Questa potrebbe essere la
recensione più importante dell’HARD BLUES DEPARTMENT. Di sicuro,
questo è il disco più difficile tra quelli finora presentati da far
ingoiare a chi bazzica i territori dell’hard melodico: una sfilza di
cover di classici del blues interpretati in chiave hard rock da illustri
personaggi della scena hard rock e metal. Non è pane per tutti i denti,
lo so; ma se amate bands come Cinderella, Great White o ZZ Top, se siete rimasti
stregati dal Neal Schon di ‘Piranha blues’, questo disco può essere
una rivelazione. La gran parte di queste canzoni è
stata già coverizzata, più e più volte. Riproporre un classico del
blues non è certo una novità, in ambito genericamente rock, e per
quanto riguarda l’hard rock, ricordiamo solo che i Led Zeppelin hanno
rifatto vecchi blues fino ai tempi di ‘Physical
Graffiti’. Ma che valore può avere realmente una collection
del genere? Oltre il puro aspetto divulgativo, c’è il piacere di
sentire un certo genere di musica rifatto alla nostra
maniera. Che poi qualcuno, dopo aver ascoltato queste canzoni, voglia
approfondire il discorso, e magari andare alla ricerca degli originali,
è possibile, ma non sarà certo lo scrivente a spronare i suoi lettori
a procurarsi i dischi di Robert Johnson o Junior Welles. L’opera omnia
di Robert Johnson, per esempio, è composta da una quarantina di canzoni
registrate tra il 1936 ed il 1937. Potete trovarle in una marea di
edizioni. Ma, a parte le ovvie riserve sull’infima
qualità audio, si tratta di materiale che viene da un tempo così
remoto, e da una cultura così lontana dalla nostra che ben
difficilmente chiunque non abbia una predisposizione particolare al
genere saprà apprezzarle. Io non ci riesco, e sì che per il blues vado
pazzo... E allora, ecco il valore di dischi come questo: darci
l’opportunità di godere un certo stile di musica che altrimenti non
sapremmo o potremmo gustare. “Il blues si sviluppò dalla
necessità di sopravvivere nel mondo brutale che era in agguato appena
uscivi fuori della chiesa. A differenza del gospel, il blues non era una
musica trascendentale; il suo equivalente della Grazia di Dio erano
sesso e amore. Il blues rese più facile da sopportare il terrore del
mondo, ma il blues rese anche più reale questo terrore. (...)” Questo scrive Greil Marcus nel suo
magnifico (ma straziato da una traduzione dilettantesca, incerta e
costellata di errori marchiani) libro “Mistery Train - Visioni d’America nel Rock”
(Editori Riuniti, 2001), ed è forse la più limpida e la meno retorica
interpretazione di ciò che il blues ha rappresentato per coloro che lo
hanno inventato, i neri americani. Ma dovrebbe anche essere un punto
fermo per qualsiasi ragionamento si voglia imbastire su quel genere
musicale conosciuto come hard rock. Perché l’hard rock nasce
direttamente, senza praticamente alcuna mediazione, dal blues. Led
Zeppelin e Black Sabbath non sono partiti dai dischi di Rolling Stones,
Beatles o Bob Dylan per distillare le proprie alchimie sonore, ma da
quelli di Howlin’ Wolf e Muddy Waters e Willie Dixon. I modelli vocali
di Robert Plant non erano Mick Jagger o Paul McCartney, ma Elvis Presley
e Howlin’ Wolf. I riff che Tony Iommi e Jimmy Page usavano per
scrivere le loro canzoni discendevano da quelli che bluesmen neri
avevano suonato con le loro chitarre acustiche negli anni 40 e 50. E se
nel brano prima citato, alla parola “blues” sostituiamo le parole
“hard rock”, possiamo renderci conto che quanto scritto da Marcus
vale pari pari per il nostro genere. Tutto è cominciato dal blues, e
tutto quanto è venuto dopo dal blues è disceso e derivato, più o meno
direttamente: è una linea aggrovigliata, un cordone ombelicale che ci
unisce a quell’esorcismo contro il “terrore del mondo” che era
nello stesso tempo una sfida, una beffa ed una mano tesa a quello stesso
terrore. E andiamo a incominciare,
procedendo con un rigoroso track
by track, e precisando che su tutti i dieci pezzi le parti di
chitarra ritmica sono eseguite da Kevin Russell. BABY PLEASE
DON’T GO: autore è Big Joe Williams, il primo guitar hero
della storia del blues (e probabilmente il primo guitar hero in
