Le due ultime band di cui ho scritto che avevano una leadership vocale femminile (i Perfect Crime e Darby Mills) fanno parte del gruppo delle lost gems che più lost non si può, dato che i loro album: a) non si trovano in giro; b) se – per chissà quale miracolo – si trovano, costano cifre che giustificano almeno dal punto di vista finanziario il paragone di certi CD con le pietre preziose. Per farmi perdonare quello che probabilmente qualcuno interpreta come sadismo o crudeltà gratuita (prima ci attizzi, poi tiri la solita stangata del “reperibilità: scarsa”) voglio segnalare all’attenzione di chi mi legge un disco che gira su eBay e Amazon in un numero discreto di copie e viene venduto sempre intorno ai cinque o sei dollari, uno di quegli album che per qualche assurdo motivo viene guardato dall’altro in basso dai cacciatori di reliquie dei Big 80s ma merita tutta l’attenzione di chi ama l’hard melodico blues based. Anima dei Cell Mates erano le gemelle Paula e Pamela Mattioli, che nel 1987 si erano già fatte notare con i Gypsy Queen, per un disco prodotto nientemeno che da Jack Douglas. Nonostante un discreto sforzo promozionale, sopratutto sul fronte live, i Gypsy Queen non erano mai decollati, complici anche beghe legali con alcuni ex membri della band che convinsero le gemelle a chiudere quell’esperienza e ripresentarsi al pubblico con un nuovo moniker, Cell Mates appunto, mutando in parte anche l’indirizzo musicale. I Gypsy Queen facevano un hard melodico levigato e californiano, apprezzabile ma senza picchi a livello di songwriting: non una band trascurabile, ma neppure da annoverare tra i maestri del genere. Con i Cell Mates, invece, le gemelle decisero di indurire il sound e spostarsi verso il blues, perfezionando il loro interfacciamento vocale a livelli davvero altissimi. Perché poi questo disco abbia riscosso consensi così tiepidi non solo a livello di pubblico ma anche di critica (ricordo la recensione di un noto magazine nazionale – firmata oltretutto da una persona che mi era sempre parsa abbastanza obiettiva ed equilibrata – impostata su un tono canzonatorio ingiusto e addirittura offensivo) non so spiegarmelo, dato che il songwriting era di buon livello, la produzione (opera di Richie Wise e Thom Panunzio) anche e le due vocalist offrivano una performance spettacolare. Le voci delle gemelle erano, prevedibilmente, abbastanza simili, ma se Paula ricordava Lee Aaron nei suoi toni più rauchi, Pamela era invece una sorta di Tina Turner più acuta: questa differenza di carattere veniva abilmente sfruttata non solo passando da una canzone all’altra ma anche all’interno della stessa track, con Paula che generalmente conduceva le danze e Pamela impegnata a sottolineare e rifinire con le sue tonalità più abrasive e violente. “Bottle of Sin” apre il disco con un riff rotolante e zeppeliniano, lenta, sexy, adorna di un refrain vagamente anthemico contrappuntato dall’armonica, “Glass Mountain” segue la stessa scia, ma risulta ancora più à-la-Page, secca e sinuosa, con qualche ombra Heart sulle parti vocali. “Bird in a Gilded Cage” è una power ballad ruvida e robusta; la title track, uno swing metallico alla Van Halen ad altissimo voltaggio, veloce eppure suadente: super. “Spirit Is Willing” alterna parti più ruvide ad altre melodiche, mentre “You’re My Obsession”, ritmata ed elettroacustica, dal grande refrain, suona come una versione hard rock di Sheryl Crow. “A Sister’s Love” è secca, tonante, cadenzata, risolutamente bluesy pur nel suo furore metallico ed a seguire c’è lo splendido slow blues “(It’s Close) But It Ain’t Love”, intenso e pieno d’atmosfera. Un bell’intreccio di chitarre elettriche caratterizza “Time Marches On”, potente hard blues con refrain rhythm & blues ed un fantasma di ottoni nel finale. “All Funked Up” è un’altra zampata magistrale, tagliente e melodica, con un ritornello funk e zeppeliniano ed un solo di sax in coda e chiude “Take Care of Yourself”, solida power ballad, un po’ Heart un po’ Beatles. I Cell Mates non ebbero miglior fortuna dei Gypsy Queen, e le Mattioli sisters, dopo questo nuovo fiasco, si ritirarono dalla scena musicale cominciando la carriera di attrici, con un successo discreto, prestando saltuariamente le loro voci come backing vocalist. Che ‘Between two fires’ sia andato così male non c’è da meravigliarsene, considerato quanto e come i Cell Mates vennero strapazzati dalla stampa musicale. Ingiustamente, lo ripeto, perché il disco, pur non essendo un capolavoro epocale, è veramente buono, e davvero non si capisce il perché di un gioco al massacro che affossò una band come minimo degna di rispetto.
Viviamo tutti di fissazioni: talvolta innocue, altre perniciose o addirittura maligne, e in genere ostentate senza un filo di verecondia. C’è magari chi è convinto di diventare irresistibile con un certo taglio di capelli che agli occhi altrui lo fa apparire del tutto grottesco. O chi ritiene di risultare elegante con una cravatta dai colori chiassosi e allucinogeni. Chi pensa di essere un gran cuoco ma sa preparare solo intrugli nauseabondi. C’è chi crede in tutta onestà di essere un esperto in una data materia, solitamente futile (gli scacchi, il calcio, la musica, la politica, la floricoltura…) e chi nutre la convinzione di saper dipingere meglio di Van Gogh anche se non sa fare altro che scarabocchi. Eccetera eccetera eccetera. La casistica è infinita, e lascio alla vostra immaginazione o alla vostra (triste) esperienza di arricchirla. Nel particolare caso di Joe Perry, la fissazione, anche se non dichiarata dal proprietario, è evidente e da lungo tempo radicata: cantare. Joe è un chitarrista immenso, ma è chiaro che suonare non gli basta, non lo soddisfa appieno, non gli dà abbastanza gioia. Quello che veramente, mi pare di capire, gli piace, è stare davanti ad un microfono e gorgheggiare… per modo di dire. Non si può che qualificare questa cosa come una fissazione, perché Joe Perry semplicemente non sa cantare: non ha timbro, né volume, né tecnica. A volte non riesce neppure a restare intonato. Certo, di voci “imperfette” è piena la storia del rock e chi oserebbe negare lo status di cantante a personaggi che magari madre natura non aveva dotato di corde vocali d’argento né di polmoni dalla capienza sconfinata ma riuscivano grazie alla pura e semplice personalità a farsi ascoltare con devozione, come, tanto per fare due nomi, Stevie Ray Vaughan e Willy DeVille? Ma nella sua voce, anche meno che “imperfetta”, Joe non riesce a mettere non dico personalità, ma neppure la minima convinzione, dandoci quasi l’idea che il primo ad essere annoiato e infastidito da quella voce sia proprio lui stesso… Eppure, saltuariamente con gli Aerosmith e con il Joe Perry Project, Joe strappava a forza il microfono ai titolari e si esibiva al canto, con risultati che se proprio vogliamo essere buoni erano sconcertanti. Ma lui insiste, imperterrito e sicuramente inverecondo, e con questo suo esordio da solista viene completamente allo scoperto. Non assume un cantante per rubargli poi il microfono, come faceva ai tempi del Project, ma esegue tutte le parti vocali, con quali risultati è facilmente immaginabile. Perché? Be’, non ho una risposta. Meglio: non ho una risposta razionale. Lo fa, innanzitutto, perchè è convinto di saper cantare, e, forse ancora peggio, ritiene che a qualcuno possa far piacere sentirlo cantare. In tanti anni, ci sarà stato almeno uno che ha avuto il coraggio di dirglielo: Joe, lascia perdere, non sai cantare, non puoi cantare, sentirti cantare è una tortura o un invito aperto a schiacciare un pisolo… Ma, sia accaduto o no, Joe è fissato di essere anche un cantante (forse, addirittura, un bravo cantante) e niente riuscirà mai a persuaderlo del contrario. Ora: val la pena di subire il martirio della voce di Joe pur di sentirlo suonare? Sì, assolutamente