AORARCHIVIA

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XYZ

 

 

  • XYZ (1989)

  • HUNGRY (1991)

 

Etichetta:"XYZ" Enigma

                "Hungry" EMI/Capitol

Ristampe:Axe Killer

Reperibilità:discreta

 

Probabilmente non esiste genere difficile come il Class Metal. É un equilibrio instabile tra la potenza e la melodia, come dire tra la monoliticità e la varietà: come cercare di far crescere rose su un muro di cemento.

Anche se storicamente sono stati gli Scorpions i primi a predicare questo ambiguo connubio, è nella seconda metà degli anni '80 e negli USA che il Class Metal nasce in forma ufficiale, ad opera dei Dokken. Che di seguaci ne ebbero davvero pochi, non per scarsa convinzione, ma proprio per l'estrema difficoltà che il genere presentava: basta un nulla per far debordare il suono da un lato verso il classico heavy melodico americano e dall'altro nei lidi più soft del melodic rock. Possiamo citare gli Winger (ma solo per lo straordinario primo album), i Firehouse (idem come sopra), gli Y&T di 'Ten', gli Heaven's Edge, gli Hurricane, i Vinnie Vincent Invasion e pochi altri. Tra questi pochi, gli XYZ che il loro primo album se lo fecero produrre - guarda caso... - da Don Dokken.

Band formata da perfetti sconosciuti, ma sostenuta da una major, autonoma dal punto di vista compositivo (niente songwriters esterni alla band), gli XYZ seguivano con una notevole efficacia i dettami della band di 'Under lock and key', senza però negarsi altre fonti di ispirazione ( ad esempio nel riff di "Inside Out" confluiscono  "17" degli Winger e "Hina" di D. L. Roth). La massiccia armatura metallica  del suono era ben ordita di melodia, anche se il cantante, Terry Ilous, si esibiva in certi momenti con uno stile un po' troppo da screamer heavy metal, secondo le più classiche coordinate dettate dal duo Dio/Dickinson. Ciò non impediva alla band di avventurarsi su terreni molto sofisticati ed al singer di seguirla comunque con diligenza, come su "Follow the night", suadente blues metallico e notturno o di eccellere nelle ballad, la Whitesnake-oriented "What keeps me loving you", la più power "Souvenirs" e l'acustica e pomposa "After the rain".

Nel 1991, la pubblicazione del secondo album, 'Hungry', segna un certo cambiamento di rotta. Alla produzione c'è il tandem George Tutko/Neil Kernon e con la band stavolta collabora sua eccellenza Jeff Paris. Nel Class più levigato si insinua una dose massiccia di puro hard rock americano, ed in più di un frangente la band paga tributo a Ratt e Motley Crue ( "A roll of the dice", "Face down in the gutter"), mentre su  "Shake down the walls" vengono citati abbastanza platealmente (ma con un effetto non certo spiacevole...) i Def Leppard (vedi "Rock! Rock! Till you drop"). Il suono si fa più ruvido, le ballad semplicemente spariscono. "H.H. Boogie" è, come il titolo suggerisce, un bollente boogie metallico mentre si gioca grosso con la cover di "Fire and water" dei Free, risolta splendidamente dalla band grazie all'arrangiamento curato da Jeff Paris, con un Terry Ilous che non sfigura affatto nel paragone con il grande Paul Rodgers  e appare finalmente affrancato dalla dipendenza da modelli di cantato troppo heavy metal . Anche agli episodi più melodici e anthemici gli XYZ danno un taglio volitivamente rock ("Don't say no", "Feels good", "Whisky on a heartache", "When I find love"). "Off to the sun" è un solenne mid tempo zeppeliniano, mentre anomalo e fuori posto risulta il power metal di "The sun also rises in hell". Nella ristampa curata dalla Axe Killer nel 1999, c'è una bonus track, "Two wrong can make a right", uno splendido episodio tutto armonica e chitarra acustica, ma aggressivo quanto non mai.

Considerato che le ristampe di questi due album sono state tirate in un limitato numero di esemplari, il mio consiglio è di correre a procuravele prima che spariscano per sempre, assieme ad un'altra lucente scheggia dell' hard rock degli anni d'oro.