assoluto), diventato celebre per la sua tecnica strepitosa che gli
permetteva di suonare contemporaneamente parti ritmiche e soliste su uno
strumento a nove corde (la prima, la seconda e la quarta corda erano
doppiate) con un'amplificazione rudimentale. Questa canzone è diventata
probabilmente la più celebre hit della storia del blues, rifatta da
innumerevoli artisti, sia su disco che dal vivo: AC/DC (sul loro primo album,
‘High voltage’), Amboy Dukes,
The Doors, Bob Dylan, John Mellencamp, Van Morrison, Ted Nugent,
Tom Petty, Them e chissà quanti altri: gli ultimi in ordine di tempo a registrarla credo siano
stati gli Aerosmith, su ‘Honkin’ on bobo’. Con la
sezione ritmica dei White Lion dietro le spalle (ma questa potrebbe
essere considerata anche la prima registrazione dei Pride & Glory), Zakk Wylde ne propone
qui una bella versione ispida e
hardrockeggiante, ricamata di assoli velocissimi. SAME OLD
BLUES: di J.J. Cale, noto sopratutto per la sua lunga
collaborazione con Eric Clapton, di cui ha firmato storici hit come “Cocaine”
(ma la sua "Bringing it back" la rifecero anche i Kansas).
Alla voce troviamo Davey Pattison, il singer dei Gamma, la lead
guitar è Brad Gillis dei Night Ranger, mentre di basso e batteria si
occupano rispettivamente Phil Soussan (Ozzy Osbourne, Beggars &
Thieves) e Fred Coury (Cinderella). L’andamento cadenzato, cupo ma
suggestivo, quasi da cowboy song, è sostenuto magnificamente dagli
interventi della chitarra solista. YOU DON’T
LOVE ME: di Willie Cobb, il principe del blues del Mississippi,
con una carriera cinquantennale alle spalle come songwriter ed
armonicista. Questa è la sua canzone più celebre, sopratutto
nell’interpretazione che ne dette l’Allman Brothers Band. Proposta
qui in una versione quasi filologica, molto funk, con un suono scarno ed
intenso nello stesso tempo, letteralmente illuminata da un assolo
fenomenale di Steve Lukather. Al canto c’è un inedito (e bravissimo!)
Richie Kotzen, mentre la sezione ritmica è formata da Jeff Pilson e
James Kottak. MESSIN’
WITH THE KIDS: E’ la canzone più famosa di Junior Welles,
cantante e armonicista della scuola di Chicago, noto per aver
collaborato - fra gli altri - con Muddy Waters, Buddy Guy, Van Morrison
e i Rolling Stones. Partecipò anche al film “Blues Brothers 2000”:
in extremis, potremmo dire, dato che morì (a 64 anni) appena un mese
prima che il film uscisse nelle sale. La interpretano Glenn Hughes, Pat
Thrall, Stuart Hamm e Greg Bissonette (la rhythm section di Joe Satriani,
insomma). Classe a secchiate: Pat Thrall imperversa, Glenn giggioneggia
un po’, ma con un garbo impagabile. Il ritmo è sostenuto ma senza
alzare troppo il volume, c’è quasi un vago smalto jazz. Favolosa. HOW BLUE CAN
YOU GET: resa famosa dall’interpretazione di B.B. King,
l’uomo che potremmo definire il Louis Armstrong del blues, nel senso
che fu King a portare il blues una volta per tutte all’attenzione del
pubblico bianco. Come Armstrong veniva sempre immortalato con la sua
tromba, così B.B. King lo ricordiamo immancabilmente con Lucille – la
sua Gibson ES 335 rosso
ciliegia – a tracolla, tenuta altissima, quasi sullo sterno. Un
personaggio ed un musicista immenso che nel 2006 aveva dichiarato di
voler andare in pensione dopo quello che doveva essere uno storico tour d'addio,
salvo ripensarci e riprendere a suonare dal vivo come niente fosse... Questo
mid tempo che più classico non si può vede alla voce un sorprendente
Kevin Dubrow, ancora gli ex White Lion James Lomenzo e Greg D’Angelo
ed uno strepitoso Richie Kotzen. ROLLING AND
TUMBLING: autore è McKinley Morganfield, meglio noto come
Muddy Waters, il padre riconosciuto del blues di Chicago e uno dei più
grandi bluesmen di tutti i tempi. I Rolling Stones scelsero questo
moniker mutuandolo dal titolo di una sua canzone, ed il suo stile
chitarristico ha costituito una base imprescindibile per un paio di
generazioni di musicisti rock. La sua influenza divenne particolarmente
forte in Gran Bretagna, dove fece uno storico tour nel 1958 (qualcuno ha
scritto che furono, quelli, i primi concerti di hard rock, anche se
l’unico strumento ad essere amplificato era la chitarra di Muddy!).
