Per
questa band si potrebbe fare un cappello introduttivo nello stesso stile
di quello dedicato ai Tall Stories. The Scream sono stati la band di
John Corabi, il povero cristo che si sobbarcò il compito ingrato di
prendere il posto di Vince Neil nei Mötley Crüe in quel disco
autointitolato, bello e incompreso che uscì nel 1994. Come sia andata
poi, lo sappiamo tutti, e chi non ne sapesse abbastanza può leggere il
pezzo che ho dedicato ai Crüe. Dopo essere stato emarginato e costretto
al ruolo di chitarrista ritmico, John fece le valige e si unì in
successione agli Union (gran bel disco), ai Ratt (dove però si limitava
a suonare la chitarra, al posto del povero Robbin Crosby), agli Zen
Guerrilla. Doveva partecipare anche al progetto Brides Of Destruction ma
lasciò la band prima del debutto discografico: quando c’era Nikki
Sixx di mezzo, le cose evidentemente non volevano proprio saperne di
girare per il verso giusto... Ma,
prima di tutto questo, erano venuti gli Scream. Che nacquero dalle
ceneri dei Racer X, la band losangelena divenuta l’ufficio di
collocamento per i quartieri alti dell’hard rock, lanciando Paul
Gilbert, il chitarrista diventato poi celebre con i Mr. Big,
Jeff Martin, nato cantante e passato dietro i tamburi con i
Badlands, e Scott Travis, il batterista che prese il posto di Dave
Holland nei Judas Priest. I due superstiti, il chitarrista Bruce
Bouillet ed il bassista John Aldrete, forse piccati dall’aver fatto la
figura delle scartine che nessuno vuole, decisero di coalizzarsi per
lanciare una nuova band che doveva chiamarsi prima Saints And Sinners,
poi mutò il monicker in The Scream. Come batterista venne arruolato
Walt Woodward III, già con Americade e Shark Island, mentre come singer
venne pescato proprio il nostro John, prelevato dagli Angora (che
avevano fatto da supporto ai Racer X) e passato brevemente tra le fila
di Britny Fox e Skid Row. Non
so se il cambio di monicker fu una scelta obbligata, ovvero se il
marchio “Racer X” fosse di proprietà di qualcuno dei fuoriusciti,
ma considerato che la musica proposta dai The Scream era abbastanza
distante dal power metal che aveva reso più o meno celebre la band
californiana, si può comprendere il desiderio di Bouillet e Aldrete di
fare piazza pulita del passato. La Hollywood Records oltretutto non
lesinò mezzi per la promozione e gli Scream per qualche tempo divennero
la next big thing, con i
soliti maligni che si affrettarono a catalogare la band tra quelle
raccomandate senza neppure prendersi la briga di ascoltare il disco. Escludendo
la conclusiva “Catch me if you can”, un
fast metallico, probabile fondo di magazzino rimasto a prendere polvere
dopo la chiusura dell’emporio Racer X e riciclato per l’occasione
(buona, comunque), le coordinate dell’album lo situano in territori
spiccatamente blues e root, e difatti i primi nomi che vengono in mente
da associare agli Scream sono Cinderella e sopratutto Dirty White Boy.
L’iniziale “Outlaw”, “Give
it up” e “Every inch a woman”
parlano la stessa lingua della sfortunata band di Earl Slick, quella del
blues metallizzato, di un hard rock deciso ma con forti basi root: “Outlaw”
è serrata e priva di fronzoli, “Give it up”
viene aperta da un intro di slide guitar ed ha un assolo rock’n’roll
su un riff martellante, “Every inch a woman”
è più scanzonata, con qualcosa dei Little Caesar. Su “Believe
in me”, “Loves got a hold on me”
e “You are all I need” spuntano i
Cinderella di ‘Heartbreak station’ in
una versione più rude e metallica, con un sax che apre l’assolo della
prima e le altre due con cori quasi soul, tanto Hammond e cori
femminili. Il sax torna a squillare anche nell’assolo di “Tell
me why”, un funk incandescente che pure deve molto alla band di
Tom Keifer, “Father, mother, son” è
una power ballad elettroacustica con un discreto flavour root, mentre
“Never loved anyway” è un meraviglioso
country blues acustico spezzato da un assolo (ovviamente) di lap steel.