sì. In effetti, quella voce è talmente piatta e trascurabile che, una volta entrati nella canzone, risulta difficile anche solo udirla, sembra confondersi col resto e svanire… Venendo (finalmente) alla musica suonata da Joe, in questi tredici pezzi (undici originali e due cover), la sentiamo muoversi lungo i sentieri familiari già seguiti con il Project, un hard rock pieno di rifrazioni blues e funk. “Shakin’ My Cage” dà il via alle danze, scintillante, veloce, settantiana, fatta di strati su strati di chitarre slide: grasse, limpide, veloci, convulse. Il riff minimale di “Hold on Me” compone un tappeto elettrico ed ipnotico mentre “Pray for Me” è arabeggiante, lenta e fascinosa. “Can’t Compare” e “Lonely” hanno qualcosa di moderno, e alternano parti molto ispide ad altre più melodiche. “Crystal Ship” è un’impeccabile cover dei Doors, con un Joe sorprendentemente buono al canto. Di nuovo hard blues dallo shuffle strepitoso con “Talk Talkin’“ e a seguire “Push Comes to Shove” si rivela, opportunamente attualizzato, per uno di quei cool funky che Joe faceva ai tempi del Project: super. “Twilight” è un divino strumentale, un funky blues mutante e imprevedibile, tutto un intrecciarsi di assoli luminosi dove Joe sembra ispirato sopratutto dal chitarrismo di Jeff Beck e Steve Howe. “Ten Years” è una ballad carezzevole e solare, mentre la “Vigilante Man” di Woody Guthrie viene trasformata da Joe in un hard blues selvatico fatto tutto di slide sporchissime. Si torna agli anni ‘70 con “Dying to Be Free”, col suo riffing sfrigolante e in chiusura arriva il secondo strumentale, “Mercy”, un rovente blues dalla scansione ritmica straordinaria con un’altra stupefacente serie di assoli che sfumano e trascolorano l’uno nell’altro. L’anno scorso Joe si è ripetuto con ‘Have Guitar, Will Travel’, per ingannare il tempo (suppongo) durante questo prolungato (e inquietante) silenzio discografico degli Aerosmith, con un risultato finale non dissimile da ‘Joe Perry’: hard rock diretto, senza troppi fronzoli, tutto imperniato sulla sua chitarra… e – nonostante Joe abbia arruolato un cantante, tal Hagen Grohe, nella maggior parte dei pezzi c’è sempre lui dietro il microfono – sulla sua terribile voce, of course: il prezzo che dobbiamo pagare per sentirlo suonare, purtroppo. Se sia piccolo o grande, solo le vostre orecchie possono deciderlo.
Uno degli enigmi più sconcertanti nella storia dell’hard rock USA è racchiuso nella nuova identità che i Van Halen vollero darsi dopo l’abbandono di David Lee Roth e il sodalizio con Sammy Hagar. Quel volgersi ad un suono più patinato e meno metallico forse fu un fatto di puro calcolo, ma di certo fu un calcolo sbagliato. Classifica di Billboard alla mano, tutto quanto i Van Halen era Roth hanno registrato ha totalizzato ad oggi, nei soli Stati Uniti, 34 dischi di platino contro i 16 dell’era Hagar. ‘5150’ inaugurò un periodo tutt’altro che dorato per le fortune dei Van Hagar, lasciando un vuoto che parecchie band tentarono di riempire. Perché quando il pubblico va in crisi d’astinenza per un certo sound, spunta sempre l’opportunista di turno più o meno in grado di surrogare la band che si è eclissata o ha preso altre strade. Nel caso particolare dei Van Halen, era difficile proporre qualcosa che fosse poco più di un surrogato, dato che gli Eddie Van Halen non si trovano precisamente ad ogni angolo di strada. I Bulletboys furono la più emblematica delle bands surrogato dei Van Halen. Non solo il sound ma anche l’immagine era ricalcata sfacciatamente su quella dei Van Halen era Roth, con il singer Marq Torien (era transitato brevemente nei Ratt) che avrebbe potuto vincere per acclamazione un concorso per imitatori di Diamond Dave. Il chitarrista Mick Sweda (aveva fatto parte dei King Kobra, band a mio sommesso parere sempre un pelo sopravvalutata) non era assolutamente in grado di sfidare Eddie Van Halen sul terreno della creatività e della