Angus Young si è dichiarato più volte suo discepolo, e i suoi pezzi sono
stati rifatti da Cream, Jimi Hendrix, Bob Dylan, mentre Paul Rodgers registrò un intero album di sue canzoni nel
1994. "Rolling and tumbling" la
interpretano Little
John Chrisley alla voce e - ovviamente - all’armonica, George Lynch,
Billy Sheehan e Greg Bissonette, producendo una rovente
scheggia di hard rock blues degna dei Tangier o dei Dirty White Boy. Il
dialogo tra l’armonica e la chitarra è irresistibile. HANDS ON YOU:
l’unica canzone scritta per l’occasione, da Kevin Russell, che la
canta e suona tutte le parti di chitarra, mentre la sezione ritmica vede
di nuovo al lavoro Stuart Hamm e Greg Bissonette. Un magnifico blues elettrico,
robusto, con qualche sfumatura soul, in cui giocano quasi alla pari la
chitarra di Russell ed il basso. RAMBLIN’
ON MY MIND: Questa canzone è stata scritta da quel signore a cui
i Thunder hanno dedicato il titolo del loro ultimo album (‘Robert
Johnson’s tombstone’). Robert Johnson forse non è stato il
più grande in assoluto, non ebbe il tempo materiale per diventarlo (morì
a ventisette anni, sparato o avvelenato da un marito geloso), ma di
sicuro è la figura più straordinaria e misteriosa nella storia del
blues. In questa sede naturalmente non è possibile dilungarsi su storie
e leggende (e le leggende sono molte di più rispetto alle storie) che
lo riguardano: basti dire che gran parte dell’immaginario del blues
come musica del diavolo risale
al personaggio di Johnson e alle voci di un suo commercio con
l’individuo buffonescamente impersonato da Gary James sulla copertina
del disco di cui sopra. Chi vuol saperne di più, può cercare il libro
di Marcus già citato, che contiene forse le pagine più belle scritte
su questo artista eccezionale, oppure “Robert Johnson: in cerca del re
del blues” di Peter Guralnick (Arcana, 1991). La vita oscura di questo
bluesman ha ispirato dozzine di racconti e romanzi, e almeno un paio di
film, tra cui “Mississipi adventure” (“Crossroads” in origine,
1986) di Walter Hill, celebre sopratutto per la breve comparsata di uno
Steve Vai in veste di satanasso che si produce in un assolo fulminante.
Tutte le canzoni di Robert Johnson sono permeate di un’ambiguità
inquietante, che lui fosse soltanto un grande performer o un’anima
nera ha poca importanza. Coverizzato a più non posso, sopratutto da
Cream (la sua “Crossroads” è stata inclusa anche in ‘Cream
of the crop’, il tributo alla band di Clapton nella stessa
serie L. A. Blues Authority, interpretata alla grande da un sempre
magnifico Leslie West), e Rolling Stones (senza contare il tribute album
'Me and Mr. Johnson' che Eric Clapton
incise qualche anno fa, troppo pulitino e levigato per essere efficace), questa versione della sua “Ramblin’
on my mind” vede impegnati Jeff Martin, che torna al canto dopo
gli anni con i Racer X e ritrova Scott Travis alla batteria, Billy
Sheehan al basso, mentre Kevin Russell, l’altra ascia dei Night
Ranger, Jeff Watson, ed il camaleontico Tony MacAlpine si palleggiano le
parti di chitarra solista. E’ una versione ben più che dignitosa, ma
l’interpretazione di Jeff Martin è solo onesta, qui serviva un
cantante capace di far emergere tutte le sfumature del testo, come Kelly
Keeling o Ray Gillen buonanima. THE HUNTER:
di Booker T. & the M.G., forse la più celebre band della storica
label Stax, che attraverso gli anni 60 e 70 ha creato un vero e proprio
standard per la soul music (il cosiddetto Memphis
soul). E’ stata affidata a Fred Coury, che oltre a suonare la
batteria si produce veramente bene al canto, Phil Soussan e ad uno
scatenato Paul Gilbert. Ne viene fuori quasi un heavy rock settantiano,
ed il bridge dice più di mille parole da chi gli ZZ Top hanno imparato