“Man in the moon” e “I
don’t care” mi sembrano il top assoluto, la prima un hard
blues strepitoso, la seconda un incalzante rock metallico, sono
caratterizzate entrambe da una fortissima ascendenza Zeppeliniana: più
diretta e spettacolare la prima, più notturna e suadente e con un coro
vagamente funky la seconda. La produzione di Eddie Kramer è (come
sempre) impeccabile, Bruce Bouillet si rivela chitarrista completo, perfettamente
bilanciato tra feeling e maestria esecutiva e John Corabi illumina
letteralmente il disco con la sua voce fascinosa e impossibile: chiara,
rauca ed acida nello stesso tempo. Le
vendite non andarono male, e per la band avrebbe potuto esserci futuro
se non fosse arrivato il grunge e Corabi non avesse ceduto alla
tentazione (sicuramente malsana, anche senza il proverbiale senno di
poi) di diventare il nuovo front man dei Mötley Crüe. Dopo la sua
uscita, la band inserì come singer Billy Scott e si ribattezzò prima
DC10 poi Stash, prima di sciogliersi per manifesto disinteresse dei
discografici. La reperibilità di ‘Let it scream’ sul mercato dell’usato è ottima e i prezzi richiesti generalmente più che abbordabili. Da recuperare senza incertezze.
Chi,
al giorno d’oggi, vuol dedicarsi a generi musicali più o meno lontani
dal gusto medio del grande pubblico non trova nessun serio ostacolo di
natura tecnica a sbarrargli la strada: bastano un computer ed una carta
di credito per trovare qualsiasi cosa, vecchia o nuova che sia (e se si
è di pochi scrupoli, basta il computer, e a buon intenditor...). Una
volta era diverso. Molto, molto diverso. Quando, nel 1989, lessi su una
rivista la recensione del secondo album dei Tangier, corsi nel solito,
sempre ben fornito negozio di dischi per comprarlo, e mi venne
comunicata la ferale notizia: non era importato. Nonostante fosse
pubblicato dalla ATCO, la sottoetichetta rock dell’Atlantic, che da
poco era stata acquistata dalla Warner (una major label, dunque),
quell’album non veniva distribuito in Europa. Punto. Fine della
conversazione. Per ottenerlo avrei dovuto cercare un negozio
specializzato in import o rivolgermi ad un mail order, ma a
quell’epoca i pochi che si occupavano di quell’attività in campo
hard rock / metal, privilegiavano l’underground più underground, così
che era più facile ordinare via posta il thrash polacco o brasiliano,
il grind norvegese o l’hardcore punk giapponese che un disco di AOR, e
comunque il prezzo sarebbe stato circa il doppio rispetto ad un album
regolarmente distribuito in Italia. Per fortuna, dopo due o tre anni,
anche ai Tangier toccò l’onta dei forati, quelle copie in sovrappiù
che il mercato americano smaltiva sottocosto all’estero, e ‘Four
winds’ entrò in mio possesso in versione CD per la miserabile
somma di lire 3.900. ‘Four
winds’ era dunque il secondo album dei Tangier. Il primo,
uscito nel 1986, fu poco più di un demo di lusso, finanziato dal
manager dell’epoca della band e pubblicato dalla sua etichetta
personale (la Wolfe) solo su cassetta (così esordirono altri due act
della stessa agenzia, i Britny Fox e gli Ivory Tower, rispettivamente
nel 1987 e nell’’88). Quasi superfluo specificare che a
quest’album si può ben associare l’aggettivo “fantomatico”, nel
senso che praticamente nessuno l’ha mai visto, non solo in Europa ma
pure negli Stati Uniti, e magari neanche i Tangier stessi. Archiviata
questa bizzarria, i Tangier misero a frutto l’amicizia con Tom Keifer
(venivano dall’area di Philadephia, come i Cinderella) e dopo essere
entrati nella scuderia di Larry Mazer (il manager di Tom Keifer &
compagni) spuntarono un contratto per la ATCO, che li mandò in studio
con Andy Jones, all’epoca produttore dei Cinderella. Gli
stretti legami con la band di ‘Long cold winter’
potevano far sospettare una certa unità d’intenti, e in effetti così
era, anche se l’approccio dei Tangier alla materia si rivelava molto
diverso rispetto a quello adottato dai Cinderella, ed anzi, il cammino
delle due band si sarebbe rivelato poi diametralmente opposto, con Tom
Keifer che guardava con sempre più interesse al passato mentre i
Tangier attualizzavano la loro proposta con ‘Stranded’
rispetto a quanto avevano fatto in ‘Four winds’.