 

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PARADISE

 

 

  • LIGHT THE FIRE (2001)

Etichetta:Escape Reperibilità:discreta

 

 

Di questa band si sa poco o nulla. Neppure quando ha inciso l'album. Secondo alcuni si tratta di una di quelle produzioni dei primi anni '90 mai pubblicate a causa dell'esplosione del Grunge. Altri ne hanno parlato come della "nuova band" di Doug Johnson, tastierista degli indimenticabili Loverboy. Il booklet allegato al CD è avarissimo di informazioni. Niente date, nessuna notizia sul copyright, niente luogo di registrazione e - questo è veramente strano - neppure un ringraziamento! La band è formata dal buon Doug, che si occupa delle tastiere e ha programmato il basso e la batteria, da George Criston, già cantante dei Kick Axe e dal chitarrista - un Carneade, per me - Joe Wowk. Produce Doug Johnson. Nient'altro è dato sapere dei Paradise. Peccato. Perché questa band merita un'attenzione speciale. Fa un AOR bello tosto, Joe Wowk non si limita certo ad accarezzare la sua sei corde, e si rivela chitarrista completo e spettacolare. George Criston è una specie di Mark Slaughter dalla timbrica molto più virile, senza quelle inflessioni tra la gallina strozzata e l'eunuco sotto tortura che rendono inascoltabili - almeno per me - l'ultimo disco dei Vinnie Vincent Invasion e quelli degli Slaughter. Sa essere potente ed espressivo senza cadere nel manieristico e riesce a variare i toni come pochi. Doug Johnson non ha bisogno di presentazioni, e qui suona con un piglio deciso, mancano del tutto le tentazioni pop dei Loverboy, il tastierismo e risolutamente hard rock pur senza quasi far ricorso al solito hammond. Per di più, produce impeccabilmente.

Le canzoni, tutte scritte dal solo Doug, ricordano i Loverboy solo a tratti. Mi pare piuttosto che il punto di riferimento siano gli ultimi Legs Diamond, quelli di 'Town Bad Girl' e 'Land Of The Gun', ma con molta più energia, un suono più 'aperto', e un'attitudine anthemica che percorre quasi tutto l'album, esplodendo con forza in "Rockiday" e sopratutto nella grande "Love Surgery". Ma tutto l'album è pieno di grandi canzoni. 11-pezzi-11, e nessuno da scartare. Arena rock di grandissimo effetto e potenza, anche nelle ballad: la drammatica ed elettrica "Ride the storm alone", zeppeliniana fino al midollo, con una progressione da brividi ed un George Criston davvero impagabile e la più soft "You have the touch". Una menzione particolare per "Paralyse eyes", mirabile connubio di melodia, intrattenimento e performances strumentali straordinarie, roba che ben pochi potevano permettersi di fare (gli House of Lords, i Damn Yankees e qualcun altro appena) ai tempi d'oro dell'AOR.

 

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CRIMSON GLORY

 

 

  • STRANGE & BEAUTIFUL (1991)

Etichetta:Roadrunner Reperibilità:scarsa

 

 Se qualcuno ha avuto la bontà e la pazienza di leggere tutte le recensioni di questo sito, avrà ormai intuito come chi scrive abbia un debole - anzi, ben più di un debole, una passione insana... - per tutte quelle bands che nei tardi anni '80 e nei primi '90 venivano catalogate alla voce "led clones". I perché ed i percome di una tale fioritura di devoti al suono zeppeliniano proprio in quel particolare periodo non sono facili da individuare, né è chiaro perché alcune siano state osannate e venerate (come i Great White o - fuori dalla mischia hard rock - i Mission), certe abbiano passato l'esame della critica al massimo con una tirata d'orecchie (i Cult), mentre ad altre sia toccato di venir quasi ridicolizzate (i Kingdom Come). Rimane il fatto che ispirarsi al suono della band di Plant e Page era diventato pratica comune, anche solo per qualche canzone (come fecero House of Lords, Giant, Lynch Mob, e tanti, tantissimi altri). Più sfacciato e rischioso era fissare le coordinate di un intero album sulla rotta seguita dal Dirigibile; doppiamente rischioso se la band che ci provava aveva già un passato musicale ed un seguito di fans. Il caso, appunto, dei Crimson Glory.

Il loro passato fatto di prog metal alla Queensryche non era affatto malvagio o da dimenticare, e per chi amava un suono magniloquente, epico, solenne, la band era una specie di terra promessa. Ai concerti, la faccenda delle maschere d'argento sulla faccia non aveva mai molto convinto, ma, si sa, l'heavy classico vive anche di queste cazzate, e tutto era buono per distinguersi in un panorama sovraffollato com'era quello del prog metal di fine anni '80.

