Voglio cominciare questo pezzo con un (piccolo) aneddoto personale, una cosetta che però mi perseguita da trentasei anni: al primo ascolto, ‘Desperate Business’ mi parve una solenne ciofeca. Già al secondo passaggio della cassetta, mi resi conto – e ci mancava… – di aver preso un abbaglio colossale. Ma come era potuto accadere? Cosa aveva potuto trasformare nei miei padiglioni auricolari quei quarantuno minuti di mirabilie sonore (sia pure mortificate dalla bassa resa fonica del nastro magnetico) in spazzatura? Inevitabilmente me lo chiedo ogni volta che metto su ‘Desperate Business’ (già da tempo, grazie a Dio, su compact disc) e la risposta non l’ho ancora trovata. Ma la buona abitudine di sentire almeno tre volte anche i dischi che di primo acchito mi sembrano schifosi nasce soprattutto da quello strano, inesplicabile episodio della mia vita di ascoltatore. Fidarsi della prima impressione non è sempre bene, e verificare è sempre meglio… E veniamo a ‘Desperate Business’, che segna il debutto di Brian McDonald, accreditato a un “Group” (completato da Will Hodges, D.W. Adams e Andrew G. Wilkins) il quale su questo disco non suona però neppure una nota. Tutte le parti di chitarra erano di Reb Beach (meno un assolo, quello di ‘Highway Desire’, opera di Joe Hunt), la batteria e il basso vennero programmate da David Rosemberg, mentre Brian si occupò delle tastiere e delle parti vocali. Il produttore era Beau Hill, che arrangiò anche tutte le canzoni assieme a Brian, unico autore. E si deve sottolineare che Reb Beach (suppongo consigliato a Brian o alla Columbia da Beau Hill, che di lì a poco avrebbe prodotto il primo album degli Winger) non fa il session man camaleontico alla Tim Pierce o Steve Lukather, ma entra con il suo peculiare chitarrismo nel tessuto delle canzoni, al punto che ‘Desperate Business’ suona in più di un frangente come un preludio a quanto di lì a poco avremmo ascoltato sull’esordio di Kip e soci. Apre le danze “No Control” con il suo refrain anthemico incastonato fra strofe che reinventano l’r&b in un clima AOR/synth-pop: i Big 80s al loro meglio. “These Are the Good Times” è un class metal che annuncia gli Winger nell’intrecciarsi di riff secchi ma tutt’altro che banali e nelle vocals anthemiche e scanzonate, mentre “This Lonely Heart” è una superba power ballad spezzata da un bridge glorioso, in cui keys e chitarre procedono affiancate e il coro inclina vagamente in direzione Journey. Le architetture disegnate dai riff geometrici di “Life Is a Desperate Business” fanno pensare a degli Autograph più raffinati, e che bello quel finale ricamato da imprevedibili intrecci di chitarre e tastiere. Anche su “Back Home Again” il chitarrismo di Reb Beach caratterizza in maniera inconfondibile la canzone, con la melodia di stampo Journey distesa su un telaio policromo di riff roventi e tastiere suonate col sequencer. “Rockin’ With the Boys” è un’apoteosi arena rock, tra le strofe fascinose e d’atmosfera, il refrain come un Bryan Adams più cromato e anthemico e quella coda strumentale trascinante. La classica melodia AOR di “Just Imagination” viene spezzata da un refrain pop, “Stay With Me” è una power ballad che i Journey avrebbero firmato con orgoglio, “Everynight” – dinamica, agile, ariosa – viene scandita da un synth bass danzereccio ed è arricchita da un divino refrain in chiaroscuro. Chiude “Highway Desire”, che su un tempo serrato innesta una melodia un po’ Bon Jovi, suggestiva e luminosa. Purtroppo, i riscontri che questo strepitoso album riscosse non si avvicinarono neppure lontanamente a quelli che la band di Reb Beach otterrà l’anno successivo, e di Brian McDonald non si sentirà più parlare addirittura fino al 2000, quando si rifarà vivo con ‘Wind it Up’. La reperibilità di ‘Desperate Business’ non è delle migliori. Pubblicato dapprima solo su LP e cassetta, venne riedito su CD prima dalla Sony nel 2002, poi dalla Yesterrock nel 2010. Non è su Amazon Music, e i CD girano tra eBay e Amazon a cifre dai quindici euro in su, cifra abbordabile per chi volesse entrare in possesso di una delle gemme più luminose spuntate da quella quasi sconfinata cava diamantifera che è stato il rock melodico americano dei Big 80s.