Il loro secondo album era, difatti, uno straordinario trattato di rock
blues, decisamente retró
nelle fonti di ispirazione ma con arrangiamenti e suoni brillanti e
moderni. Queste fonti avevano sopratutto i nomi degli Whitesnake (ante
‘1987’, of
course), dei Bad Company, e in generale del miglior southern rock:
sul disco spirava spesso un’atmosfera da film western (la copertina,
da sola, già diceva tutto) sostenuta da testi pertinenti. La grande
forza di ‘Four winds’ veniva proprio da
questa mediazione tra vecchio e nuovo: anziché perdersi lungo le lande
polverose del suono più vintage,
i Tangier ne trapiantavano lo spirito nel fertile terreno dell’hard
rock ottantiano, sopratutto nel senso di timbriche e arrangiamenti,
costantemente rifiniti da tastiere e cori femminili. Era, insomma, non
una semplice spolverata di vecchi cimeli, ma la reinterpretazione di un
certo suono alla luce dei nuovi tempi. Bill
Mattson (voce, come un David Coverdale più acuto e nasale), Doug Gordon
(chitarra solista ed unico songwriter), Gari Saint (chitarra ritmica),
Garry Nutt (basso), Bobby Bender (batteria, ma gran parte delle
percussioni vennero incise all’ex-Company Of Wolves Frankie LaRocka)
chiarivano subito i loro intenti aprendo “Ripcord”
con un synth-bass pulsante alla maniera degli ZZ Top era ‘Eliminator’,
mentre “On the line”, “Mississippi”,
“Southbound train” “Fever
for gold”, “In time” ci
trasportano su uno showboat del Grande Fiume o fra le pareti di un
saloon, attraversando praterie dagli orizzonti senza fine. “Sweet
surrender”, “Bad girl” e “Good
loving” ripropongono con gusto l’estetica del Southern rock,
all’epoca genere dato per morto e che di lì a poco sarebbe stato
protagonista di una clamorosa resurrezione. Il capolavoro è la title
track, una cowboy ballad da infarto, epica e struggente. ‘Four
winds’ non andò male nelle classifiche per essere
l’esordio poco allineato alla mode vigenti di una band che non
contava su un supporto promozionale fatto su vasta scala. Il numero 91
di Billboard raggiunto dall’album, visto da questa angolazione, poteva
addirittura considerarsi un successo. Ma è chiaro che la band non
giudicò il risultato in questo modo. Doug Gordon dovette credere che la
formula adottata non avrebbe portato la band da nessuna parte e la mutò
in maniera abbastanza radicale. Bill Mattson non gradì il cambiamento
di sound e andò via o venne licenziato, e al suo posto arrivò Michael
LeCompte, anzi ritornò, dato che LeCompte fu il primo singer della
band, quando i Tangier erano ancora senza contratto. Pure Gari Saint
lasciò il gruppo, e Doug Gordon si incaricò di tutte le parti di
chitarra, mentre la produzione passò nelle mani di John Purdell e Duane
Baron. Anche
‘Stranded’ si presentava con una
copertina eloquente, che lasciava presagire quanto le cose fossero
cambiate rispetto a ‘Four winds’.
Niente più scenario da Far West, niente look da cowboy, niente viraggio
delle immagini in sepia tone.
Un macchinone col cofano sollevato contro il cielo al tramonto e i
ragazzi vestiti di jeans e pelle con le chiome platinate annunciavano lo
sbarco della band in territori meno selvaggi e root, ma sopratutto la
ricerca di un suono che – pur risolutamente blues – fosse più
pesante, sporco e ruvido rispetto al passato. Il songwriting restava
scintillante, ma quegli elementi caratterizzanti che avevano tirato la
band fuori dal mucchio mancavano del tutto, e ormai i Tangier suonavano
come gli altri gruppi di hard rock blues americano: Cinderella, Blackeyed
Susan, Tattoo Rodeo, Dirty White Boy eccetera. Non che l’album non sia
buono, tutt’altro, ma resta il rammarico per un discorso musicale
abbandonato troppo presto, e di cui su ‘Stranded’
sopravvive molto poco, al punto che si potrebbe tranquillamente prendere
il nuovo album per il parto di un’altra band. Che poi il pensiero di
Doug Gordon fosse giustificato in quel particolare momento storico,
quando Black Crowes e Lynyrd Skynyrd cominciavano a vendere dischi a
carrettate... Considerato
per se stesso, senza ricordare ciò che i Tangier avevano fatto prima ed
evitando confronti forse inopportuni con ‘Four
winds’, anche ‘Stranded’
risulta un magnifico disco. “Down the line”
è l’atto d’apertura, veemente, infuocata, tutta armonica e slide
guitar, forse la cosa più vicina a quanto fatto sul primo album ma con
un sound molto più sporco ed elettrico, e la voce di Michael LeCompte
non risulta tanto lontana da quella di Bill Mattson solo molto più
rauca e impastata. “Caution to the wind”
è un mid tempo blues spezzato da un refrain arioso e dovete credermi
sulla parola quando vi dico che pensai ai Survivor prima di aver letto
il nome di Jim Peterick come co-autore della canzone assieme a Doug
Gordon... Anche “You’re not the lovin’ kind”
porta la firma di un ospite prestigioso, Eric Brittingham, ma più che
ai Cinderella, qui i Tangier somigliano tantissimo ai Dirty White Boy:
slide a manetta, riff martellante ed un clima rude. I Cinderella saltano
fuori, invece, su “Since you been gone”,
una bella power ballad che ricorda anche i Tattoo Rodeo (o viceversa?