E poi, all'improvviso, nel 1991, come il proverbiale fulmine che guizza in un cielo azzurro e sgombro, i ragazzi si presentano con un disco che di metallico ha poco o nulla, ed un look da perfetta hard rock band. E la posa del cantante Midnight nella foto del retro copertina, riccioli biondi al vento e camicia spalancata a mostrare l'ombelico, era più eloquente di mille recensioni per comprendere la nuova direzione musicale dei Crimson Glory. Direzione non esclusivamente zeppeliniana, ma più in generale volta ad un hard rock impetuoso, settantiano, dove qua e là spuntavano funk, soul e qualche briciola di AOR.

I voli a bordo del dirigibile sono concentrati principalmente nella title track e in "Starchamber", splendide figlie illeggittime di "Kashmir", in "Make you love me" dove sul riff portante si innestano fiati rhythm and blues e cori femminili molto soul e nella conclusiva "Far away", una piece acustica dove la band rilegge a modo proprio "Going to California". "Dance on fire" è un funk vizioso, "Love and dreams" una ballad assolutamente anni '70. Con "Deep inside your heart" si sfiora l'AOR, ma è ancora il soul a caratterizzare la parti vocali, mentre "Song for angel" è una ballad che affronta il class rock con più convinzione e qualche reminiscenza della vecchia dimensione prog della band. Se "Promise land" è un esperimento 'etnico' non troppo riuscito (è stata un'idea del produttore quella voce di beduino nell'intro?), il capolavoro arriva con la stregata "In the mood", alternanza di funk zeppeliniano scandito da chitarre elettriche e fiati, e suadenti, incalzanti, misteriose evoluzioni intessute da percussioni e chitarre acustiche, spezzata da un bell'assolo di sax, un crescendo magistrale su cui Midnight interpreta con straordinaria espressività un testo in cui non si fatica a intuire una storia di sensualissima licantropia. Ed è proprio il cantante l'autentica rivelazione del disco: una voce che esplode acuta e teatrale, drammatica e crudele, con una propria personalità e dipendente solo in parte dal suo aureo ispiratore.

Che la svolta nel suono sia stata voluta sopratutto da Midnight è confermato dal fatto che la conversione non si rivelò indolore, vedendo la dipartita - seppur amichevole - del chitarrista ritmico Ben Jackson e del drummer Dana Burnell. Solo l'ultimo venne sostituito con lo sconosciuto Ravi Jakhotia, mentre Jon Drenning incise da solo tutte le parti di chitarra.

Prodotto splendidamente da Mitch Goldfarb, questo disco - pur pubblicato da un'etichetta indipendente - aveva tutte le carte in regola per imporsi. Purtroppo i fan non gradirono il cambio di identità della band, voltandole le spalle in massa, e i Crimson Glory non riuscirono a farsi notare fuori dalla cerchia ristretta di heavies in cui si erano fino ad allora mantenuti.

Il primo a mollare fu proprio Midnight, il resto della band proseguì tra mille incertezze, anche di direzione musicale, fino a sciogliersi. Si sono riformati nel 1999, ripresentandosi con un disco a metà fra power e prog metal, un passo indietro giustificato solo dal fiasco commerciale che 'Strange & Beautiful' tristemente si rivelò.

 

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BANGALORE CHOIR

 

 

  • ON TARGET (1992)

Etichetta:Giant/WEA Reperibilità:scarsa

 

Questo disco, primo ed unico - a tutt'oggi - parto dei Bangalore Choir, risale al 1992, e fu uno degli ultimissimi lavori di hard melodico ad uscire su major (l'etichetta era la indie Giant, ma veniva distribuita dalla Warner). Promuovere un album del genere mentre Nirvana, Pearl Jam ed Alice In Chains vendevano dischi a camionate si poteva considerare una forma particolarmente raffinata di suicidio, ma i Bangalore Choir, più che essere pubblicizzati, vennero "pubblicati", nel senso che il disco fu scaricato nei negozi e lasciato a se stesso. Non dovettero esserne stampate molte copie, dato che non l'ho mai visto nei forati e la mia la comprai di import (dolce, proustiano ricordo, l'arrivo del CD nella sua confezione cartonata e oblunga, schizzato direttamente dagli USA nelle mie mani avide di AOR...).