Alzi la mano chi si ricorda dei No More Johnny e del loro unico album… Solo voi due, là in fondo? Be’, è un peccato che ‘Slam!’ sia caduto nel dimenticatoio (per inciso, come tanti altri album validi usciti nel nuovo millennio). Tre dei suoi artefici troveranno miglior fortuna con Adriangale, Tango Down e Frank Vestry, ma questa band dallo strano moniker era più ambiziosa di quelle in cui i suddetti militeranno in seguito, soprattutto aveva un più ampio range espressivo. Se “Running” apriva le danze con un anthem dal riff saltellante e divertente, “Keep On Dreaming” era un AOR hard edged nobilitato da un refrain nello stesso tempo deciso e fascinoso, vagamente Prophet, mentre “One Line” risultava swingante in senso r&b alla Van Halen, policroma e con un certo flavour da musical che ricordava cose analoghe dei The Works / Wall of Silence. Il rhythm and blues tornava a farsi sentire nel coro di “Skys The Limit”, fra il borbottio delle chitarre e gli scoppiettii delle tastiere, “N.M.J.” era un riuscito innesto di melodie Little Angels di stampo beatlesiano su un telaio Bon Jovi, “Lies” veniva caratterizzata da qualche tratto moderno e ombre Tall Stories. Con “Got To Me” si compiva un brusco salto verso gli anni 70, tra quella chitarra col wah wah a manetta, tanto soul e un po’ di funk alla moda dei Dan Reed Network, “Money” seguiva le tracce di “Keep On Dreaming” ma con una presenza dei Prophet più marcata, “Been Untrue” proiettava i Deep Purple nei Big 80s pur senza rinunciare a un Hammond infuocato, lo slow hard blues “Crazy” veniva modulato sugli stilemi del metal californiano, e gli Steelheart di “Sheila” non erano poi tanto lontani. In chiusura, “U Know It” tornava all’hard melodico, ma la ripresa live ne mortificava la resa fonica, che invece è molto buona nelle altre dieci canzoni, tutte ottimamente arrangiate e prodotte. La reperibilità è discreta, i prezzi molto variabili, diciamo tra i sette e i trenta euro (salvo su Amazon, naturalmente, dove i soliti fuori di testa fanno ressa per mettere in vendita dischi a prezzi assurdi). ‘Slam!’ meriterebbe una ristampa molto più di tanti album che trovano la via della riedizione solo per calcolo, caso o capriccio.