‘Rode hard - put away wet’ uscì quasi
in contemporanea con ‘Stranded’), come
pure la successiva “Takes just a little time”,
tra la cowboy song ed i blues Aerosmithiani periodo ‘Permanent
vacation’. “Excited” è un
boogie che rimanda ancora agli Aerosmith più scanzonati, e la band di
Joe Perry viene omaggiata anche su “It’s hard”
e “If you can’t find love” con ampio
contorno di pianoforte e ottoni. Il top (almeno per me) sono “Back
in the limelight”, che pur richiamando certe atmosfere di ‘Four
winds’ risulta dinamica e cromata, con un refrain divertente, e la title track, una power ballad con un coro arioso e suggestivo che spicca
su un telaio vagamente Zeppeliniano. La svolta hardeggiante non portò però fortuna alla band, ‘Stranded’ non entrò neppure nei top 200 e i Tangier svanirono come nebbia al sole. Doug Gordon e Tom Keifer misero in cantiere un progetto che però si fermò allo stadio dei demo, mentre Michael LeCompte uscì con una band a proprio nome assieme ad ex-Blackeyed Susan e Britny Fox, che proseguiva più o meno il discorso di ‘Stranded’, ma con molta più attenzione verso il suono dei vecchi Aerosmith.
Nell’immaginario
rock, la musica, a volte, conta veramente poco. C’è un disperato,
urgente, categorico bisogno di personaggi.
Non di personalità, ma proprio di personaggi, ossia: individui di buona
volontà che si adattino a sostenere una certa parte. C’è il ruolo
del Poeta Pensoso, quello dell’Eterno Ragazzino, quello dello
Sciupafemmine, quello del Depresso a prova di Prozac eccetera eccetera.
Ma la parte più difficile e ambita, resta quella del Ragazzo Cattivo.
Il Ragazzo Cattivo è tutto quello che
l’adolescente medio (e anche qualche adulto più o meno maturo)
vorrebbe disperatamente essere: duro come l’acciaio, virile senza
inibizioni o incertezze, violento se occorre, tenero quando è il caso,
consapevole senza essere saggio: uno che il mondo lo guarda dritto negli
occhi, con un ghigno di disprezzo sardonico, pronto a ridere, urlare o
sputare in faccia. Sopratutto, uno che non ha paura. Per
diversi anni, Axl Rose, il cantante dei GNR, è stato il Ragazzo Cattivo
della musica rock. Quando si è eclissato, travolto dal proprio stesso
personaggio, il ruolo non è stato preso da nessun altro, è rimasto
vacante, e mi pare che lo sia ancora oggi. In fondo, se il ritorno
discografico dei Guns N’ Roses è atteso con tanta aspettativa da una
stampa musicale solitamente poco incline a vezzeggiare le stelle del
rock ottantiano, ciò è dovuto più che altro alla speranza che Axl
sia sempre il Ragazzo Cattivo che tutti abbiamo conosciuto, amato e
odiato. E allora, tutti continuano a guardarsi in
giro, cercando il successore di Elvis, di Mick Jagger, di Axl Rose,
sperando e temendo l’arrivo del nuovo Ragazzo Cattivo, l’anima nera
del rock’n’roll. Che poi questa figura abbia ancora un senso nel
ventunesimo secolo, assieme a tutti gli altri miti del rock, è un altro
paio di maniche. Da qualunque angolazione vogliamo guardare a quel
fenomeno nato in USA negli anni 50 del secolo scorso, qualunque
ragionamento vogliamo imbastirci sopra o intorno, le cose del mondo sono
cambiate così tanto, e così tante volte, che pare fuori da qualunque
logica tentare di descriverle e spiegarle usando sempre gli stessi
modelli, i soliti stereotipi. Eppure – strano ma vero – quegli
stereotipi continuano a funzionare benissimo, e non solo negli USA, ed
è su di essi che il rock si regge per la gran parte: incisi
profondamente nella nostra cultura, inossidabili, inattaccabili... Il
successo planetario dei Guns N’ Roses si dovette innanzitutto al fatto
che ebbero come frontman la nuova incarnazione del Ragazzo Cattivo. La
musica è stata importante, la promozione è stata importante, ma senza
la spinta propulsiva di questa figura al limite del mitologico che
occupava il centro del palcoscenico, i Guns forse sarebbero stati
ricordati solo come una buona band di hard rock americano, e
nient’altro. E magari erano davvero soltanto questo, al di là di
tutto il resto? Quando, nel 1987, si cominciò a parlare di un nuovo
genere etichettato street rock, focalizzato su tre bands che si
chiamavano Guns N’ Roses, L.A.Guns e Faster Pussycat, il webmaster si