I Bangalore Choir, dunque, erano arrivati tardi, ma l'eccellenza della loro proposta conferma che il cammino dell'AOR americano fu una curva ascendente:  non è un caso che quasi tutti i dischi memorabili furono pubblicati negli ultimi cinque anni di vita pubblica del genere ( che comincia nel 1981, con la pubblicazione di 'Escape' e termina nel 1992, quando le major smisero di ospitare l'AOR nei loro cataloghi; dopo questa data, il melodic rock è divenuto un fenomeno underground), e addirittura il lavoro delle band che il vostro webmaster reputa le più grandi (Bad English, Giant e House of Lords) si concentri nell'arco di tre anni, fra l''89 ed il '92.

Ma chi erano questi signori di cui temo pochi hanno mai sentito parlare? L'unico personaggio di un certo rilievo era il cantante, Dave Reece, che si sobbarcò l'ingrato compito di sostituire il mostriciattolo Udo nell'album più class e snobbato dei tedeschi Accept. Gli altri erano sconosciuti o quasi (Curt Mitchell e John Kirk alle chitarre, Derek Thomas e Dan Greenberg  batteria e basso, ma gia dimissionari al momento dell'uscita del disco, sostituiti - solo nelle foto - da Ian Mayo e Jackie Ramos). La produzione era condivisa da Max Norman e Jimbo Burton, che confezionarono un suono caldissimo ed esplosivo, tagliente e cromato.

A livello stilistico c'è una netta divisione tra le canzoni scritte in proprio dalla band e quelle fornite dai songwriters esterni. Quando i Bangalore Choir lavorano da soli, la loro rotta procede dritta lungo la direttrice Dokken/Ratt, un class metal imponente, massiccio e ben lubrificato di melodia, con un' incursione in direzione Scorpions durante la power ballad "If the good die young (we'll live forever)". Interpretando le canzoni altrui, la band si adatta senza problemi ad un sound meno monolitico. "Angel in black", scritta da Steve Plunkett, è uno straordinario anthem alla Autograph (e difatti la ritroviamo - in versione demo - nella raccolta postuma della band di Plunkett, 'Missing Pieces'). "Loaded gun", che porta la firma di Ricky Phillips e Curt Cuomo, innesta una grande melodia su un bel tappeto elettroacustico, poi il top assoluto dell'album, "Doin' the dance", del tandem Aldo Nova/Bon Jovi, un riff travolgente modulato su una delle più straordinarie timbriche di chitarra elettrica che abbia mai sentito, un party/anthem vizioso e ballabile che non so per quale incomprensibile motivo Aldo Nova non abbia inciso anche sul suo ultimo e quasi contemporaneo disco, 'Blood on the bricks'. La band divide infine con Russell Miller la ballatona "Hold on to you".

In quest'album prevalentemente chitarristico le tastiere sono comunque presenti; chi le abbia suonate non è scritto ma - se ho correttamente interpretato una frase sibillina nei ringraziamenti - l'autore delle keys potrebbe essere proprio Aldo Nova. Resta solo da dire che la performance di Dave Reece è superba lungo tutto il disco, e il cantante si muove a suo agio sia nelle ballad che sui pezzi più aggressivi, esibendo un timbro un po' alla Coverdale, ma più acido e acuto.

Pregate per una ristampa.

 

 

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BATON ROUGE

 

 

  • SHAKE YOUR SOUL (1990)

  • LIGHTS OUT ON THE PLAYGROUND (1991)

  • BATON ROUGE (1997)

Etichetta:"Shake your soul" Atlantic

              "Lights..." Eastwest

                 "Baton Rouge" MTM

Reperibilità: scarsa

 

Uno degli aspetti dell'hard rock melodico che mi pare non è mai stato sottolineato a sufficienza è il suo spirito fondamentalmente positivo. D'accordo: le ballad malinconiche abbondano, e Dio solo sa i testi di quante canzoni possono essere condensati con la frase  "Perché mi hai lasciato, amore mio?" oppure "Perché mi hai lasciato, lurida troia?". Ma anche in quelli che sembrano pozzi senza fondo c'è sempre una luce che balugina, un chiarore, un'eco che sussurra "domani andrà meglio". Quando il grunge arrivò a spazzare via il melodic rock dagli USA, non a caso l'attenzione di tutti venne catalizzata proprio da una base ideologica completamente opposta al trend fino ad allora dominante, fatta di malinconia, desolazione esistenziale, di una rabbia priva di obiettivi e riferimenti che girava su se stessa traducendosi infine in una tendenza autodistruttiva mutuata dal punk più becero.

