HARD BLUES DEPARTMENT

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L.A. BLUES AUTHORITY

 

 

  • L. A. BLUES AUTHORITY (1992)

Etichetta:Shrapnel/Blues Bureau Reperibilità:scarsa

 

Questa potrebbe essere la recensione più importante dell’HARD BLUES DEPARTMENT. Di sicuro, questo è il disco più difficile tra quelli finora presentati da far ingoiare a chi bazzica i territori dell’hard melodico: una sfilza di cover di classici del blues interpretati in chiave hard rock da illustri personaggi della scena hard rock e metal. Non è pane per tutti i denti, lo so; ma se amate bands come Cinderella, Great White o ZZ Top, se siete rimasti stregati dal Neal Schon di ‘Piranha blues’, questo disco può essere una rivelazione.

La gran parte di queste canzoni è stata già coverizzata, più e più volte. Riproporre un classico del blues non è certo una novità, in ambito genericamente rock, e per quanto riguarda l’hard rock, ricordiamo solo che i Led Zeppelin hanno rifatto vecchi blues fino ai tempi di ‘Physical Graffiti’. Ma che valore può avere realmente una collection del genere? Oltre il puro aspetto divulgativo, c’è il piacere di sentire un certo genere di musica rifatto alla nostra maniera. Che poi qualcuno, dopo aver ascoltato queste canzoni, voglia approfondire il discorso, e magari andare alla ricerca degli originali, è possibile, ma non sarà certo lo scrivente a spronare i suoi lettori a procurarsi i dischi di Robert Johnson o Junior Welles. L’opera omnia di Robert Johnson, per esempio, è composta da una quarantina di canzoni registrate tra il 1936 ed il 1937. Potete trovarle in una marea di edizioni. Ma, a parte le ovvie riserve sull’infima qualità audio, si tratta di materiale che viene da un tempo così remoto, e da una cultura così lontana dalla nostra che ben difficilmente chiunque non abbia una predisposizione particolare al genere saprà apprezzarle. Io non ci riesco, e sì che per il blues vado pazzo... E allora, ecco il valore di dischi come questo: darci l’opportunità di godere un certo stile di musica che altrimenti non sapremmo o potremmo gustare.

 

“Il blues si sviluppò dalla necessità di sopravvivere nel mondo brutale che era in agguato appena uscivi fuori della chiesa. A differenza del gospel, il blues non era una musica trascendentale; il suo equivalente della Grazia di Dio erano sesso e amore. Il blues rese più facile da sopportare il terrore del mondo, ma il blues rese anche più reale questo terrore. (...)”

Questo scrive Greil Marcus nel suo magnifico (ma straziato da una traduzione dilettantesca, incerta e costellata di errori marchiani) libro “Mistery Train - Visioni d’America nel Rock” (Editori Riuniti, 2001), ed è forse la più limpida e la meno retorica interpretazione di ciò che il blues ha rappresentato per coloro che lo hanno inventato, i neri americani. Ma dovrebbe anche essere un punto fermo per qualsiasi ragionamento si voglia imbastire su quel genere musicale conosciuto come hard rock. Perché l’hard rock nasce direttamente, senza praticamente alcuna mediazione, dal blues. Led Zeppelin e Black Sabbath non sono partiti dai dischi di Rolling Stones, Beatles o Bob Dylan per distillare le proprie alchimie sonore, ma da quelli di Howlin’ Wolf e Muddy Waters e Willie Dixon. I modelli vocali di Robert Plant non erano Mick Jagger o Paul McCartney, ma Elvis Presley e Howlin’ Wolf. I riff che Tony Iommi e Jimmy Page usavano per scrivere le loro canzoni discendevano da quelli che bluesmen neri avevano suonato con le loro chitarre acustiche negli anni 40 e 50. E se nel brano prima citato, alla parola “blues” sostituiamo le parole “hard rock”, possiamo renderci conto che quanto scritto da Marcus vale pari pari per il nostro genere. Tutto è cominciato dal blues, e tutto quanto è venuto dopo dal blues è disceso e derivato, più o meno direttamente: è una linea aggrovigliata, un cordone ombelicale che ci unisce a quell’esorcismo contro il “terrore del mondo” che era nello stesso tempo una sfida, una beffa ed una mano tesa a quello stesso terrore.