ritrovò interessato sopratutto alle ultime due e la sua attenzione si
centrò in particolare sulla seconda. Un fatto personale, immagino, ma i
miei precordi sono sempre rimasti leggermente freddini davanti ai Guns
N’ Roses. Li ascolto, magari mi piacciono, certi episodi della loro
discografia mi entusiasmano, ma nel loro complesso non mi attizzano al
massimo. Credo che il problema stia tutto nella voce del Ragazzo
Cattivo, tanto stridula, acuta e isterica, sgradevole e irritante in
maniera ben calcolata. Sia come sia, ai Guns mi sono sempre accostato
con un certo distacco, cosa tutto sommato desiderabile quando si cerca
una valutazione quanto più è possibile oggettiva (sempre che qualcuno
senta il bisogno di valutazioni oggettive: in campo musicale sembra che
siano dannatamente pochi; nel nostro genere, poi...). Dato
che della vita pubblica e privata di questa band prima, durante e dopo
gli anni d’oro si conosce ogni dettaglio, da quelli più comici a
quelli più squallidi, non ritengo di dover sprecare spazio per
riassumerla qui. Veniamo piuttosto ad ‘Appetite for destruction’,
l’esordio sulla lunga distanza dopo l’EP live autofinanziato ‘Live
like a suicide’, un disco rimasto nella top 100 di Billboard per vari
anni, e che ad oggi ha venduto non so quanti milioni di copie nel mondo. ‘Appetite...’
non fu un successo istantaneo, tutt’altro. Ci vollero anni di tour,
videoclip e storielle sordide per arrivare al successo internazionale,
per uscire dal recinto dei fans dell’hard rock ed entrare nell’arena
gigantesca della musica da top ten e conquistare quel pubblico
“generico” composto da gente che compra tre o quattro dischi
l’anno tra quelli più pubblicizzati ed alla moda, e che solo può far
volare nelle classifiche un album e ti permette di organizzare i
concerti negli stadi anziché nei teatri o nei club. ‘Appetite for
destruction’ era un disco troppo violento, ispido, per potersi fare
strada da solo fuori da quel recinto. Quando il riff di “Welcome to
the jungle” irrompeva dagli speakers i muri tremavano e le urla
isteriche di Axl avranno spaccato più di un cristallo negligentemente
lasciato nei pressi dello stereo... Quest’album così brutale,
selvaggio, davvero lontano da qualsiasi compromesso con la musica rock
che all’epoca faceva furore nelle top ten americane diventò un
multiplatino nonostante la
propria scarsa accessibilità, trascinato verso l’alto dalle prodezze
extramusicali di coloro che lo avevano inciso, grazie a quella patina di
luce ambigua di cui i Guns N’Roses si ammantavano e giungeva di
riflesso anche su ‘Appetite...’ che, in un perfetto gioco di
specchi, rimandava sui propri esecutori quel feeling brado, selvaggio e
stizzoso che – nel bene come nel male – rappresenta ancora
nell’immaginario comune la vera anima del rock puro & duro. Ed era
un’anima autentica. Ai Guns si poteva imputare tutto, salvo che essere
dei posers, e difatti nulla
poterono contro di loro quei miserabili morti di sonno venuti da
Seattle, Axl e soci continuarono a vendere dischi a secchiate ed a
riempire gli stadi anche all’apice della marea grunge, solo i Pearl
Jam riuscirono per un po’ a fargli concorrenza, ma Eddie Vedder in
versione Ragazzo Cattivo era più che patetico, era comico; e poi, quel
suo modo di cantare, come se ogni volta che si metteva davanti ad un
microfono si trovasse alle prese con un attacco di emorroidi
particolarmente violento... Dei Nirvana non varrebbe neppure la pena
parlare, il loro target erano i preadolescenti e Kurt Cobain soltanto un
povero tossico in piena sindrome maniaco depressiva che colleghi,
discografici e dolce mogliettina badarono solo a spremere come un limone
per ricavarne quanti più dollari possibile, lasciandolo poi al suo
destino quando furono certi che non potesse più servirgli a niente
perché completamente e definitivamente “andato”. Tornando
a “Welcome to the jungle”... è impossibile non sentirci dentro la
passione principale di Slash, i vecchi Aerosmith, che si riaffacciano
con prepotenza anche fra le note di “Nightrain”. Tra le due,
“It’s so easy” è ipnotica, minimale, eppure sempre violenta, con
un Axl che anziché al falsetto ricorre qui ad un cantato nasale ed in