il mestiere (e anche dove hanno trovato il riff di “La Grange”...) YOU SHOOK ME:
di Willie Dixon, uno dei padri e, assieme a Robert Johnson e Muddy Waters, il più
influente musicista blues in ambito rock e forse il più grande bluesman
in assoluto, uno che poteva orgogliosamente e con ragione affermare:
“il blues sono io”. Il suo strumento era il basso. Il suo repertorio
è stato saccheggiato da miriadi di artisti; solo per rimanere (più o
meno) nel nostro genere, le sue canzoni sono state rifatte da Led
Zeppelin, Gary Moore, Megadeth, UFO, Kinks, Aerosmith, Allman Brothers
Band, Humble Pie, Styx, Black
Crowes, Cold Sweat, Salty Dog, ZZ Top, Savoy Brown. Questo pezzo, che
resta uno dei suoi più celebri, vede Jeff Pilson alla voce ed al basso,
Tony MacAlpine, George Lynch e Mike Varney alle chitarre soliste e James
Kottak dietro i tamburi. E’ un altro mid tempo, classicissimo, e questa
versione sembra ricalcata su quella (storica) che ne dettero i Led
Zeppelin sul loro primo album. Quante
volte abbiamo sentito cose del genere da bands come Steelheart o
Firehouse? Ma qui c’è la fonte originale. Interpretazione superba ed il dialogo tra le chitarre di
Tony MacAlpine e George Lynch straordinario per fascino e freschezza. Non raccomando l’ascolto di quest’album per un questione di cultura musicale, mi sono sempre rifiutato di accettare il principio che certi dischi si “debbano” ascoltare (allo stesso modo in cui non credo esistano libri che si “debbano” leggere). Può indubbiamente aiutare a capire molte cose del nostro genere, ma non è questa la giusta ragione per procurarselo. E’ piuttosto il panorama di un altro mondo, osservato attraverso appropriate lenti correttive. Vale la pena di dargli almeno un’occhiata.
Ho già ricordato, più di una volta, che la reperibilità dei dischi del nostro genere ai bei tempi che furono era in molti casi decisamente problematica. Leggevi una recensione, ti precipitavi nel tuo negozio di fiducia oppure setacciavi il catalogo dei vari mail order, ma del disco bramato non c’era nessuna traccia. Certi album acquistavano un carattere chimerico e favoloso per il solo fatto di non essere pubblicati in Italia o in Europa. Gli importatori erano rari, e sull’AOR lavoravano pochissimo. Il primo disco della canadese (solo d’adozione, è nata in Gran Bretagna) Sass Jordan, ‘Tell somebody’ (1988), divenne per il sottoscritto una di queste arabe fenici: la recensione entusiastica firmata dal guru Beppe Riva attizzò una fiamma che era destinata a non dare alcun calore perché l’album non si trovava in giro, non si trovava da nessuna parte, nonostante in Canada avesse conquistato il disco di platino (oddio, non so quante copie bastino per avere il platino in Canada, certo non il milione degli USA, comunque...). Nel 1992 Sass Jordan uscì con un altro disco, ‘Racine’, dalla reperibilità fortunatamente meno problematica. Il fatto che la bella Sass avesse fatto cambiare rotta al proprio sound, passando dall’AOR al rock blues non raffreddò gli entusiasmi, sopratutto perché la voce di miss Jordan mi parve subito tagliata per il genere: provate ad immaginare una Tina Turner appena più pulita ed acuta ed avrete una buona idea dell’ugola di Sass: uno di quei vocioni femminili che non ti aspetteresti mai di sentir uscire dalla bocca di una magnifica bambolona bionda. Con una backing band di tutto rispetto in cui spiccavano Steve Salas e Rick Neigher, autori di tutte le parti di chitarra e songwriter assieme a Sass, con Neigher responsabile anche della produzione, Sass Jordan si dedicava dunque ad un rock blues robusto, mai troppo abrasivo ma neppure particolarmente vellutato (anche perché neppure un chilometro di velluto potrebbe smorzare e addolcire quella voce così deliziosamente acida...). La rotta prevalente del disco passa