 L'AOR era gioia di vivere, era divertimento, sesso, auto veloci, feste, era - come cantavano gli XYZ - whisky on a heartache: basta un bicchierino di roba buona per dimenticare la ragazza che ci ha spezzato il cuore, e andare  poi in cerca della prossima... La musica faceva il paio con i testi ed in un album di melodic rock potevate trovarci qualsiasi cosa, ma non certo un invito alla depressione.

Ci furono bands che fecero del puro divertimento la propria bandiera, seguendo le orme dei decani Kiss: Motley Crue, Ratt, Poison, Warrant e tanti altri fornirono la colonna sonora a quella permanent vacation californiana che per tanti di noi nei Big 80s rappresentava un irraggiungibile paradiso in terra.

I Baton Rouge arrivarono nel '90, quasi alla fine del party, e fecero esplodere i nostri stereo con la più allegra, cromata, ruffiana alchimia di musica & divertimento mai ascoltata. Non inventavano niente, assolutamente niente, ma riuscivano ad applicare i teoremi già dimostrati da altre bands con una forza, un'abilità ed una convinzione senza pari. Il castello del loro hard melodico sorgeva su due pilastri: Kiss e Scorpions (con i Loverboy a fare spesso e volentieri da architrave). Gli architetti erano Jack Ponti e Vic Pepe, produttori e songwriters d'eccezione, che confezionarono per la band un suono di straordinaria ricchezza anthemica, bilanciando alla perfezione la chitarra killer di Lance Bulen e le tastiere opera dello stesso Jack e dell'ospite Randy Cantor (poi produttore dei Cinderella-clones Blackeyed Susan). E su tutto imperava il singer Kelly Keeling, ruvido velluto sulle ballad e pura carta vetrata nei pezzi più svelti: rauco, cattivo, sfacciato eppure sempre meravigliosamente controllato e aoreggiante.

Passare tutte le canzoni di quest'album sotto la lente d'ingrandimento, semplicemente, non si può. Dire che "Doctor", "Walks like a woman" e "Baby's so cool" sono canzoni per cui i Kiss avrebbero ucciso può far comprendere il loro valore, ma non la carica che posseggono. Dire che "There was a time" (scritta dal solo Ponti con Jamie Kyle), "Young hearts", "Melenie", "It's about time" sono power ballad colossali che traslano nel telaio dell'hard americano la gigantesca estensione melodica dei migliori Scorpions, le descrive correttamente ma non ne rende la straordinario impatto. Questo è un disco che trasformerebbe anche una veglia funebre in un veglione di carnevale: fatelo suonare alla vostra festa e vedrete il timido abituale mettersi a mollare pacche nel sedere alle ragazze più sexy, l'aspirante suora di clausura improvvisare uno strip-tease in mezzo alla stanza. Qui ci sono la forza, l'energia e l'ottimismo che sono la carne e il sangue del vero class rock.

E la replica che la band dette nel 1991 con 'Lights out on the playground' non era da meno, solo più ruvida, meno ammorbidita dalle tastiere, e sempre prodotta alla grande dal solito Ponti.