chiave di basso.“Out ta get me” sa di blues e di southern rock
metallizzato, “Mr. Brownstone”è un funk stralunato, ma “Paradise
city” è uno dei tasselli della leggenda: l’arpeggio, il drumming di
Steven Adler, quel coro anthemico senza essere tronfio o epico, il riff
come una sega elettrica...Take me
down/ To the paradise city/ where the grass is green/ and the girls are
pretty/ Take me home... (quante volte l’ho mormorato tra me nei
primi anni 90, quando mi ritrovavo davanti su MTV o sulle pagine delle
riviste le facce di quei tristi figuri che avevano spazzato via tutta la
musica che amavamo...). “My Michelle” è un altro heavy rock
selvatico che ruota attorno ad un giro di chitarra funky, “Think about you” è più
classicamente rock’n’roll, fa venire in mente addirittura i Rolling
Stones. “Sweet child o’ mine” è un altro frammento entrato di
schianto nella storia del rock, l’arpeggio di Slash meriterebbe di
essere inciso nel bronzo, ed il suo assolo è semplicemente strepitoso,
prima pulito e luminoso, poi emozionale ed intenso alla maniera di Jimmy
Page. Su “You’re crazy” ed “Anything goes” Slash e Izzy
spargono riff e arpeggi in quantità industriale, in queste sole due
canzoni c’è abbastanza materiale per farci un album intero. “Rocket
queen” conclude alla maniera del Joe Perry Project e degli Aerosmith
nei loro momenti più neri e funk, con una parte finale forse un pelo
troppo heavy metal ed un altro grande assolo di Slash. Quando Axl giustificò quella mastodontica operazione discografica che furono i due ‘Use your illusion’ dichiarando che i Guns avevano deciso di registrare quanto più materiale possibile perché non sapevano quanto sarebbero potuti durare come band, non venne preso abbastanza sul serio. Pareva inconcepibile che una band dalle prospettive artistiche e sopratutto economiche tanto grandiose avesse il tempo contato. Ma quella dichiarazione doveva essere interpretata più che presa alla lettera. Il Ragazzo Cattivo non dava voce ai propri timori, ma ai propri demoni. Invasato da una megalomania senza speranza, da un egocentrismo incurabile, Axl Rose sfracellò la propria band nel giro di qualche anno, rimanendo solo al centro di un palcoscenico irrimediabilmente deserto. I Guns N’Roses sono tecnicamente defunti all’indomani di quel disco inutile che fu ‘The spaghetti incident’, ammazzati dal loro leader che è riuscito a incanalare la propria tendenza all’autodistruzione fuori di sé, verso quella che era divenuta l’estensione più importante della sua personalità. Non potendo o volendo rivolgere la canna della pistola contro se stesso, Axl la puntò sui Guns N’Roses, massacrandoli con un tiro a segno lento e implacabile. Se questo sia bastato a farne una leggenda, non saprei dirlo. In genere le rock bands ascendono ad una dimensione mitica quando uno dei loro membri – e non necessariamente uno dei più importanti – muore, e non solo tutti i membri originali dei Guns sono vivi e vegeti, ma la fine della band non è stata dovuta al precoce trapasso di uno di essi. La lenta opera di distruzione portata avanti da Axl è abbastanza singolare da meritare una menzione d’onore nella storia del rock, e non sempre la via della gloria è lastricata di cadaveri, ma solo il tempo potrà dirci se i Guns N’Roses sono destinati ad occupare stabilmente il palco dei VIP o a ritirarsi in seconda fila.
La poca simpatia che il webmaster
nutre per i dischi dal vivo dovrebbe essere cosa nota tra i
frequentatori abituali di questo sito. Ma ci sono delle eccezioni... Per parlare dei vecchi Whitesnake,
quelli che avevano come base d’operazioni Londra, prima che David
Coverdale partisse per Los Angeles e si tingesse i capelli di biondo,
avrei potuto scegliere uno qualsiasi dei dischi di studio, magari ‘Ready
an’ willing’. Però, dopo che il suo tentativo di carriera
solista è naufragato nell’indifferenza generale, David Coverdale ha
recuperato il vecchio moniker e si è rimesso a suonare le vecchie
canzoni. Dopo diversi anni passati più o meno ininterrottamente in
tour, da poco è uscito un live completato con quattro canzoni
registrate di fresco, forse il preludio ad un nuovo lavoro di studio.