pura tecnica, ma neppure ci provava: il concetto, infine, era quello di fornire al pubblico qualcosa che desse l’idea dei VH, un continuo rimando a quella band di cui tanti si sentivano orfani. Il risultato finale era un sound che camminava su un filo sottile, rischiando costantemente di precipitare nella monotonia anche per la scelta di proporsi in una versione abbastanza raw, con pochissime sovrincisioni e la sezione ritmica sempre in grande evidenza. Un sound apprezzato molto più dal pubblico americano che da quello europeo, considerato che i Bulletboys non trovarono grandi consensi nel vecchio continente, riscuotendo invece un discreto successo in patria (‘Bulletboys’ raggiunse il numero 34 su Billboard e lo status di disco d’oro). La formula non cambiò di una virgola né sul secondo album ‘Freakshow’ né sul terzo, ‘Zaza’, prima che la band decidesse di cambiare orientamento musicale per mettersi al passo con i nuovi tempi, il monicker vive ancora grazie a Marq Torien, unico supersite della prima line up, l’ultimo disco è uscito l’anno passato, e naturalmente della band che conoscevamo è rimasto solo il nome. Le dieci canzoni dell’esordio autointitolato e prodotto (ovviamente) da Ted Templeman facevano quasi corpo unico, la formula base veniva variata pochissimo tra un pezzo e l’altro, se “Hard as a Rock” parlava la lingua dell’hard rock californiano di grana grossa, “Smooth Up in Ya” –con il suo basso rotolante, il riff stile macigno scandito da una chitarra sporca e satura, il coro sleaze, grossolano e anthemico, l’assolo divertente e melodico di Mick Sweda – andava dritta al punto senza remore o pudori, proponendo una convincente fotocopia di quel sound che Ted Templeman aveva forgiato assieme a Eddie e soci, mancante però di qualsivoglia guizzo in fatto di originalità (proprio quello che nei VH, dunque, faceva la differenza). “Owed to Joe”, con il suo riffone grasso e blues, ampliava appena lo spettro espressivo in direzione Aerosmith, ma “Shoot the Preacher Down” tornava dritta al concetto ispiratore, un hard blues dal bello shuffle, quasi una versione secca ed essenziale della sempiterna “Hot for Teacher”. “For the Love of Money” procedeva con un altro riff granitico su cui si stendeva il canto sguaiato e istrionico di Marq, “Kissin’ Kitty” era più metallica e veloce, con un refrain appena più melodico. La preferenza per il suono Van Halen periodo ‘1984’ era confermata anche da “Hell on my Heels” e dalla martellante “Badlands”, mentre la bluesy ed ispida “Crank Me Up” esibiva un riff sfrigolante e velocissimo e la chiusura con “F#9” ci dava ancora un ritornello sleaze e accattivante su una base elettrica ed essenziale. Certo non indispensabili, ma i seguaci dell’heavy rock ottantiano più sanguigno, che poco o nulla concedeva alle lusinghe del suono “commerciale” più in auge all’epoca, non potevano non sentirsi stuzzicati dalla proposta di una band che tutto sommato non pretese mai di essere altro che un (buon) surrogato.
Sì, lo so cosa state pensando: ma chi è ‘sto tizio? È una domanda tutt’altro che inammissibile, dato che la maggior parte di quelli che si interessano di hard rock non possono sapere chi è Walter Trout, che è invece celebre fra chi si interessa di blues. Il punto è, che Walter Trout, nonostante le etichette che gli sono state appiccicate e la sua stessa rinomanza nella scena blues (oltre alla sua ormai lunga carriera solista, Walter può vantare nel suo carnet una militanza di diversi album con i Canned Heat ed i John Mayall’s Bluesbreakers), ha pubblicato parecchi lavori che alle mie orecchie sono di hard blues, e non dei più vellutati. Ma ho già sottolineato, e più di una volta, che tra blues e hard rock il confine è nebuloso, incerto, fluttuante: e Walter Trout, questo confine lo ha superato con regolarità sopratutto al principio della propria carriera, anche se il suo modo aggressivo di suonare situa comunque la sua proposta