AORARCHIVIA

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ATOM STONE

 

 

  • TAKE ME TO THE FIRE (2024)

Etichetta:Melodic Revolution Records Reperibilità:in commercio

 

Chi è Atom Stone? Solo un americano che suona musica che gli americani non ascoltano più. La ama e vuol suonarla e inciderla anche se sa benissimo che pochi, pochissimi gli presteranno attenzione in patria. E il bello è che questa musica l’hanno inventata proprio loro, gli americani… Sembra assurdo, ma forse non lo è affatto. Quanti sanno che, per tanti e tanti anni, cantanti italiani di cui nel nostro paese pochissimi conoscevano l’esistenza hanno girato il Nord e il Sud America esibendosi davanti a platee tutt’altro che scarse e vendendo un più che rispettabile numero di dischi di musica italiana composta nello stile degli anni 50 e dei primi anni 60, gente che aveva in repertorio le canzoni di Modugno, Achille Togliani, Claudio Villa o Alberto Rabagliati ancora nel pieno degli anni 90, quando per l’italiano medio questi erano solo nomi da archeologia musicale? Il parallelismo con la situazione attuale del rock melodico è quasi perfetta.

Tornando al nostro Atom… Le risorse, senza dubbio, non gli mancano: per incidere questo suo primo album ha collaborato con un paio di produttori, mentre personaggi più o meno noti della scena AOR (Jimi Bell, Dan Tracey, Paul Taylor, Jeffery Sturms e altri) gli hanno fatto da backing band, dato che lui – mi sembra – si limita quasi solo a cantare. Riguardo la sua voce, non si può fare a meno di notare che il Nostro sembra cerchi di farsi passare per il figlio segreto di Steve Perry… e ci riesce anche abbastanza bene!

Un passo falso in apertura: “I Believe” è una power ballad, e non si dovrebbero mai aprire le danze con una ballad, ancorché power, in un album rock. Però è una buona power ballad, molto Journey vagamente filtrati nel moderno, e sempre la band di Neal Schon (e Steve Perry, of course) ispira la title track, che guarda spiccatamente in direzione “Separate Ways”, ma è ben riuscita. “Hate Love” fa un po’ svedese moderno ma non è male, “Watch Me Die” è una power ballad un pelo troppo mesta, problema che affligge anche “Driving Back To You”, questa vagamente Harlan Cage. Cambio di scenario con “Hell On Wheels”, un po’ southern un po’ Bad Company placcati di cromo luccicante: buona. E altrettanto buono risulta il morbido AOR soul di “The Real Thing”, mentre “Tonight” è caratterizzata dal riffing geometrico e dalle solite nuance Journey. Altro cambio di scena per le ultime tre canzoni, tutte figlie illegittime del primo album di Mitch Malloy: “Battlefield” (che può annoverare tra i suoi padrini anche Harry Lee Summer), “Hurt Me” (vivace e divertita, davvero buona), “Uptown” (chitarre più ruvide, decisa e con una bella impronta rock’n’roll.

Qualità audio immacolata e produzione impeccabile completano il quadro di un album nient’affatto malvagio: sarà anche archeologia musicale, ma a noi piace…

 

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EVEREST

 

 

  • EVEREST (1984)

Etichetta:Epic Canada Reperibilità:scarsa

 

Per una band, poter esibire il passaporto canadese al popolo dell’AOR era senza dubbio un grosso aiuto per entrare nelle sue grazie. Ma non sempre la semplice nazionalità dell’ensemble bastava ad avere successo o, quantomeno, a destare un qualche interesse. Prendiamo gli Everest, confrontando lo loro fortune con quelle dei recentemente trattati Beau Geste: entrambi avevano un sound focalizzato più sul versante yankee dell’AOR che su quello canuck, entrambi pubblicarono i loro album solo in Canada (gli Everest per la major Epic, i Beau Geste per l’indie TGO). Eppure i Beau Geste sono una mezza leggenda, degli Everest si ricordano in pochi: oblio immeritato per un album che ha invece tanto da offrire a chi ama l’AOR puro e duro, a volte virante perso il pomp altre più incline verso il pop rock. Prodotto da Paul Gross (Saga, Reckless,Wrabit, Mannequin, Lee Aaron, Bernie LaBarge), ‘Everest’ era aperto da “Right Between the Eyes”, che dichiarava subito e senza equivoci la devozione della band verso i Journey, addobbati di pomp ma con un corredo di belle chitarre robuste. “Hold On” si collocava nella stessa scia, ma risultava più pacata, luminosa, con impasti vocali vagamente prog, mentre “Only a Moment” era contraddistinta da un’enfasi drammatica e tastiere di nuovo pompose, perlomeno a tratti. Dopo il lento crescendo di “I Think It’s My Heart” arrivava il pop rock muscolare di “Danger Zone”, e il synth bass pulsante della eccellente “Streetwise”. I Journey erano molto presenti nel bridge di “You Make Me Shiver”, molto meno nella suggestiva power ballad “Come to the City”, del tutto assenti in “Everybody’s Nuts at the Palace”, un breve strumentale per due chitarre acustiche, del tutto fuori posto (e quel titolo sembra tradire il fatto che la band ne fosse perfettamente consapevole) nel contesto dell’album. Due gemme in chiusura: “I Know You’re There”, dinamica e per nulla scontata con quei cambi di tempo tra strofe e coro; “I Don’t Know”, cadenzata, elettrica, suggestiva e di grande atmosfera.

Questo bel disco non raccolse consensi neppure in Canada, la band venne licenziata dalla Epic, registrò un altro album rimasto inedito fino al 1996, cambiò cantante (Ric Mcdonald – anche bassista – lasciò il posto ad Andrea Duncan) e nel 1986 vinse un contest che aveva in palio la pubblicazione di un 45 giri per la MCA. Questa canzone – intitolata “Don’t Know What To Do” – rimase l’ultima testimonianza lasciataci dagli Everest, ripescati solo una volta nel 1996 dalla Long Island che ristampò l’esordio (per la prima volta su CD, in origine uscì solo su LP e cassetta) e pubblicò il secondo album (intitolato ‘One Step Away’, di cui scrissi cinque anni fa: per chi non ricorda c’è il link). Auspicare una nuova ristampa di ‘Everest’, o almeno il suo ingresso nel catalogo di Amazon Music è del tutto legittimo.