 

E andiamo a incominciare, procedendo con un rigoroso track by track, e precisando che su tutti i dieci pezzi le parti di chitarra ritmica sono eseguite da Kevin Russell.

 

BABY PLEASE DON’T GO: autore è Big Joe Williams, il primo guitar hero della storia del blues (e probabilmente il primo guitar hero in assoluto), diventato celebre per la sua tecnica strepitosa che gli permetteva di suonare contemporaneamente parti ritmiche e soliste su uno strumento a nove corde (la prima, la seconda e la quarta corda erano doppiate) con un'amplificazione rudimentale. Questa canzone è diventata probabilmente la più celebre hit della storia del blues, rifatta da innumerevoli artisti, sia su disco che dal vivo: AC/DC (sul loro primo album, ‘High voltage’),  Amboy Dukes,  The Doors, Bob Dylan,  John Mellencamp, Van Morrison, Ted Nugent, Tom Petty, Them e chissà quanti altri: gli ultimi in ordine di tempo a registrarla credo siano stati gli Aerosmith, su ‘Honkin’ on bobo’. Con la sezione ritmica dei White Lion dietro le spalle (ma questa potrebbe essere considerata anche la prima registrazione dei Pride & Glory), Zakk Wylde ne propone qui una bella versione ispida e hardrockeggiante, ricamata di assoli velocissimi.

 

SAME OLD BLUES: di J.J. Cale, noto sopratutto per la sua lunga collaborazione con Eric Clapton, di cui ha firmato storici hit come “Cocaine” (ma la sua "Bringing it back" la rifecero anche i Kansas).  Alla voce troviamo Davey Pattison, il singer dei Gamma, la lead guitar è Brad Gillis dei Night Ranger, mentre di basso e batteria si occupano rispettivamente Phil Soussan (Ozzy Osbourne, Beggars & Thieves) e Fred Coury (Cinderella). L’andamento cadenzato, cupo ma suggestivo, quasi da cowboy song, è sostenuto magnificamente dagli interventi della chitarra solista.

 

YOU DON’T LOVE ME: di Willie Cobb, il principe del blues del Mississippi, con una carriera cinquantennale alle spalle come songwriter ed armonicista. Questa è la sua canzone più celebre, sopratutto nell’interpretazione che ne dette l’Allman Brothers Band. Proposta qui in una versione quasi filologica, molto funk, con un suono scarno ed intenso nello stesso tempo, letteralmente illuminata da un assolo fenomenale di Steve Lukather. Al canto c’è un inedito (e bravissimo!) Richie Kotzen, mentre la sezione ritmica è formata da Jeff Pilson e James Kottak.

 

MESSIN’ WITH THE KIDS: E’ la canzone più famosa di Junior Welles, cantante e armonicista della scuola di Chicago, noto per aver collaborato - fra gli altri - con Muddy Waters, Buddy Guy, Van Morrison e i Rolling Stones. Partecipò anche al film “Blues Brothers 2000”: in extremis, potremmo dire, dato che morì (a 64 anni) appena un mese prima che il film uscisse nelle sale. La interpretano Glenn Hughes, Pat Thrall, Stuart Hamm e Greg Bissonette (la rhythm section di Joe Satriani, insomma). Classe a secchiate: Pat Thrall imperversa, Glenn giggioneggia un po’, ma con un garbo impagabile. Il ritmo è sostenuto ma senza alzare troppo il volume, c’è quasi un vago smalto jazz. Favolosa.

 

HOW BLUE CAN YOU GET: resa famosa dall’interpretazione di B.B. King, l’uomo che potremmo definire il Louis Armstrong del blues, nel senso che fu King a portare il blues una volta per tutte all’attenzione del pubblico bianco. Come Armstrong veniva sempre immortalato con la sua tromba, così B.B. King lo ricordiamo immancabilmente con Lucille – la sua Gibson ES 335  rosso ciliegia – a tracolla, tenuta altissima, quasi sullo sterno. Un personaggio ed un musicista immenso che nel 2006 aveva dichiarato di voler andare in pensione dopo quello che doveva essere uno storico tour d'addio, salvo ripensarci e riprendere a suonare dal vivo come niente fosse... Questo mid tempo che più classico non si può vede alla voce un sorprendente Kevin Dubrow, ancora gli ex White Lion James Lomenzo e Greg D’Angelo ed uno strepitoso Richie Kotzen.

