger Danger, autore di assoli variegati e sempre incisivi. “Love has taken its toll” apre il disco con un riff saltellante e zeppeliniano dopo l’intro bluesy, c’è un Hammond infuocato in sottofondo ed un ritornello anthemico: un bell’esercizio di arena rock californiano. “Healing touch” ricorda le cose più AOR di Lee Aaron, il problema è la voce di Sandy, che quando abbassa il volume tende decisamente al frigido. Non che la parte della vamp le riesca molto meglio: ci prova su “Get you ready” (dalle spiccate tinte rhythm’n’blues, bella soda, cadenzata, ancora con l’Hammond e la chitarra che procedono appaiati), ma il risultato non è proprio da delirio erotico (se questa canzone l’avesse cantata Joanna Dean, avrebbe fatto resuscitare i morti… ed all’espressione date il senso che preferite). “Gipsy child” è AOR robusto, in certi momenti d’atmosfera, in altri più dinamico. “One night away” è turbinosa, arroventata dall’Hammond, diretta ma con un bel ritornello nello stesso tempo energetico e suadente, mentre “Runnin’ out of time” vaga tra Deep Purple e certo heavy metal alla Malmsteen, veloce ed aggressiva ma con un cantato troppo morbido che c’entra poco con quello che gli sta attorno. “Back to the bullet” si accosta agli Whitesnake versione americana, quelli più soft, “Fire to burn” è un bel riff pulsante, keys d’atmosfera che s’alternano ad altre parti più dirette e cadenzate, un metal californiano con il ritornello che ricorda vagamente i Malice. “St.Christopher medal” è una ballad delicata che il canto di Sandy, freddo e accademico, rende addirittura sonnolenta, pronto recupero con la conclusiva “Drop the bomb”, potente e d’atmosfera come il miglior Billy Squier, che si snoda tra cascate di chitarre e panneggi di tastiere, culminando in un lungo finale strumentale. Nel successivo ‘When The Blackbird Sings’, uscito nel 1991, Sandy si separava dal bravo key player Gregg Munier ed il sound della band si faceva più metallico e incisivo, senza però riuscire a replicare i discreti risultati a livello di vendite del primo album. Se fu questo a far calare il sipario sui Saraya, non saprei dirvelo. Diventata la signora Wheat, forse Sandy lasciò perdere la musica per concentrare il proprio interesse sulle carte di credito del marito: un ritiro dalle scene che non mi ha rallegrato, ma neppure particolarmente intristito.
Se qualcuno è in grado di spiegarmi il meccanismo di formazione di una lost gem, per favore si faccia avanti. Il motivo che porta certi dischi e/o certe bands a diventare oggetto di culto resta per me assolutamente oscuro. Non c’entra la rarità dell’opera né la rinomanza della band. Di sicuro, non c’entra assolutamente nulla il reale valore artistico della proposta. A mettere in fila un po’ di album promossi nell’empireo delle gemme perdute si resta sconcertati sopratutto dall’eterogeneità del mucchio: band famose e sconosciute, dischi editi in quantità industriale e altri pubblicati in pochissime copie e – sopratutto – veri capolavori, mediocrità assolute e lavori senza infamia e senza lode stanno tutti lì: non c’è un filo conduttore, solo… cosa? La sorte? Non so… da qualche parte, deve pur essere cominciata… Qualcuno che ha acceso la miccia proverbiale. Questi Melidian, per esempio… Ricordo una recensione a dir poco entusiastica pubblicata su un noto magazine nazionale, recensione che mi indusse a comprare il disco (di vinile, naturalmente). Poi non ci fu più nulla, ma se le recensioni furono tutte impostate su quei toni elegiaci, non c’è da stupirsi che attorno a questa band si sia creata una sorta di leggenda. Di copie di ‘Lost in the wild’ in LP c’è una discreta abbondanza, ed i prezzi sono corretti ed abbordabili, invece i CD sono rari come gli orsi bianchi al polo sud, e su eBay girano a cifre nell’intorno dei trentacinque - cinquanta dollari. Sono quotazioni giustificabili? No. Assolutamente no. Se dovessi dare un voto ai Melidian, mi terrei sul sei e mezzo. ‘Lost in the wild’ era un disco grazioso, ma non aveva nulla di straordinario, di notevole, sopratutto se lo inquadriamo nel contesto del genere affrontato dalla band e dai punti di riferimento che i Melidian avevano scelto. Questi cinque ragazzi (erano “ragazzi” nel 1989, naturalmente…) dimostravano di avere una notevole affezione per gli Autograph, e ne seguivano con diligenza le orme, ma senza riuscire a – quanto meno – uguagliare i risultati dei loro maestri. Sapevano clonarli benino, e anche scrivere canzoni simpatiche, indurendo qua e là il suono in direzione Ratt. Tutto qui. ‘Lost in the wild’ era, insomma, uno dei tanti (troppi?) album usciti dal sottobosco class metal, frutto di una band discreta ma sicuramente da classificare tra quelle minori, senza picchi né emergenze. L’unico sprazzo di