attraverso i territori del più classico hard rhythm and blues con belle screziature soul, come nell’iniziale (e forse un po’ troppo tiepida) “Make you a believer” e su “Goin’ back again”, virando verso un clima più spiccatamente settantiano con “If you’re gonna love me” (ricorda certe cose di Joanna Dean, ma è ambientata un clima molto meno hardeggiante), aggiungendo preziosi innesti funky su “Windin’ me up”, e atmosfere bluesy su “Where there’s a will” e “Do what you want” (rifinita da una bella sezione fiati). “You don’t have to remind me” è un hard lento ed intenso, molto root, mentre “Who do you think you are” si tinge di blues e folk, ed è proprio il folk protagonista sull’unica vera ballad, “I want to believe”, calda e intensa, alla maniera degli Heart dei 70. L’unica concessione al sound imperante all’epoca è “Cry baby”, una bella stesura hard rock che richiama nettamente i Pearl Jam. Chiude “Time flies”, una cavalcata solida e piacevole a cui dà il passo un martellante piano boogie, un bel modo di terminare un album che avrebbe meritato miglior fortuna di quanta gliene toccò, perché nonostante il prestigioso e influente Billboard Magazine lo avesse eletto Top Album nella categoria Album Rock Femminili per il 1992, nella classifica ufficiale di vendite della stessa rivista non raggiunse che un misero numero 174. Dopo ‘Racine’, nel 1994 Sass Jordan tentò di mettersi più o meno al passo con i nuovi tempi su ‘Rats’, che a me non piacque al punto che dopo i tre ascolti di rigore finì dritto filato al negozio dei CD usati. In USA, però, questo disco dovette piacere abbastanza: pur non vendendo molto (toccò appena il numero 158 su Billboard), garantì a Sass diversi tour prestigiosi (la portarono a suonare perfino in Italia: qualcuno forse ricorderà il suo concerto al festival Sonoria edizione 1994), in particolare come supporto di Joe Cocker, con cui incise anche un duetto per la colonna sonora del film “The Bodyguard” (quello con Kevin Costner e Whitney Huston). Ma a questo punto, Sass finisce invischiata in guai di natura personale e finanziaria che la tengono anni fuori dal giro che conta. Ritornata in sella sopratutto grazie al marito, il musicista e songwriter Derek Sharp, Sass torna in Canada (si era trasferita da anni a Los Angeles) e tenta la carta del pop incidendo prima ‘Present’ nel 1997 poi ‘Hot gossip’ nel 2000: quest’ultimo risultava accreditato a Sas Jordons (sic): lavorando con un’etichetta che non sapeva neppure scrivere correttamente il suo nome sulla copertina del disco, è chiaro che la povera Sass era destinata a non andare da nessuna parte... Negli ultimi anni, Sass alterna i concerti con il lavoro di attrice (è stata Janis Joplin in un acclamato musical, “Love Janis”), ritornando un po’ a sorpresa nel 2006 con ‘Get what you give’, un disco molto root che non è riuscito a smuovere più di tanto le acque stagnanti in cui il suo nome sembra purtroppo ormai essersi impantanato.
Nel
2005 è riapparsa una di quelle band che non mancano mai di essere
citate – a torto o a ragione – in articolini e articoloni e storie
più o meno complete del rock, i New York Dolls. Quanto era rimasto
dei Dolls originali, David Johansen e Sylvain Sylvain, si è
ovviamente ritrovato a dover tappare i buchi nell’organico, buchi
particolarmente ardui da riempire sopratutto alla voce chitarre, dato
che il titolare della lead
guitar sui due album dei New York Dolls, era il supertossico, il
perdente per antonomasia (solo lui poteva avere l’autorità per
scrivere una canzone intitolata “Born to lose”), lo sconvolto, il
poeta dei bassifondi della vita, l’ineguagliabile Johnny Thunders,
passato a miglior vita (per un’overdose, naturalmente) già da una
quindicina d’anni (ma anche Arthur Kane e Jerry Nolan non ci sono più).
