Perché diavolo Danny Tate sia rimasto fuori dalle liste di Heavyharmonies non so spiegarmelo. Ci sono John Kilzer, Mitch Malloy, Jimmy Davies, Henry Lee Summer, ma non lui. Eppure la musica contenuta in questo suo album d’esordio appartiene alla stessa categoria in cui possiamo far rientrare quella dei nomi appena citati: non precisamente, non del tutto, AOR o hard melodico, ma un impasto di questi con quel rock mainstream dei Big 80s che è stato poi battezzato “heartland rock”. Aggiungiamo il fatto che Mr. Tate non è affatto un signor nessuno, ha scritto canzoni di successo per tantissimi act (bastano Rick Springfield, Jeff Healey, Kenny Wayne Shepherd e i Lynyrd Skynyrd?) e colonne sonore per diversi film e molti show televisivi. Come artista solista non ha avuto però fortuna, nessuno dei suoi dischi è entrato nella Billboard 200, probabilmente perché la sua carriera come recording artist è cominciata nel momento sbagliato, dopo l’esordio nel 1984 con ‘Sex Will Sell’ (pubblicato in proprio da Danny), ci fu una pausa di ben otto anni prima che arrivasse ‘Danny Tate’ (stavolta edito da una label vera, e anche di notevoli mezzi, la Charisma) e quante probabilità avesse un disco del nostro genere di entrare nelle charts nel 1992 tutti lo sappiamo. La consonanza della musica del Nostro con quella dei nomi fatti più sopra è confermata (almeno fino ad un certo punto) dal fatto che ‘Danny Tate’ venne coprodotto dal suo autore con Jack Holder, che era stato dietro il banco del mixer anche del pregevole esordio di John Kilzer, e qui suonava anche chitarra e tastiere in una backing band di notevole spessore (comprendeva, fra gli altri, Monty Byrom, Alan Pasqua, Mike Brignardello e un ancora poco noto Warren Haynes). Apriva le danze “Someday”, stesura nello stesso tempo ruvida ed elegante, bel mix tra gli universi sonori di Bryan Adams e Mitch Malloy, e su quella falsariga si muoveva “How Much”, che aggiungeva alla pietanza sfumature Bad Company sapientemente cromate, completando il tutto con un refrain drammatico. Pianoforte, organo Hammond e cori femminili davano pepe al divertente melodic southern intitolato “Lead Me To The Water”, si tornava alle sonorità tipiche di Mitch Malloy nella ariosa balld elettroacustica “Save A Little Love”, ma con “Six Senses” c’era da gridare al miracolo: su un ritmo boogie alla ZZ Top veniva ricamata una track sexy e notturna, dominata da intrecci di chitarre spettacolari e sofisticati in cui andava ad inserirsi con splendida disinvoltura un assolo di chitarra slide. Dopo la ballatona romantica “Paradise Lost”, tutta archi e pianoforte, si ritornava ad un rock da FM maschio e vigoroso con “Winds Of Change”, poi un’ altra canzone da urlo, “Feel Like A Woman”, sorta di voodoo blues cromato fatto di chitarre acustiche potenti ed elettriche insinuanti fra cui vagavano armonica e Hammond. Ombre country e southern smaltavano “No Place To Hide”, svelta e agile alla Mitch Malloy, mentre “The Fever” si rivelava la cosa più AOR: lenta ma con un canto vigoroso, giunta a metà si incendia tornando nel finale morbida e d’atmosfera. La divina “Romance” era notturna e nello stesso tempo policroma, bluesy, sensuale, le chitarre saettano affilate o ci sfiorano morbide come il velluto, “The Taste Of Your Tears” manteneva una precisa cifra AOR pur in un contesto sempre bluesy su una splendida melodia. In chiusura c’era “Angel, Fly”, ballad dalla grande atmosfera che si snodava tra keys e chitarre acustiche. Il songwriting eccezionale veniva esaltato da arrangiamenti fantasiosi pilotati da una produzione stellare e, insomma, ‘Danny Tate’ risulta uno dei più begli album di rock melodico pubblicati in quell’anno tutt’altro che propizio alle fortune del nostro genere che fu il 1992. Non è mai stato ristampato, però gira sul mercato dell’usato a basso prezzo e in notevole quantità e chi ha apprezzato i lavori dei nomi citati al principio non può davvero privarsene.