 

ROLLING AND TUMBLING: autore è McKinley Morganfield, meglio noto come Muddy Waters, il padre riconosciuto del blues di Chicago e uno dei più grandi bluesmen di tutti i tempi. I Rolling Stones scelsero questo moniker mutuandolo dal titolo di una sua canzone, ed il suo stile chitarristico ha costituito una base imprescindibile per un paio di generazioni di musicisti rock. La sua influenza divenne particolarmente forte in Gran Bretagna, dove fece uno storico tour nel 1958 (qualcuno ha scritto che furono, quelli, i primi concerti di hard rock, anche se l’unico strumento ad essere amplificato era la chitarra di Muddy!). Angus Young si è dichiarato più volte suo discepolo, e i suoi pezzi sono stati rifatti da Cream, Jimi Hendrix, Bob Dylan, mentre Paul Rodgers registrò un intero album di sue canzoni nel 1994. "Rolling and tumbling" la interpretano Little John Chrisley alla voce e - ovviamente - all’armonica, George Lynch, Billy Sheehan e Greg Bissonette, producendo una rovente scheggia di hard rock blues degna dei Tangier o dei Dirty White Boy. Il dialogo tra l’armonica e la chitarra è irresistibile.

 

HANDS ON YOU: l’unica canzone scritta per l’occasione, da Kevin Russell, che la canta e suona tutte le parti di chitarra, mentre la sezione ritmica vede di nuovo al lavoro Stuart Hamm e Greg Bissonette. Un magnifico blues elettrico, robusto, con qualche sfumatura soul, in cui giocano quasi alla pari la chitarra di Russell ed il basso.

 

RAMBLIN’ ON MY MIND: Questa canzone è stata scritta da quel signore a cui i Thunder hanno dedicato il titolo del loro ultimo album (‘Robert Johnson’s tombstone’). Robert Johnson forse non è stato il più grande in assoluto, non ebbe il tempo materiale per diventarlo (morì a ventisette anni, sparato o avvelenato da un marito geloso), ma di sicuro è la figura più straordinaria e misteriosa nella storia del blues. In questa sede naturalmente non è possibile dilungarsi su storie e leggende (e le leggende sono molte di più rispetto alle storie) che lo riguardano: basti dire che gran parte dell’immaginario del blues come musica del diavolo risale al personaggio di Johnson e alle voci di un suo commercio con l’individuo buffonescamente impersonato da Gary James sulla copertina del disco di cui sopra. Chi vuol saperne di più, può cercare il libro di Marcus già citato, che contiene forse le pagine più belle scritte su questo artista eccezionale, oppure “Robert Johnson: in cerca del re del blues” di Peter Guralnick (Arcana, 1991). La vita oscura di questo bluesman ha ispirato dozzine di racconti e romanzi, e almeno un paio di film, tra cui “Mississipi adventure” (“Crossroads” in origine, 1986) di Walter Hill, celebre sopratutto per la breve comparsata di uno Steve Vai in veste di satanasso che si produce in un assolo fulminante. Tutte le canzoni di Robert Johnson sono permeate di un’ambiguità inquietante, che lui fosse soltanto un grande performer o un’anima nera ha poca importanza. Coverizzato a più non posso, sopratutto da Cream (la sua “Crossroads” è stata inclusa anche in ‘Cream of the crop’, il tributo alla band di Clapton nella stessa serie L. A. Blues Authority, interpretata alla grande da un sempre magnifico Leslie West), e Rolling Stones (senza contare il tribute album 'Me and Mr. Johnson' che Eric Clapton incise qualche anno fa, troppo pulitino e levigato per essere efficace), questa versione della sua “Ramblin’ on my mind” vede impegnati Jeff Martin, che torna al canto dopo gli anni con i Racer X e ritrova Scott Travis alla batteria, Billy Sheehan al basso, mentre Kevin Russell, l’altra ascia dei Night Ranger, Jeff Watson, ed il camaleontico Tony MacAlpine si palleggiano le parti di chitarra solista. E’ una versione ben più che dignitosa, ma l’interpretazione di Jeff Martin è solo onesta, qui serviva un cantante capace di far emergere tutte le sfumature del testo, come Kelly Keeling o Ray Gillen buonanima.