L’ingrato compito di sostituirlo è andato a Steve Conte. E la prima
band di Steve Conte furono proprio questi Company Of Wolves, ennesima next
big thing dell’hard rock yankee ottantiano, la quale, pur
stanziata fra i grattacieli di New York, aveva come principale punto
di riferimento quel genere nato molto più a sud che alla fine degli
anni 80 sembrava poco più di un ricordo sbiadito: il southern rock. Cosa
veramente sia stato il southern rock non è poi facilissimo
stabilirlo, tali e tante erano le differenze fra le bands
genericamente etichettate con la stars
and bars: dalla Allman Brothers Band ai Lynyrd Skynyrd, dai Molly
Hatchet ai Blackfoot, dalla Marshall Tucker Band agli ZZ Top e via
elencando, il rock sudista si presentava come un panorama scarsamente
omogeneo: più o meno blues, più o meno folk, più o meno hard... Di
sicuro, al tramonto dei Big 80s, c’era ben poco in giro per i
seguaci del genere, qualche vecchia gloria che tirava avanti fra gli
stenti e poche bands di recente nascita, alcune neppure americane,
come i finlandesi (!!!) Gringos Locos. Eppure, il richiamo del Sud era
sempre forte tra i musicisti, che tentavano saltuariamente di
riproporre quelle atmosfere ad un pubblico che si dimostrava però
scarsamente ricettivo. Dopo il fiasco a livello di vendite dei grandi
Georgia Satellites, pareva davvero che per il southern fossero suonate
le campane a morto. Invece, qualcuno continuava, testardamente, a far
rotta verso il Sud, anche se sempre con poca fortuna, almeno fino a
quando la reunion dei Lynyrd Skynyrd, i Guns N’ Roses con i due ‘Use
your illusion’ ed i Black Crowes non dettero uno scossone al
mercato. In questo contesto, i Company Of Wolves si possono
considerare quasi un preludio a ciò che accadrà. La band era composta, oltre che da Steve Conte, artefice di tutte le parti di chitarra, da suo fratello John al basso, dal veterano Frankie LaRocka alla batteria ( ex John Waite e – coincidenza? – David Johansen band) e dal bravissimo vocalist Kyf Brewer, che si produceva anche all’armonica ed al piano. Prodotto da Jeff Glixman e registrato fra Los Angeles ed Austin, ‘Company of wolves’ mediava sapientemente tra l’hard rock ottantiano più vigoroso, le spiccate influenze Southern e l’inevitabile omaggio ai maestri Aerosmith. “Call of the wild” apre il disco con un fascinoso flavour da cowboy song che non potrà non piacere agli amanti dei Cinderella, e sulle stessa rotta viaggia la sublime “St. Jane’s infirmary”, traditional con testo e titolo parzialmente cambiato (in origine si chiamava "St. James infirmary") vicinissimo ai territori polverosi battuti dei Lynyrd Skynyrd (ma anche con decise reminiscenze della storica "House Of Rising Sun" resa celebre dagli Animals, che pure nacque come traditional: del resto, gli stessi Animals rifecero pure “St. James infirmary”). Anche “Jilted!” si rifà all’estetica del rock sudista con robuste iniezioni aerosmithiane, come “Girl”, che si conclude con un lungo assolo di Steve Conte. “Hell’s kitchen” è pesante, tinta di sfumature blues e street metal, con l’armonica che imperversa lacerante per un risultato finale non distante da ciò che di lì a pochissimo faranno i Dirty White Boy. Ancora bluesy ma più scanzonata “Hangin’ by a thread”, mentre le indispensabili esercitazioni in tema boogie si intitolano “Romance on the rocks” e “Can’t love ya, can’t leave ya”. “The distance” è quasi una power ballad, suggestiva ed ariosa, replicata sulla stessa lunghezza d’onda da “I don’t wanna be loved” con un piacevole smalto AOR, mentre su “Everybody’s baby” il solo Kyf Brewer si esibisce tra due chitarre, un’elettrica ed un’acustica, intonando una melodia tenera e struggente. “My ship” è l’unica scheggia sui generis, con quella sua bella linea melodica così sfacciatamente british. Band sfortunata commercialmente, i Company Of Wolves, ma che se avesse avuto la pazienza di attendere un paio d’anni ancora avrebbe forse raccolto tutto quanto le spettava, e invece, dopo un tour come supporter per gli svedesi Electric Boys tra il ’90 ed il ’91, si sciolse tra l’indifferenza generale. |