Cominciamo con una precisazione riguardo il moniker di questa band, che è: Heavens Edge. Non “Heaven’s Edge”. E non è pignoleria sottolinearlo, dato che sia su Heavyharmonies che su Wikipedia i Nostri sono iscritti come Heaven’s Edge… come se poi quel nome non fosse scritto chiaramente e a caratteri cubitali sulla copertina di tutti i loro tre album. Il recentissimo ritorno, a ben 33 anni dall’esordio, ci coglie di sorpresa. Un’altra band gloriosa che rispunta dalle nebbie del passato scatenando in chi ha apprezzato quanto da loro fatto nei Big 80s delusione o magari raccapriccio? Prima di affrontare l’appena edito ‘Get it Right’, rinfreschiamoci un po’ la memoria tornando nel 1990, a quel ‘Heavens Edge’ che fu uno degli splendidi frutti del rock melodico nella sua tarda stagione. Originari della zona di Philadephia come Cinderella e Britny Fox, gli Heavens Edge appartenevano solo molto grossolanamente alla stessa area stilistica dei loro corregionali. Anche se pare che avessero iniziato la carriera in territori nettamente AOR, una volta entrati in studio con Neil Kernon decisero (spinti – sembra – dal produttore) di dare una netta sterzata metallica al proprio sound. ‘Heavens Edge’ è fatto di quel genere (così difficile da definire con precisione) che Beppe Riva battezzò “class metal”, e costituisce una delle sue realizzazioni meglio riuscite. La base su cui gli Heavens Edge gettavano le fondamenta del proprio sound era quella del metal californiano (soprattutto sul versante Ratt), ma l’edificio si sviluppava secondo le linee variegate dettate dagli Winger del primo album e questo quasi inedito connubio è palese fin dall’iniziale “Play Dirty” (con un bridge che fa però tanto Silent Rage), fra le note dell’hard melodico “Find Another Way” (con un middle eight di netta marca Journey), in “Don’t Stop, Don’t Go” (agile, spettacolare, un po’ Skid Row) e “Up Against the Wall” (arena rock con un contrappunto di ottoni scoppiettanti che le danno un sapore un po’ r&b, ricamato di acrobazie chitarristiche). Un riffing agile e sinuoso era spesso il trade mark della coppia d’asce formata da Reggie Wu e Steven Perry, e caratterizzava soprattutto “Skin to Skin” (con un refrain sleaze ed essenziale), “Daddy’s Little Girl” (che ha un coro quasi identico a quello di “Medicine Man” dei Katmandu: un furto operato da Dave King e compagni ai danni degli Heavens Edge, oppure entrambi l’hanno grattato a qualche canzone che non conosco?), “Bad Reputation” (caratterizzata dalle atmosfere cangianti e il lungo bridge d’atmosfera). Se “Can’t Catch Me” procedeva frenetica con la solista in shredding scatenato, anticipando quanto l’anno successivo faranno gli Scream, “Is That All You Want?” era un vero e proprio anthem bluesy, percorsa da una bella slide e infiammata nella seconda parte da una chitarra selvatica (questa canzone, così è scritto nel booklet, venne registrata live in un club di Philadelphia il 17 settembre del 1989: ignoro quanto sia stato ritoccato in studio, ma ritengo che abbiano lavorato come minimo sul rumore del pubblico, dato che in un locale notturno più di un paio di centinaia di persone non possono entrarci, mentre a sentire i boati che accompagnano la band e scandiscono il coro sembra che la ripresa sia stata fatta in un arena da diecimila posti gremita all’inverosimile…). Due le ballad, entrambe su base Journey (dei Journey ovviamente più elettrici): “Hold On to Tonight” (che prende qualcosa da “Who’s Crying Now”, in splendido equilibrio tra strofe e coro), e “Come Play the Game”, più drammatica. Le critiche favorevoli non riuscirono però a spedire questo grandissimo disco molto in alto nella Billboard 200 (solo un misero numero 141 di picco), e con quello che accadde nel 1991, per i poveri Heavens Edge il licenziamento era fatale. Nel 1998, la Perris pubblicò ‘Some Other Place, Some Other Time’, una raccolta di demo che valeva esattamente quanto valgono le raccolte di demo, ossia poco o nulla: una misera coda per una carriera finita troppo presto. Sporadiche reunion per show di beneficenza in questo o quel club della zona di Philadephia non facevano certo sperare in un nuovo album, la morte del bassista George Guidotti nel 2019 spinse addirittura i quattro superstiti a decidere di non esibirsi più con quel moniker, decisione che è però rientrata con l’ingresso nella band di Jaron Gulino (già nei Tantric e poi bassista per quella band eccellente che furono i Mach 22). E, dulcis in fundo, arriva ‘Get it Right’. Che, diciamolo subito, è un buon disco, ma non replica (logicamente?) i livelli dell’esordio. In compenso, non si rifugia nella comoda dimensione dell’autocitazione e ci dice che la band si è tenuta al passo con quello che nel rock è accaduto negli ultimi trent’ anni: non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il refrain di “Gone Gone Gone” sia così H.E.A.T… Anche la power ballad “What Could’ve Been” ha un flavour moderno, elettroacustica e con una melodia che arieggia i Def Leppard, mentre “I’m Not the One” è tempestosa secondo la lezione degli ultimi Whitesnake, con strofe quasi d’atmosfera e un refrain suggestivo e policromo. Il class metal dal riffing rotolante (ma abbastanza scontato) che apre l’album, “Had Enough”, pure ha linee melodiche leppardeggianti, “Nothing Left But Goodbye” introduce atmosfere southern nel contesto, con qualche tocco acustico, riff saltellante e una bella slide nell’assolo. “When the Lights Go Down”, fa molto Bon Jovi, anche questa un po’ scontata ma non malvagia, “Raise ‘Em Up”, serrata, galoppante, nervosa, varia bene i toni tra strofe e coro, con “9 Lives (My Immortal Life)” diventano dei Van Halen di grana grossa, fra chitarre che grattano, un canto sfacciato e il refrain diretto, “Dirty Little Secrets” è un class metal ipermelodico, tra il riffing elementare e le vocals molto pop. Il top, per il sottoscritto, arriva, con “Beautiful Disguise”, fatta di begli intrecci di chitarre e melodia in stile Firehouse. Che ‘Get it Right’ potesse reggere il confronto con ‘Heavens Edge’ era improbabile, però questo disco può guardare l’esordio a testa alta e ci restituisce una band che è ancora capace di macinare ottimo rock melodico.
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