 

THE HUNTER: di Booker T. & the M.G., forse la più celebre band della storica label Stax, che attraverso gli anni 60 e 70 ha creato un vero e proprio standard per la soul music (il cosiddetto Memphis soul). E’ stata affidata a Fred Coury, che oltre a suonare la batteria si produce veramente bene al canto, Phil Soussan e ad uno scatenato Paul Gilbert. Ne viene fuori quasi un heavy rock settantiano, ed il bridge dice più di mille parole da chi gli ZZ Top hanno imparato il mestiere (e anche dove hanno trovato il riff di “La Grange”...)

 

YOU SHOOK ME: di Willie Dixon, uno dei padri e, assieme a Robert Johnson e Muddy Waters, il più influente musicista blues in ambito rock e forse il più grande bluesman in assoluto, uno che poteva orgogliosamente e con ragione affermare: “il blues sono io”. Il suo strumento era il basso. Il suo repertorio è stato saccheggiato da miriadi di artisti; solo per rimanere (più o meno) nel nostro genere, le sue canzoni sono state rifatte da Led Zeppelin, Gary Moore, Megadeth, UFO, Kinks, Aerosmith, Allman Brothers Band, Humble Pie, Styx, Black Crowes, Cold Sweat, Salty Dog, ZZ Top, Savoy Brown. Questo pezzo, che resta uno dei suoi più celebri, vede Jeff Pilson alla voce ed al basso, Tony MacAlpine, George Lynch e Mike Varney alle chitarre soliste e James Kottak dietro i tamburi. E’ un altro mid tempo, classicissimo, e questa versione sembra  ricalcata su quella (storica) che ne dettero i Led Zeppelin sul loro primo album. Quante volte abbiamo sentito cose del genere da bands come Steelheart o Firehouse? Ma qui c’è la fonte originale. Interpretazione superba ed il dialogo tra le chitarre di Tony MacAlpine e George Lynch straordinario per fascino e freschezza.

 

Non raccomando l’ascolto di quest’album per un questione di cultura musicale, mi sono sempre rifiutato di accettare il principio che certi dischi si “debbano” ascoltare (allo stesso modo in cui non credo esistano libri che si “debbano” leggere). Può indubbiamente aiutare a capire molte cose del nostro genere, ma non è questa la giusta ragione per procurarselo. E’ piuttosto il panorama di un altro mondo, osservato attraverso appropriate lenti correttive. Vale la pena di dargli almeno un’occhiata.

 

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SASS JORDAN

 

 

  • RACINE (1992)

Etichetta:Aquarius Reperibilità:scarsa

 

Ho già ricordato, più di una volta, che la reperibilità dei dischi del nostro genere ai bei tempi che furono era in molti casi decisamente problematica. Leggevi una recensione, ti precipitavi nel tuo negozio di fiducia oppure setacciavi il catalogo dei vari mail order, ma del disco bramato non c’era nessuna traccia. Certi album acquistavano un carattere chimerico e favoloso per il solo fatto di non essere pubblicati in Italia o in Europa. Gli importatori erano rari, e sull’AOR lavoravano pochissimo. Il primo disco della canadese (solo d’adozione, è nata in Gran Bretagna) Sass Jordan, ‘Tell somebody’ (1988), divenne per il sottoscritto una di queste arabe fenici: la recensione entusiastica firmata dal guru Beppe Riva attizzò una fiamma che era destinata a non dare alcun calore perché l’album non si trovava in giro, non si trovava da nessuna parte, nonostante in Canada avesse conquistato il disco di platino (oddio, non so quante copie bastino per avere il platino in Canada, certo non il milione degli USA, comunque...). Nel 1992 Sass Jordan uscì con un altro disco, ‘Racine’, dalla reperibilità fortunatamente meno problematica. Il fatto che la bella Sass avesse fatto cambiare rotta al proprio sound, passando dall’AOR al rock blues non raffreddò gli entusiasmi, sopratutto perché la voce di miss Jordan mi parve subito tagliata per il genere: provate ad immaginare una Tina Turner appena più pulita ed acuta ed avrete una buona idea dell’ugola di Sass: uno di quei vocioni femminili che non ti aspetteresti mai di sentir uscire dalla bocca di una magnifica bambolona bionda.