originalità sta nella conclusiva “Broken toys”, un brano d’atmosfera, a tratti solenne, ben calibrato tra chitarre acustiche, elettriche e tastiere, con un coro pomposo, che può ricordare certe cose del Neal Schon solista di ‘Late Nite’, ma questa canzone viene dal passato del cantante e leader della band Chris Cade, era già stata incisa sull’unico disco del suo gruppo precedente, gli Hellion (‘Dangerous Manouevers’, 1984). Il presente, invece, è rappresentato dalle otto canzoni che la precedono, a cominciare da “Ready to rock” (che fantasia di titolo, cacchio…), che inizia pari pari alla “Back for more” dei Ratt, ha un coro alla Autograph, qualche sprazzo di keys ed una lunghezza esagerata in rapporto alla linearità dell’arrangiamento. Gli Autograph, dicevamo, sono la band più omaggiata dai Melidian: in “Livin’ under the gun” (ma Chris Cade canta “Lovin’ under the gun” nel ritornello: refuso o un ripensamento dell’ultimo minuto?), “Fire up the heart”, “Hands off” (un bel martello), “Top of the rock” (anthemica, con un finale veloce e convulso). “Sleepless night” è una ballad molto Survivor epoca ‘When seconds count', forse un filo troppo pomposa, sopratutto nelle parti vocali, mentre la title track è un heavy metal crudo e selvatico alla Twisted Sister con appena qualche insignificante flash di tastiere prima degli assoli di chitarra, e “Overheated” ritorna ad atmosfere molto primi Ratt (e anche un po’ Rough Cutt, magari), con un bel ritmo e gradevoli interventi di keys. La voce di Chris Cade, nonostante il buon volume e l’ugola piacevolmente rasposa, mi risulta singolarmente anonima, la chitarra solista Jayson Lane non spicca più di tanto, il tastierista Eddie Wohl spesso e volentieri fa solo atto di presenza, la produzione condivisa da Cade con Thom Trumbo e Ron Baird non ha niente di speciale. E dunque, cosa resta? Poco. Troppo poco perché della gente si scanni su eBay per assicurarsi i CD di ‘Lost in the wild’, un lavoro dignitoso che ha i suoi momenti ma, mi pare, viene decisamente sopravvalutato dai cacciatori di reliquie dei Big 80s.
P.S. E lo hanno anche ristampato! Tanti dischi veramente magnifici sono praticamente irreperibili e la Rock Candy ripubblica questo lavoro senza infamia e senza lode...
Dalle mie parti, c’è un modo di dire che rende con cruda e triviale chiarezza la condizione di chi si trova attanagliato da una grande paura, uno stato in cui non si ha più il controllo delle proprie funzioni fisiologiche connesse con l’espulsione dei residui solidi non digeriti dall’organismo, e si fatica a trattenerli nell’intestino, rischiandone una fuoriuscita violenta e intempestiva, avvisaglia della quale è un tremore gelatinoso nel fondo della schiena. Nikki Sixx, nei primissimi anni 90, doveva sentire quel particolare tremore con una continuità che immagino lo spingesse a mantenere sempre una distanza strategicamente breve da una stanza da bagno. L’imperio del metal melodico stava per finire, brutalmente, e di quel dominio i Mötley Crüe si erano assicurati una porzione largamente maggiore della concorrenza. Ma adesso, quasi da un giorno all’altro, tutto quello che la band aveva costruito, le basi stesse di quel potere erano messe in discussione, ed una nuova generazione le considerava superate. Tutto l’immaginario del metal californiano, il look e, naturalmente, la musica, erano di botto passati di moda, out. Nikki voleva farci credere che l’aggiornamento del sound che aveva deciso per la sua band era maturato già a fine anni 80, ai tempi di ‘Dr. Feelgood’ e possiamo concedergli che il tentativo di portare la band in territori più heavy sia cominciato proprio con la title track di quello splendido disco. Ma “Dr. Feelgood” (la canzone) era una piuma al confronto di quanto Nikki aveva in mente per i “nuovi” Mötley Crüe, per tenere a galla la band nel clima musicale del nuovo decennio. C’era solo un ostacolo tutt’altro che agevole da saltare per portare i Crüe negli anni 90: la vocetta di Vince Neil. Come avrebbe mai potuto, il povero Vince, cavalcare quel ciclone elettrico che fu ‘Mötley Crüe'? Le sue corde vocali sapevano intonare le canzoncine glam che avevano fatto la prima fortuna della band, ma non certo prodursi nei ruggiti che John Corabi sparò su ‘Hooligan’s holiday’ o ‘Till death do us part’. Vince non serviva più ai Crüe, e Nikki, senza stare a pensarci troppo, lo allontanò dalla band, lo mise alla porta, lo abbandonò al suo destino. Non che Vince avesse accettato la sfida del nuovo sound, quella roba per lui era tabù, non la capiva, non gli piaceva, lui voleva solo continuare sulla strada del party rock’n’roll, e al diavolo tutte le considerazioni di natura tattica e strategica che angustiavano Nikki Sixx e lo avrebbero poi indotto ad accettare una