Finita l'epoca d'oro, anche ai Baton Rouge toccò lo scioglimento per mancanza d'interesse. Lance Bulen mise su una band con Paul Sabu che doveva chiamarsi Insomnia e non incise mai nulla, anche se il grande cantante/produttore recuperò un paio di canzoni scritte assieme al chitarrista e le infilò nella ristampa del suo 'Kid glove' e poi nel secondo disco degli Only Child. Kelly Keeling passò dai Blue Murder alla band di John Norum, al MSG, alle solite esperienze di corista, finché, nel 1997, di comune accordo con Jack Ponti, decise di resuscitare il marchio Baton Rouge. E se ho usato il termine "marchio", un motivo c'è: questo disco, dei vecchi Baton Rouge non ha quasi niente, e si può tranquillamente considerare, invece, il secondo album dei Surgin, la prima band di Ponti. I motivi che hanno spinto i due a fare questa scelta singolare li ignoro: i Surgin sono un'autentica cult band ed un loro ritorno avrebbe creato un buz certo non inferiore a quello ottenuto sbandierando il nome dei Baton Rouge. Jack Ponti sembra dimenticare qui tutte le sue produzioni scintillanti della fine degli anni '80 e dei primi '90 (come i Babylon A.D. e i China Rain), e fa un salto indietro nel tempo fino all''85, attualizzando appena il suono ma adottando lo stile compositivo dell'epoca. Le canzoni, difatti, le ha scritte tutte lui, ed è autore anche di tutte le parti di chitarra. Dulcis in fundo, reincide una canzone del primo album dei  Surgin, "Wait until morning" che però viene reintitolata - Dio solo sa perché - "Victims of the night" , e la "Love's a loaded gun" scritta con Alice Cooper per il suo album 'Hey stupid'. Russell Arcara (il cantante dei Surgin') e Kelly Keeling hanno voci tanto diverse che mettersi a fare confronti tra loro è come paragonare mele e arance, dunque non mi sembra il caso di esprimere giudizi di valore fra le due interpretazioni dello stesso materiale (ma voglio sottolineare che la performance di Kelly su "Love's a loaded gun" cancella senza misericordia quella offerta a suo tempo da Mr. Nice Guy...). Il resto del disco è pieno di ottime canzoni e se - come al sottoscritto - l'AOR dei Surgin vi piace non rimarrete delusi. Ma i veri Baton Rouge erano una cosa completamente diversa.

 

 

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FEMME FATALE

 

 

  • FEMME FATALE (1988)

Etichetta:MCA Reperibilità:scarsa

 

Del rapporto tra donne e hard rock ho già parlato nella recensione su Alannah Myles e non voglio ripetere qui le stesse cose. I Femme Fatale erano una female fronted band che pubblicò un solo album nel 1988. La cantante si chiamava Lorraine Lewis ed oltre ad avere un personale da paginone di Playboy era stata benedetta da madre natura anche nel comparto vocale: aveva, infatti, una bella voce acuta ma nello stesso tempo un po' rauca, e sapeva modularla abilmente, riuscendo sexy senza troppi manierismi (chi ha avuto la ventura di ascoltare i dischi di Lisa Dominique o delle Cycle Sluts From Hell mi avrà capito...).

La nostra bella Lori riuscì ad agguantare un contratto addirittura con la MCA, che la spedì in studio con Jim Faraci e David Cole, ed una band che non era certo formata da virtuosi ma assolveva il suo compito con precisione e diligenza.

Il disco non era di quelli che potevano generare terremoti nelle classifiche di Billboard: solo un onesta, derivativa eppure efficace sequenza di brani di hard melodico.

Il lato A del mio vecchio piattone di vinile color pece - che in questo particolare caso ha sul CD il vantaggio di consentire una più accurata e panoramica visione delle grazie della cantante, generosamente mostrate nelle foto che corredano fronte e retro copertina - spara subito i due pezzi top dell'LP, "Waintin' for the big one" e "Falling in and out of love", begli hard melodici tra in bilico tra Heart e Bon Jovi (ma "Waintin' for the big one" è per metà ricalcata sulla "Burnin' house of love" degli X). Poi la provocante "My baby's gun", ovvero l'hard rock'n'roll che ognuno vorrebbe sentirsi cantare dalla propria ragazza, e che Lorraine Lewis risolve alla grande, sfrontata ma non puttanesca, con il picco erotico a metà canzone: un duetto a base di mugolii da gatta in calore con la chitarra del solista Bill D'Angelo, chiudendo poi la performance con una risata ed un sonoro "yeah!" che danno alla canzone quel tocco ironico e divertito che la rendono assolutamente irresistibile. Chiudono la side A la ballatona "Back in your arms again" e l'acustica "Rebel". Il lato B è un aperto omaggio ai Ratt, qua e là si sfiora addirittura il plagio (come su "Heat the fire", che replica in parte "Wanted man"), ma la conclusione è nuovamente di stampo Bonjoviano, con "Cradle's rockin'".

Il successo non arrise ai Femme Fatale, nonostante uno o due videoclip megasexy che MTV non si faceva certo pregare per mandare in onda. Lorraine Lewis partecipò in seguito come solista alla colonna sonora di un film di cui non ricordo il nome, continuando poi una carriera di profilo molto basso fino ai giorni nostri.