Con una backing band di tutto rispetto in cui spiccavano Steve Salas e Rick Neigher, autori di tutte le parti di chitarra e songwriter assieme a Sass, con Neigher responsabile anche della produzione, Sass Jordan si dedicava dunque ad un rock blues robusto, mai troppo abrasivo ma neppure particolarmente vellutato (anche perché neppure un chilometro di velluto potrebbe smorzare e addolcire quella voce così deliziosamente acida...). La rotta prevalente del disco passa attraverso i territori del più classico hard rhythm and blues con belle screziature soul, come nell’iniziale (e forse un po’ troppo tiepida) “Make you a believer” e su “Goin’ back again”, virando verso un clima più spiccatamente settantiano con “If you’re gonna love me” (ricorda certe cose di Joanna Dean, ma è ambientata un clima molto meno hardeggiante), aggiungendo preziosi innesti funky su “Windin’ me up”, e atmosfere bluesy su “Where there’s a will” e “Do what you want” (rifinita da una bella sezione fiati). “You don’t have to remind me” è un hard lento ed intenso, molto root, mentre “Who do you think you are” si tinge di blues e folk, ed è proprio il folk protagonista sull’unica vera ballad, “I want to believe”, calda e intensa, alla maniera degli Heart dei 70. L’unica concessione al sound imperante all’epoca è “Cry baby”, una bella stesura hard rock che richiama nettamente i Pearl Jam. Chiude “Time flies”, una cavalcata solida e piacevole a cui dà il passo un martellante piano boogie, un bel modo di terminare un album che avrebbe meritato miglior fortuna di quanta gliene toccò, perché nonostante il prestigioso e influente Billboard Magazine lo avesse eletto Top Album nella categoria Album Rock Femminili per il 1992, nella classifica ufficiale di vendite della stessa rivista non raggiunse che un misero numero 174.

Dopo ‘Racine’, nel 1994 Sass Jordan tentò di mettersi più o meno al passo con i nuovi tempi su ‘Rats’, che a me non piacque al punto che dopo i tre ascolti di rigore finì dritto filato al negozio dei CD usati. In USA, però, questo disco dovette piacere abbastanza: pur non vendendo molto (toccò appena il numero 158 su Billboard), garantì a Sass diversi tour prestigiosi (la portarono a suonare perfino in Italia: qualcuno forse ricorderà il suo concerto al festival Sonoria edizione 1994), in particolare come supporto di Joe Cocker, con cui incise anche un duetto per la colonna sonora del film “The Bodyguard” (quello con Kevin Costner e Whitney Huston). Ma a questo punto, Sass finisce invischiata in guai di natura personale e finanziaria che la tengono anni fuori dal giro che conta. Ritornata in sella sopratutto grazie al marito, il musicista e songwriter Derek Sharp, Sass torna in Canada (si era trasferita da anni a Los Angeles) e tenta la carta del pop incidendo prima ‘Present’ nel 1997 poi ‘Hot gossip’ nel 2000: quest’ultimo risultava accreditato a Sas Jordons (sic): lavorando con un’etichetta che non sapeva neppure scrivere correttamente il suo nome sulla copertina del disco, è chiaro che la povera Sass era destinata a non andare da nessuna parte... Negli ultimi anni, Sass alterna i concerti con il lavoro di attrice (è stata Janis Joplin in un acclamato musical, “Love Janis”), ritornando un po’ a sorpresa nel 2006 con ‘Get what you give’, un disco molto root che non è riuscito a smuovere più di tanto le acque stagnanti in cui il suo nome sembra purtroppo ormai essersi impantanato.

 

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COMPANY OF WOLVES

 

 

  • COMPANY OF WOLVES (1990)

Etichetta:Mercury Reperibilità:scarsa

 

Nel 2005 è riapparsa una di quelle band che non mancano mai di essere citate – a torto o a ragione – in articolini e articoloni e storie più o meno complete del rock, i New York Dolls. Quanto era rimasto dei Dolls originali, David Johansen e Sylvain Sylvain, si è ovviamente ritrovato a dover tappare i buchi nell’organico, buchi particolarmente ardui da riempire sopratutto alla voce chitarre, dato che il titolare della lead guitar sui due album dei New York Dolls, era il supertossico, il perdente per antonomasia (solo lui poteva avere l’autorità per scrivere una canzone intitolata “Born to lose”), lo sconvolto, il poeta dei bassifondi della vita, l’ineguagliabile Johnny Thunders, passato a miglior vita (per un’overdose, naturalmente) già da una quindicina d’anni (ma anche Arthur Kane e Jerry Nolan non ci sono più). L’ingrato compito di sostituirlo è andato a Steve Conte. E la prima band di Steve Conte furono proprio questi Company Of Wolves, ennesima next big thing dell’hard rock yankee ottantiano, la quale, pur stanziata fra i grattacieli di New York, aveva come principale punto di riferimento quel genere nato molto più a sud che alla fine degli anni 80 sembrava poco più di un ricordo sbiadito: il southern rock.