Non l’ho ascoltato. Non voglio. La decisione è maturata l’estate
scorsa, quando nello special che MTV ha dedicato al Gods Of Metal
italiano ho sentito cos’è oggi la voce di David Coverdale. Capisco
che ci possano essere delle solide ragioni economiche per salire su un
palcoscenico, ma sentire quest’uomo che è stato il mio idolo assoluto
tra i cantanti, il mio punto di riferimento, scatarrare, abbaiare,
latrare... Su quel palco, David Coverdale ha fatto tutto, salvo che
cantare. Quando è partita “Love ain’t no strangers” ha cercato
disperatamente di entrare nel coro, prima affannando come un asmatico,
poi emettendo una
serie di ringhi striduli e rugginosi: infine si è dovuto arrendere per
pura mancanza di fiato, supplendo all’improvviso mutismo con un
frenetico sventolare dell’asta del microfono... Il Crepuscolo degli
Dei, davvero. David Coverdale sul palco del Gods, è stato purtroppo la
perfetta esemplificazione del luogo comune “diventare la caricatura di
se stessi”. Non è stata una serata storta. Le sue corde vocali sono a
pezzi e lui, semplicemente, dovrebbe ritirarsi dalle scene, punto e
basta. Invece, tira avanti, dandosi in pasto ad una folla che lo
applaude comunque, anche se non si capisce proprio cosa ci sia da
applaudire. Ma forse, quei ragazzi venuti per assistere al concerto di
una leggenda dell’hard rock non avevano mai sentito questo disco... Tra la fine degli anni 70 ed i
primi 80, gli Whitesnake sono stati la più bella realtà dell’hard
rock blues assieme ai Bad Company. L’avventura conclusa con ‘Slide
it in’ nel 1983 ha segnato indelebilmente la storia del rock
inglese. Dopo sono venute altre cose, diverse ma ugualmente belle, di
cui potete leggere cliccando qui. In questo disco dal vivo, il
classico “doppio live”, come usava all’epoca degli LP, David
Coverdale e la sua band (che allora era composta da Mick Moody e Bernie
Mardsen alle chitarre, Neil Murray al basso e i vecchi compagni dei Deep
Purple Jon Lord e Ian Paice) si autocelebravano senza retorica e con il
giusto orgoglio di fronte ad una folla adorante. Niente lunghe
divagazioni strumentali alla maniera dei Purple, solo le canzoni, in
versioni abbastanza fedeli a quelle già note, riproposte con
impeccabile grazia e potenza. E su tutto, imperava lui, l’uomo che forse solo avrebbe avuto diritto ad essere
investito del titolo di The Voice,
la Voce. Perché da quella laringe che oggi possiamo paragonare ad un
pezzo di metallo arrugginito e contorto ma venticinque anni fa era puro
argento, usciva qualcosa di unico, miracoloso. Le grandi voci hanno
questo di particolare: non si riesce mai a definirle con precisione. Una
voce strepitosa non è mai soltanto
acuta o profonda, ma queste cose assieme ed altre. Ha caratteri
sfuggenti, forse inafferrabili. Si prova a circoscriverla, si danno
magari punti di riferimento, ma non serve a far capire davvero.
E’ come una magia, e David Coverdale era un mago, un incantatore. Se
la musica degli Whitesnake ha mai avuto un punto debole è stato nei
refrain, che a volte, non si può negarlo, erano abbastanza fessi... cioè:
sarebbero stati fessi se a
cantarli ci fosse stato qualcun altro. La voce di David li innervava di
una forza stupefacente, di sfumature insospettabili. Quella voce era
calore ed un’irruenza maschia, virile, sovrapposta ad un trepidare
quasi da adolescente. Un incrociarsi di armoniche al limite
dell’incredibile. La forza bruta ma mai senza controllo e la
raffinatezza. Insomma: opposti che si coniugano invece di fare a pugni.
E se questo incessante miracolo rifulgeva meglio quando poteva
realizzarsi fra le pareti di uno studio di registrazione non smetteva
certo di risplendere nel momento in cui andava a rinnovarsi sulle assi
di un palcoscenico. Questo live – l’unico che fino
a ieri avessero registrato gli Whitesnake, fatta eccezione per ‘Starkers
in Tokio’, che però era un unplunged – mette assieme la creme di tre concerti registrati il 23 e 24 giugno del 1980 ed il 23
novembre del 1978 all’Hammersmith Odeon di Londra, almeno nella
versione europea e giapponese, mentre in USA mi pare che fu pubblicato
in versione singola, con il solo concerto del 1980 (ma anche in Europa,
in un primo tempo, uscì come singolo, la versione estesa era riservata
al solo Giappone: da pochissimo ne è poi uscita una versione
rimasterizzata su due CD, completata da bonus tracks). Quanto sia stato
ritoccato in studio non sono in grado di dirlo. Che qualcosa sia stata
sistemata, qua e là, mi pare almeno realistico, dato che l’ultimo
live totalmente e genuinamente live
probabilmente è stato registrato ai tempi di Elvis... Nella prima
versione CD era stata esclusa la seconda esecuzione di “Come
on”, per far entrare tutto su un solo disco. Per quanto mi
riguarda, avrebbero anche potuto lasciarcela e tagliare “Might
just take your life”, l’unica scheggia recuperata dai tempi
dei Purple assieme all’inevitabile “Mistreated”:
con tante cose tra cui scegliere, perché proprio quella, mi sono sempre
chiesto? Perché non suonare “Burn” o “Lady double dealer”?