in un ambito sempre molto più vicino al rock che al blues propriamente detto. E coloro che apprezzano bands come Great White, Badlands, Dirty White Boy, Whitesnake pre ‘1987’ eccetera non potranno non ritrovarsi perfettamente a proprio agio alle prese con il materiale caldissimo ed elettrico che Walter sforna ormai da una ventina d’anni. I critici possono anche chiamarla “blues”, questa roba, ma per le mie orecchie quello che viene fuori da dischi come ‘Tellin’ stories’ o ‘Breakin’ the rules’ è hard rock, e mi pare doveroso segnalarlo a chi ama il genere ma di Walter Trout non ha mai sentito parlare solo perché il suo nome è iscritto nelle liste blindate dei chitarristi blues. Lo so che qualcuno tra i frequentatori di questo sito preferirebbe leggere sempre di band conosciute e canonizzate, che mi dedicassi a recensire magari campioni del melodic rock della terra dei crauti tipo i Fair Warning o i Sinner (argh!), oppure puntassi la bussola ancora più a nord, verso le nevi eterne che aleggiano sui dischi di gente come Treat, Da Vinci o Glory, ma, a parte il fatto che le mie opinioni riguardo la scena germanica e scandinava credo siano ormai arcinote tra chi mi segue con regolarità (sì, parlo proprio di voi tre…), quello che davvero mi piace è scavare fuori dall’oblio o dalla nebbia della disinformazione artisti meritevoli di essere conosciuti da un pubblico più vasto di quello che hanno avuto, e Walter Trout è sicuramente uno di questi: i riscontri non gli sono certo mancati, ma non c’è ragione che il suo nome resti confinato ai patiti del blues. Come possa poi chi è abituato ai toni cristallini delle sei corde di, che so, B.B. King o Robert Cray, bearsi nello stesso modo della chitarra perennemente in overdrive di Walter Trout, francamente non lo so: debbo però annotare che anche a Walter non sono mancate le accuse di critici e puristi del blues che gli rimproveravano di suonare troppo veloce e/o troppo forte per le loro delicate orecchie… Tra i suoi dischi scelgo ‘Tellin’ stories’ magari un po’ a caso, o per la presenza su quest’album in veste di performer e compositore di un personaggio ben noto nel nostro genere, l’ex Whitesnake Bernie Marsden. Voglio dire: potrei riferirvi anche di altri dischi di Walter, la sua ricetta sonora non è poi cambiata granché nel tempo, una ricetta che ha come principali ingredienti la sua Fender Strato del ’73 ed il suo ampli Mesa Boogie col potenziometro del volume costantemente sul “10”. Perché ‘Tellin’ Stories’ è, come tutti gli altri lavori di Walter, il disco di un chitarrista che trova il proprio maggior piacere nel solismo, pur non rinunciando a comporre canzoni in cui dialoga costantemente con un caldissimo organo Hammond e saltuariamente con il pianoforte e l’armonica. Che il prodotto finale sia blues o hard rock, ha solo un’importanza relativa, di sicuro non importa a Walter Trout, che una volta ha dichiarato: “La gente mi chiede se deve chiamare la mia musica ‘blues’ oppure ‘rock’. Io gli rispondo che, se proprio deve avere un' etichetta, possono chiamarla anche ‘Fred’ ”. Di certo, dell’hard rock questa musica ha la veemenza ed il calore e in genere anche il volume e l’aggressività, fin dall’iniziale “I Can Tell”, aperta da un assolo deragliante, con il suo classicissimo shuffle su cui chitarra e organo Hammond si palleggiano gli interventi solisti. “Tremble” sembra Bob Dylan o Springsteen in versione hard rock anni ’70, mentre la notturna eppure bollente “Wanna See the Morning” ci porta negli stessi territori battuti dai vecchi Whitesnake. “Runnin’ Blues” è aperta da un giro decisamente hendrixiano (avrebbero potuto inciderla i Badlands), mentre sul riff funk secco ed abrasivo di “On the Rise” si stende una melodia sempre molto settantiana contrappuntata dal piano e dall’Hammond. Neppure il boogie sfugge al rude trattamento di Walter, “Head Hung Down” ha – naturalmente – un pianoforte martellante, backing