Cosa veramente sia stato il southern rock non è poi facilissimo stabilirlo, tali e tante erano le differenze fra le bands genericamente etichettate con la stars and bars: dalla Allman Brothers Band ai Lynyrd Skynyrd, dai Molly Hatchet ai Blackfoot, dalla Marshall Tucker Band agli ZZ Top e via elencando, il rock sudista si presentava come un panorama scarsamente omogeneo: più o meno blues, più o meno folk, più o meno hard... Di sicuro, al tramonto dei Big 80s, c’era ben poco in giro per i seguaci del genere, qualche vecchia gloria che tirava avanti fra gli stenti e poche bands di recente nascita, alcune neppure americane, come i finlandesi (!!!) Gringos Locos. Eppure, il richiamo del Sud era sempre forte tra i musicisti, che tentavano saltuariamente di riproporre quelle atmosfere ad un pubblico che si dimostrava però scarsamente ricettivo. Dopo il fiasco a livello di vendite dei grandi Georgia Satellites, pareva davvero che per il southern fossero suonate le campane a morto. Invece, qualcuno continuava, testardamente, a far rotta verso il Sud, anche se sempre con poca fortuna, almeno fino a quando la reunion dei Lynyrd Skynyrd, i Guns N’ Roses con i due ‘Use your illusion’ ed i Black Crowes non dettero uno scossone al mercato. In questo contesto, i Company Of Wolves si possono considerare quasi un preludio a ciò che accadrà.

La band era composta, oltre che da Steve Conte, artefice di tutte le parti di chitarra, da suo fratello John al basso, dal veterano Frankie LaRocka alla batteria ( ex John Waite e –  coincidenza? – David Johansen band) e dal bravissimo vocalist Kyf Brewer, che si produceva anche all’armonica ed al piano. Prodotto da Jeff Glixman e registrato fra Los Angeles ed Austin, ‘Company of wolves’ mediava sapientemente tra l’hard rock ottantiano più vigoroso, le spiccate influenze Southern e l’inevitabile omaggio ai maestri Aerosmith. “Call of the wild” apre il disco con un fascinoso flavour da cowboy song che non potrà non piacere agli amanti dei Cinderella, e sulle stessa rotta viaggia la sublime “St. Jane’s infirmary”, traditional con testo e titolo parzialmente cambiato (in origine si chiamava "St. James infirmary") vicinissimo ai territori polverosi battuti dei Lynyrd Skynyrd (ma anche con decise reminiscenze della storica "House Of Rising Sun" resa celebre dagli Animals, che pure nacque come traditional: del resto, gli stessi Animals rifecero pure “St. James infirmary”). Anche “Jilted!” si rifà all’estetica del rock sudista con robuste iniezioni aerosmithiane, come “Girl”, che si conclude con un lungo assolo di Steve Conte. “Hell’s kitchen” è pesante, tinta di sfumature blues e street metal, con l’armonica che imperversa lacerante per un risultato finale non distante da ciò che di lì a pochissimo faranno i Dirty White Boy. Ancora bluesy ma più scanzonata “Hangin’ by a thread”, mentre le indispensabili esercitazioni in tema boogie si intitolano “Romance on the rocks” e “Can’t love ya, can’t leave ya”. “The distance” è quasi una power ballad, suggestiva ed ariosa, replicata sulla stessa lunghezza d’onda da “I don’t wanna be loved” con un piacevole smalto AOR, mentre su “Everybody’s baby” il solo Kyf Brewer si esibisce tra due chitarre, un’elettrica ed un’acustica, intonando una melodia tenera e struggente. “My ship” è l’unica scheggia sui generis, con quella sua bella linea melodica così sfacciatamente british.

Band sfortunata commercialmente, i Company Of Wolves, ma che se avesse avuto la pazienza di attendere un paio d’anni ancora avrebbe forse raccolto tutto quanto le spettava, e invece, dopo un tour come supporter per gli svedesi Electric Boys tra il ’90 ed il ’91, si sciolse tra l’indifferenza generale.