sfida impossibile, quella di imporre dei Crüe rinnovati alla generazione grunge. Per Vince, niente tremori, niente sguardi disperati alla ricerca di un provvidenziale WC. Incoscienza? O autentica convinzione? Forse entrambe le cose. Solo con il successivo ‘Carved in stone’, Vince si piegherà alle esigenze di una realtà sgradevole, tentando di offrirsi con un sound a metà tra grunge e industrial ad un pubblico che ormai l’aveva messo da parte come già era accaduto ai suoi ex partners. ‘Exposed’ era quello che Vince voleva e sapeva fare ed un notevole aiuto per tradurre il sogno in realtà gli venne da Steve Stevens, che andò ad occupare il ruolo di chitarrista nella sua neonata band. La personalità di Steve, un guitar hero di quelli che non dormono con i dischi di Mozart sotto il cuscino, naturalmente si impone in maniera clamorosa e quella che poteva essere solo una collezione di canzoncine glam diventa grazie a lui un favoloso disco di hard rock melodico, vario, pieno di tocchi originali e imprevedibili che la produzione di Ron Nevison rilega impeccabilmente. E Vince riesce ad adattare la sua voce simil-trombetta a questo materiale con una bravura francamente insospettabile, calandosi nel mosaico sonoro che Steve Stevens affresca per lui con convinzione e personalità. Naturalmente, la direzione privilegiata resta quella del più classico metal californiano, e l’iniziale “Look in her eyes” chiarisce alla perfezione gli intenti della coppia: un sound mutuato da quello dei Crüe periodo ‘Dr. Feelgood’ arricchito da un chitarrismo spettacolare e pirotecnico: una track insinuante e minacciosa in cui va ad incunearsi un assolo lunghissimo ed emozionante (tra parentesi: non che Mick Mars non fosse potenzialmente capace di esprimersi con un linguaggio meno “ovvio” di quello usato di solito nei dischi della sua band: si trattava piuttosto di una scelta deliberata, sua e di Nikki Sixx, quella di puntare al sodo e non perdersi in quelli che dovevano venire giudicati soltanto fronzoli). Stessa musica su “You’re invited (but your friend can’t come)”, con il plus di un consistente omaggio per i cuginetti Ratt, e “Can’t have your cake”, delizioso rock’n’roll metallizzato, veloce e beffardo. Anche “Set me free” percorre i sentieri del party metal, facendo pensare a dei Mr. Big in versione glam mentre “Fine, fine wine” è un basso che rotola, una chitarra che gratta ed un altro divertente refrain sottolineato dalla slide guitar. “Gettin’ hard” poggia su riff strepitoso, strascicato, pigro e nello stesso tempo tagliente e pulsante, ha un’atmosfera da vecchi Van Halen ed un assolo bluesy. “Sister of pain” è più melodica, rimanda ai primi Faster Pussycat, ritmata, glam, un po’ blues ma dilatata dalle tastiere, qui l’assolo parte con un wah wah acidissimo e termina cristallino e classicheggiante. “The edge” è la scheggia più sui generis: intro di chitarra acustica che è puro flamenco, poi un riffone heavy metal su cui va a ricamare un’altra chitarra elettrica, un assolo prima elettrico e medievaleggiante su un tappeto di tastiere, ancora la chitarra spagnola, poi di nuovo elettricità a manetta: siamo al limite dell’epic metal di marca Dio e qui ci sta un bravo a Vince Neil che mai avrei supposto in grado di padroneggiare questo genere di materiale con tanta sicurezza. “Can’t change me” cambia completamente atmosfera, quasi una ballad, elettroacustica, Hammond, pianoforte, suggestioni southern, che belle linee melodiche: come dei Lynyrd Skynyrd diventati glam e sofisticati (o i Poison era ‘Native tongue’). Grandissima ‘Living is a luxury”, refrain metal inserito su un telaio blues e rhythm and blues tessuto da una chitarra limpida, un basso palpitante, i fragorosi interventi di una sezione fiati, con due assoli bluesy, il primo distorto e lacerante, il secondo – in chiusura – che pare rubato ad un disco di Stevie Ray Vaughan. In coda, “Forever”, ballad tutta acustiche, tastiere e impasti vocali, con un Vince finalmente autorevole su un registro che prima non lo aveva mai visto brillare. ‘Exposed’ fu una vendetta perfetta per Vince e la sua band, considerato che toccò il numero 13 su Billboard e diventò disco di platino mentre il suo ideale concorrente ‘Mötley Crüe’, nonostante un numero 7 di picco sulla chart, raggiunse a malapena lo status di disco d’oro, una miseria di fronte ai 6 milioni di copie vendute totalizzati da ‘Dr. Feelgood’. Perduto Steve Stevens, Vince, come già annotato, decise di aggiornarsi e tentare la carta dell’industrial sound per l’orrido ‘Carved in stone’, per poi tornare con i Crüe a sfornare dischi che – almeno fino ad oggi – non sono che pallide copie di quanto realizzato in un passato che sembra perduto per sempre.
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