vocals femminili e pennellate di chitarra slide. Sul mid tempo della title track spicca l’armonica, come anche su “Time for Movin’ On”, una straordinaria stesura dal sapore western dove l’Hammond dialoga con la chitarra acustica. “Somebody’s Cryin’ ” è sospesa su un riff strepitoso, notturna ma tramata di elettricità, le ballad hanno un forte retrogusto soul, prima “I Need to Belong to Someone” (un classico di Curtis Mayfield), poi “Please Don’t Go” (che ha nelle melodie qualcosa dei Journey). Gran finale con “Take Care of Yo’ Business”, dodici minuti di slow blues che parte con traditrice dolcezza diventando via via sempre più selvatico e incandescente. Se l’hard blues è una delle vostre priorità, non potete permettervi di ignorare Walter Trout. Come Gary Moore, Jeff Healey e altri artisti frettolosamente incasellati in un certo genere, Walter può dire tanto anche a chi bazzica territori erroneamente considerati estranei alle sue aree di competenza. A lui non importa come chiamiamo la sua musica, rock, blues, Fred… Io la chiamo hard rock e sono sicuro che non pochi appassionati del nostro genere, dopo aver ascoltato i suoi dischi, saranno d’accordo con me.
Un disco può essere tante cose: può essere bello o brutto, noioso o avvincente, ingenuo o cerebrale, lineare o contraddittorio, eccetera eccetera. Può anche essere bello e noioso, oppure brutto ma avvincente. Le sfumature e le sovrapposizioni sono innumerevoli. Questo primo (e mi auguro ultimo) disco dei Black Country Comunion è, innanzitutto, un disco inutile. In secondo luogo, è un disco falso. È inutile perché ogni singola nota suonata qui dentro l’abbiamo già sentita, non una ma centinaia e centinaia di volte. È falso perché cerca di presentarsi come qualcosa che non è affatto, un omaggio all’hard rock degli anni ’70: ma copiare non equivale ad omaggiare. Fa specie vedere un artista come Glenn Hughes buttarsi a capofitto nel citazionismo più furibondo, spiace ritrovare un bravo chitarrista blues come Joe Bonamassa impegnato a scopiazzare tutto lo scopiazzabile dai dischi di Cream, Led Zeppelin, Free e Bad Company, meraviglia sapere che su quest’album suona un gigante delle tastiere come Derek Sherinian dato che lo si sente poco e male e fa proprio rabbia leggere il nome di Jason Bonham come batterista di un lavoro che farà rivoltare nella tomba il suo illustre genitore. È chiaro che Glenn e compagni hanno puntato su un pubblico under 30 che i dischi di quel periodo, gli anni ’70, li conosce poco e male. Come spiegare, altrimenti, canzoni che in certi casi sono vere e proprie cover sotto falso nome? Una persona digiuna di cultura rock può gridare al miracolo, dopo aver ascoltato ‘Black Country’, ma chi ha una conoscenza neppure tanto profonda dell’hard rock di quella decade non può che restare sconcertato. Si può fare musica nello stile di quel periodo senza rubare niente a nessuno (pensate ai Salty Dog), ma è evidente che questa non è stata una preoccupazione della band. Loro volevano copiare, sfacciatamente, senza il minimo pudore, per navigare tranquilli nel mare della beata ignoranza che affligge – suo malgrado – ogni nuova generazione che si affaccia da protagonista sul mercato della musica pop. E se gli acquirenti di ‘Black Country’ sono scusabili, Glenn e compagni non lo sono di certo. Ecco perché parlavo prima di un disco falso e, al limite, disonesto. Che altro si può pensare sentendo Bonamassa che su "Song of Yesterday" trapianta quasi per intero l’assolo di "Stairway to Heaven", nota per nota, replicandone addirittura le timbriche, al punto da far pensare che per suonarlo si sia procurato una Telecaster del '59? Esecuzione impeccabile, d’accordo, ma che senso ha? E la seconda parte di “Too Late for the Sun”, con il riff di “The Wanton Song” rigirato fino alla nausea da chitarra, tastiera e basso? Ripeto: che significa? A chi o cosa serve? La cover di “Medusa”, poi… Glenn scrive