A chi mi rimprovera una prevenzione verso il melodic rock non americano non posso rispondere nulla. Io sono prevenuto verso tutto ciò che non arriva dal nordamerica. Ma questa diffidenza non è ideologica, soltanto il frutto di una lunga, assidua esperienza d’ascolto. E va bene, dirà qualcuno, ma se questo passa il convento, accontentiamoci… Un accidente, rispondo io. E, comunque, accontentarsi è un conto, diventare di bocca buona un altro. Non si esalta la robaccia perché in giro c’è solo robaccia. E, purtroppo, quasi tutto quello che non arriva dal nordamerica è robaccia. L’etichetta danese Lions Pride Music ha pubblicato una compilation celebrativa dei suoi primi dieci anni di attività. Nel suo catalogo non sono presenti, pare, band nordamericane e queste dodici canzoni dovrebbero rappresentare, secondo i comunicati della label, il non-plus-ultra del materiale che band della più varia provenienza hanno registrato per loro in questo decennio. Ho creduto di tradurre nella nostra lingua le note roboanti (accluse comunque nell’originale inglese) con cui la Lions Pride ha descritto ogni brano, tanto per dare l’idea a chi non l’avesse delle bestialità con cui case discografiche senza criterio (o vergogna, decidete voi) cercano di venderci i loro prodotti. Procedendo con un rigoroso track by track, abbiamo:
1. Masaki - Nowhere To Run (norvegia) A gripping opener with Masaki’s signature blend of soaring vocals and driving rhythms, setting the stage for an epic journey through the album. (Un’avvincente opener contraddistinta dal tipico mix di vocals in crescendo e ritmi trascinanti che associamo a Masaki, una canzone che apre lo show per un epico viaggio attraverso l’album) Solita rimasticatura dei Journey in salsa scandinava con qualche stilla prog, e pure inutilmente lunga. Strano l’accento del nostro Thomas Masaki, lo fa quasi assomigliare a un giapponese, anche se lui (sembra) di orientale ha solo quel cognome che scandinavo proprio non pare.
2. Cold Drop - One Life (AB Mix) (danimarca) A remixed version with a new spin, highlighting Cold Drop’s hard rock brilliance. (Una nuova interpretazione del brano, in versione rimixata, che mostra tutta la genialità hard rock dei Cold Drop) Diretta, e non sarebbe male se non l’avessimo già sentita due o tre miliardi di volte sotto altri titoli. Di genialità, mi pare, non c’è ombra.
3. Loud Solution - Not Provided (2024 Version) (Cile) A powerful and riff-driven anthem from this hard-hitting rock outfit with the presence of their new front-man. (Anthem potente e tutto riff da questo gruppo di durissimo hard rock, con il loro nuovo front man al microfono) Questi hanno una predilezione per gli House of Lords, e riescono a ricalcarli benino, ma – c’è bisogno di specificarlo? – senza neppure lontanamente avvicinare la classe degli originali.
4. Wild Rose – Alone (2012 Version) (Grecia) A powerful throwback to Wild Rose’s signature style, this 2012 version of "I Won’t Forget You" blends rich melodies with heartfelt lyrics, embodying their timeless sound. (Un potente tuffo nel passato con l’inconfondibile stile dei Wild Rose: questa versione del 2012 di “I Won’t Forget You” fonde melodie ricche e versi sinceri, e rappresenta alla perfezione il loro sound senza tempo) Solita rimasticatura dei Journey in salsa scandinava (parte seconda). Anonima in maniera agghiacciante. Evito le ironie circa il “sound senza tempo” di questa band, e mi chiedo che senso abbia recuperarne una canzone vecchia di dodici anni.
5. Strangerland - Don’t Be Afraid Of Love (Grecia) A melodic rock mid-tempo filled with emotional depth and classic AOR influences. (Un mid-tempo rock melodico pieno d’emozione e classiche influenze AOR) Il giro di keys che apre la canzone è di un melenso davvero impagabile, ma questi qui, perlomeno, scopiazzano i Survivor (e anche gli Shy) invece dei Journey, dandoci un po’ di respiro. David Cagle, che in altri contesti è un ottimo cantante, qui sembra che dorma in piedi.
6. Perticone - Save Me Tonight (Alternative Version) (Argentina) An alternative version that brings new dynamics to this fan favorite. (Una versione alternativa che aggiunge dinamismo a una delle canzoni predilette dai fan) C’è un più che discreto flavour moderno, ma un po’ di incisività avrebbe giovato. Niente di memorabile, comunque.