Bah... Dunque, questi sono i vecchi
Whitesnake, quelli che David Coverdale mandò in soffitta
quando decise di traslocare a Los Angeles, quelli che agli
yankees non erano mai andati abbastanza a genio. Erano la voce di David,
la chitarra slide di Mick Moody e la double neck di Bernie Marsden, l’Hammond
di Jon Lord, il basso e la batteria di illustri gregari come Neil Murray
e Ian Paice. Erano il rock blues: robusto, massiccio, ma sempre
melodico. Erano, sopratutto, essenziali. Pur avendo due chitarre e le tastiere, il sound degli
Whitesnake di rado si faceva ridondante, forse era anche la produzione
di Martin Birch, uno che di fronzoli e infiocchettature non è mai stato
campione, che puntava al sodo (e la ricetta funzionava quando lavorava
con grandissime band, come Deep Purple, Black Sabbath, Rainbow e,
appunto, Whitesnake: con gli Iron Maiden è stata tutta un’altra
storia). Se conoscete solo la versione
americana di questa band, e volete capire in un colpo solo cos’erano
gli Whitesnake prima di emigrare, cominciate subito con “Fool
for your loving”. Qui non c’è la chitarra stratosferica di
Steve Vai, la produzione lussuosa di Keith Olsen e Mike Clink, le
sfumature e gli arrangiamenti sofisticati. E’ tutto molto più
diretto, spontaneo, blues; in un certo senso, tutto molto più
Coverdale-dipendente, nel senso che è l’interpretazione di David a
fare – come più sopra ho già sottolineato – la differenza. “Aint
gonna cry no more” è introdotta da una dodici corde leggiadra
(la suonava Bernie Marsden) e ci ricorda che David non aveva scoperto i
dischi dei Led Zeppelin solo all’epoca di ‘1987’.
E poi il blues, caldo, pesante, fascinoso con “Love
hunter”, “Walking in the shadows of
blues”, il classico di Bobby Bland “Ain’t
no love in the heart of the city” e l’interminabile,
meravigliosa “Mistreated”, blues che
diventa hard rock, scivolando sui riff di “Ready
‘an willing”, “Come on”, “Sweet
talker”: quell’hard rock britannico, di grana grossa,
impostato sull’accoppiata “energia & attributi maschili da
cavallo” per cui non c’erano vie di mezzo: o era irresistibile oppure ridicolo e pacchiano come un orango in tutù ( nota bene: il
webmaster non si ritiene responsabile di eventuali associazioni mentali
che i suoi lettori possano aver fatto del succitato primate in costume da ballerina con i Saxon). Dopo questo live, gli Whitesnake ci
dettero altri tre bellissimi dischi, 'Come
an' get it', ‘Saints and
sinners’ (da cui David recupererà “Here I go again” per
farne il singolo di maggior successo estratto da ‘1987’,
con il suo numero uno su Billboard)
e ‘Slide it in’ (che contiene il
più travolgente anthem scritto dalla band, quella “Slow and easy”
su cui David dà il suo più bel saggio di vocalità Plant - ispired).
‘Slide it in’ rappresenta il momento di
passaggio, con le sue due versioni, quella originale pubblicata in
Europa e quella riveduta e corretta per il mercato USA, rimixata da
Keith Olsen e con nuovi assoli di chitarra incisi da John Sykes. Dopo
verranno gli splendori metallici di ‘1987’
e ‘Slip of the tongue’, una nuova immagine che si è impressa
incancellabilmente nella memoria, quasi assurgendo a simbolo di
quell’epoca, sopratutto tramite i videoclip di “Still of the
night” e “Is this love”: non per caso gli SR 71, nella loro
divertente e nostalgica “1985”, cantavano: “Lei
voleva diventare un’attrice / voleva diventare una stella / voleva
agitare il culo / sul cofano della macchina degli Whitesnake”...
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