orgogliosamente nelle note che Bonamassa ha usato la stessa Les Paul che il povero Mel Galley suonò nel 1970 per incidere la versione originale sul disco dei Trapeze: come dire: non mi allontano da quello che ho fatto quarant’anni fa neppure di un millimetro. Non parliamo poi dei riff minimali, rauchi e rumorosi delle altre canzoni, fregati dal primo all’ultimo dal songbook di Cream, Grand Funk e compagnia. Quel rock così essenziale e claustrofobico, violento e tagliato con il rasoio poteva avere un senso nel 1969 e siamo pronti ad accettarlo e magari a venerarlo se porta sopra un monicker illustre e opportunamente datato: ma rifatto oggi tale e quale, ammettiamolo, il più delle volte rompe terribilmente i coglioni, sopratutto se non è guidato dall’ispirazione ma solo da una volontà filologica che però non riesce ad andare oltre il più bieco “copia & incolla”. Questo è uno di quei (rari) casi in cui mi dispiace sinceramente di aver deciso di non attribuire mai, per principio, un voto ai dischi recensiti. Se lo avessi fatto, oggi potrei mettere in evidenza in qualche box apposito un bello zero spaccato.
A volte, i sogni diventano realtà. Il mio primo sogno (musicale) si avverò nel 1993, quando il mio cantante preferito (David Coverdale) ed il mio chitarrista preferito (Jimmy Page) incisero un disco assieme: un disco che, oltretutto, era esattamente ciò che avevo vagheggiato: la perfetta fusione Led Zeppelin / Whitesnake. Nel 2004, un altro sogno è stato tradotto in realtà, anche se in tono decisamente minore rispetto al caso precedente. Fra tutti i chitarristi venuti fuori dalla scena di Los Angeles dei Big 80s, George Lynch è il mio prediletto, non tanto e non solo per ciò che ha fatto con i Dokken, ma sopratutto per quanto ci ha fatto sentire nei primi due album dei Lynch Mob (e ora posso aggiungere anche il recentissimo ‘Smoke and mirrors’). Fra i cantanti di quella medesima scena, in cima alla mia lista – rigorosamente appaiato a Paul Shortino – sta Kelly Keeling, la strepitosa voce dei Baton Rouge. Nel mio libro dei sogni, ai primi posti c’è una versione di ‘Wicked sensation’, il primo album dei Mob, cantata da Kelly. Cerco di immaginare quella sua voce fatta di velluto e carta abrasiva alle prese con “She’s evil but she’s mine”, “Dance of dogs”, “River of love”… Okay, questa è destinata a rimanere pura materia onirica. Ma qualche anno fa, George Lynch si rivolse proprio a Kelly Keeling per le parti vocali del suo cover album e almeno una piccola parte di quel sogno, i due che collaborano, si concretizza. ‘Furious George’ può sembrare il classico disco messo assieme per pagarsi la macchina nuova o le rate del mutuo, dodici canzoni più o meno note incise senza troppi fronzoli, con George che addirittura lascia le parti di chitarra ritmica a Kevin Curry per concentrarsi sugli assoli, ma l’ascolto ci porta oltre la routine dei tanti, troppi cover album che ormai da parecchi anni artisti e case discografiche ci propinano con implacabile protervia. George riesce a interpretare queste dodici schegge di rock settantiano con quella personalità che mai gli ha fatto difetto, filtrandole attraverso il proprio strepitoso chitarrismo, offrendoci qualcosa che va al di là della pura esecuzione, per quanto impeccabile possa essere: non siamo dunque al cospetto di una semplice full immersion filologica nel rock degli anni ‘70, ma di una (parziale) riscrittura di quel materiale, filtrato attraverso la sensibilità di un guitar hero che si è sempre distinto per originalità e per la sua capacità di affrontare una molteplicità di tematiche senza forzature e sopratutto senza la tipica tentazione che insidia i virtuosi della sei corde, ovvero dimostrare quanto si è bravi e/o veloci a muoversi lungo la tastiera. Per cominciare, George ci propone anzi versioni molto sobrie di “Space Station #5” dei Montrose (ispida e diretta) e di “Sins A Good Man`s Brother” dei Grand Funk Railroad (hard blues lento e selvatico, con un finale accelerato e violento). Con il superclassico di Bob Dylan “All Along The Watchtower”, George mette a segno il primo colpo da maestro, riuscendo a trasfigurare questa canzone tanto nota (e tante volte coverizzata) tramite una struggente linea di chitarra solista che la percorre dal principio alla fine. Altra scommessa vinta è la “Stormbringer” dei Deep Purple, dove il chitarrismo di Richie Blackmoore viene riletto magistralmente da George, che riesce a farlo proprio senza snaturarlo. “I Want You/She`s So Heavy”, l’ultima canzone registrata dai Beatles, viene approcciata invece in maniera differente: con Kelly anche alle tastiere, George fa praticamente piazza pulita di tutti gli elementi prog, trasformandola in uno slow blues ipnotico solcato da imponenti fiammate elettriche. Molto rispettosa la versione di “Blood Of The Sun” dei Mountain, che ci ricorda oltretutto come negli anni ’70 l’hard rock più bluesy non fosse appannaggio solo di Cream, Free o Bad Company: lode a George che è andato a recuperarla. “Bridge Of Sighs”, del grande Robin Trower, diventa nelle mani di George un voodoo blues lento e notturno, misterioso e arcano, con un Kelly Keeling semplicemente strepitoso. Poi tocca agli ZZ Top di “Precious And Grace”, una canzone estratta da ‘Tres Hombres’, dieci anni prima della svolta canzonettara (ma su ‘Tres…’ c’era anche “La Grange”, il prototipo di tutti i boogie hard ballabili), un hard bluesy diretto e veloce, adorno di un riff stile sega elettrica. Di nuovo un superclassico con “I Ain`t Superstitious”, scritta da Willie Dixon e che un George addirittura torrenziale propone seguendo – ovviamente – le linee guida della versione più celebre, quella del Jeff Beck Group, dandone però un’interpretazione molto più blues, con un Kelly Keeling grandissimo che non fa assolutamente rimpiangere Rod Stewart. “One Way Or Another” è la title track del secondo album di una band da noi pochissimo nota, i Cactus, che Tim Bogert e Carmine Appice formarono dopo aver lasciato i Vanilla Fudge, quasi un preludio ai più famosi Beck, Bogert & Appice. È ancora un hard blues, torrido ed essenziale, con una parte centrale tempestosa su cui si alza acuminato il solo di George. “You Shook Me” George l’aveva suonata anche sul primo volume della serie ‘L.A. Blues Authority’ (per saperne di più, seguite il link), qui la ripropone adornandola di un assolo fantastico. Kelly appare su questa canzone vagamente in imbarazzo: fa del suo meglio, ma gli acuti alla Percy non sono mai stati il suo forte, e nel finale, per quanto ci provi a planteggiare un po’, non può ovviamente reggere il confronto con altri singer capaci di cavalcare ottave più alte di quelle che la sua ugola è capace di raggiungere. Chiude “Dancing Madly Backwards” dal repertorio dei Captain Beyond, ensamble formato da illustri ex di Deep Purple, Iron Butterfly e Johnny Winter Band: dal riff spezzato si passa ad un’improvvisa accelerazione pilotata dall’Hammond che proietta in un finale schizofrenico e pieno di dissonanze. Era da tempo che volevo scrivere di ‘Furious George’, mi ha fatto decidere l’ascolto di quella bruttura che ho recensito poco tempo fa e che trovate appena più sopra, il disco dei Black Country Communion: perché ‘Black Country’ si dimostra alla fine molto più “cover album” di questo lavoro tanto onesto quanto sentito dai suoi interpreti rispetto a quel patetico o indecente (dipende dai punti di vista) coacervo di furti e scopiazzature presentate come il parto di personaggi illuminati i quali, almeno lavorando sotto quel monicker, dimostrano invece di aver smarrito il lume della ragione o di essere convinti che quel lume lo abbiamo smarrito noi che siamo stati tanto ingenui da dargli una fiducia immeritata. Anziché buttare soldi per quella bruttura, andate invece a recuperare ‘Furious George’.
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