7. Ailafar - As Long As I’ve Got You (Grecia) A captivating melodic track that showcases Ailafar’s unique blend of rock and sentiment. (Un’accattivante canzone melodica che rappresenta al meglio il mix straordinario di rock e sentimento degli Ailafar) Voce femminile (fornita da tal Tatiana Economou: ma è un nome greco?) tutt’altro che impeccabile. Power ballatona noiosa, banale e amorfa, adorna di un assolo di chitarra che ogni tanto va fuori tonalità. Arrivare in fondo ai cinque minuti della sua durata, per il vostro webmaster è stata un’impresa.
8. Counterline – Alone (Colombia) A heartfelt and powerful rock anthem that stands as a highlight of the compilation. (Anthem sincero e potente, il clou di questa compilation) Il cantante va sul lamentoso, la band mischia riffing moderno a quello primi 80 senza ottenere alcunché di significativo, il refrain è essenziale. Più che un anthem, questo è un invito a farsi un bel pisolo.
9. Mason - Whatever It Takes (Orchestral Version) (apolide) A majestic orchestral arrangement that adds grandeur to Mason’s melodic rock sound. (Un maestoso arrangiamento orchestrale che aggiunge grandiosità al rock melodico dei Mason) Le percussioni calypso sugli archi sono quasi comiche, ma l’atmospheric power è ben gestito. Del tutto fuori luogo quella voce filtrata.
10. Silvernite – Show Me The Way (Orchestral Version) (grecia) An eagerly awaited track, Silvernite is set to deliver their signature blend of powerful melodies and dynamic rock energy. (Una canzone molto attesa, i Silvernite ci offrono un altro esempio del loro inconfondibile mix di melodie potenti e dinamica energia rock) Hanno cambiato la cantante, ma il rendimento di questa band di cui vi riferii all’epoca del secondo album omonimo non è salito. Moderna, piacevolmente high tech, l’arrangiamento poteva essere più movimentato. Comunque è troppo lunga, e quel refrain robotico fa troppo tedesco (per i miei gusti, almeno).
11. Eddie Vantez - Healing Touch (Remix) (Cile) A reworked version that breathes new life into this track with a fresh remix. (Una versione rielaborata che dà nuova vita alla canzone grazie al remix) Questo è puro retro pop rock 80 (Van Stephenson, Dan Hartman, fate voi) molto ben rifatto, con tanto di sax e chitarre tinnanti. Banalotta, ma come si fa a resistere? Nostalgia canaglia…
12. Voodoo Angel - Broken (Orchestral Version) (Francia) A powerful closing track that combines orchestral elements with Voodoo Angel’s emotive rock. (Una chiusura potente che combina elementi orchestrali con il rock emotivo dei Voodoo Angel) Chi si crede di essere il cantante, Leonard Cohen? Pianoforte, voce, keys, violoncello… Ballatona che nella seconda parte inclina sul tragico/patetico: potrà colpire un adolescente in depressione, ma gli over 18, temo, rimarranno freddini.
In definitiva: su dodici pezzi, se ne salvano – a stento – due o tre. C’è la produzione, c’è la resa fonica, ma manca tutto il resto. Strumentisti spesso modesti, cantanti annoiati o in affanno, arrangiamenti piatti come una sogliola e cliché come se piovesse. Solo perché – salvo David Cagle, mi pare – nessuno dei musicisti coinvolti può mostrare un passaporto statunitense o canadese? Anche. Quello che veramente colpisce – negativamente, of course – è la totale, assoluta mancanza di spunti personali, la latitanza di idee che non siano riciclate, rimasticate da un paio di generazioni. Che ci propongano archeologia musicale va bene, benissimo, ma solo se chi ce la propone sa farla bene, benissimo: non scopiazzando, ma esprimendosi negli stili codificati mantenendo una sufficiente autonomia e mettendoci una buona ispirazione, come gli Station di ‘As Time Goes On’. È un discorso che può apparire lapalissiano, ma dopo aver ascoltato queste dodici canzoni viene il dubbio che dell’archeologia musicale, le band qui presenti (e chi gli paga le incisioni) abbiano tutt’altro concetto.
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