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HARLAN CAGE

 

 

  • DOUBLE MEDICATION TUESDAY (1998)

Etichetta:MTM Reperibilità:in commercio

 

Gli Harlan Cage potremmo anche definirli – usando una notazione moderna –  i “Fortune 2.0”. Trattando del primo album dei Fortune (il link sta lì per un ripasso veloce) avevo già accennato al fatto che le vere menti creative di quella band, Larry Greene e Roger Scott Craig, erano tornati a farsi sentire sotto questo moniker, riprendendo il discorso interrotto nel 1985, quando erano in società con i fratelli Richard e Mick Fortune. Quattro furono gli album incisi (tra il 1996 e il 2002) e meriterebbero tutti di essere passati al microscopio. ‘Double Medication Tuesday’ viene in genere considerato il loro disco migliore, eppure io non sento differenze nella qualità del songwriting fra questo e gli altri tre: è però il loro album più conosciuto e mi sembra corretto prenderlo in esame per presentarli a chi non li conosce anche se, lo ripeto, ‘Harlan Cage’,‘Temple of Tears’ e ‘Forbidden Colors’ non sono certo da meno.

Rispetto ai Fortune, il discorso è (in linea di massima) più elettrico e hard rocking, con le tastiere meno in evidenza ma sempre ben presenti in un mosaico sonoro che continua ad avere nei Journey i principali ispiratori: “Blow Wind Blow” è una coerente dichiarazione d’intenti, traslando la band di Neil Schon in un clima più drammatico e aggiungendo qualche sfumatura Asia, mentre la successiva “Halfway Home” aggiunge alla ricetta un pizzico di Survivor. “Lola’s in Love” è ambientata in un clima più leggero (e ha qualche sfumatura Toto), “Solitary Dance” è una bella power ballad dal passo felpato, “My Mama Said” torna alle atmosfere tempestose di “Blow Wind Blow”: raffinata e potente. “Dearborn Station” è, ovviamente, le stessa incisa dai Fortune, e a chi non vuole andare a rileggersi la recensione di quel disco, ripropongo qui quanto scritto su questa canzone tempo addietro: ha una melodia divina e potremmo descriverla come più Journey degli stessi Journey oppure come la canzone che i Journey non hanno fatto in tempo a scrivere o magari come un distillato di tutto il meglio che i Journey hanno prodotto: spero di aver reso l’idea… Defend This Heart of Mine” è contraddistinta da un bel ritmo vivace, la melodia luminosa e qualche tocco pomp, mentre “Restless Hearts” parte dall’atmospheric power diventando più elettrica lungo un crescendo sofisticato. “Light Out for Losers” è un perfetto crossover di “Dearborn Station” e “Defend This Heart of Mine”, nel senso che suona esattamente come queste due canzoni intrecciate l’una nell’altra, ma il bello è che l’innesto funziona a dovere (anche se, di primo acchito, può sconcertare…). La splendida ballad “As You Are” è percorsa sa un sax sinuoso, “Turn Up the Radio” si avvolge attorno a un giro di keys hi tech, “Joker On the Kings Highway” chiude l’album con un altro gran crescendo che ha qualcosa del Billy Squier più lirico. Segnalazione d’obbligo per la bonus track dell’edizione giapponese (fortunatamente inclusa nella compilation ‘MTM Volume 6’) intitolata “No Turnin’ Back”, puro atmospheric power con una parte centrale molto heavy.

Mai ristampati, i dischi degli Harlan Cage, tutti però scaricabili da Amazon Music in formato .mp3, da cui la classificazione “in commercio” nel box relativo. Per chi proprio non può fare a meno del CD, ‘Double Medication Tuesday’ è prezzato su eBay dai dieci dollari a salire: saranno soldi ben spesi.

 

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ARTICA

 

 

  • AS IT SHOULD BE (1995)

Etichetta:AMS, Zero Corporation

Ristampa: Escape

Reperibilità:scarsa

 

Di questo unico album degli Artica esistono due differenti edizioni: la prima, uscita nel 1995 per la AMS negli USA e la Zero Corporation in Giappone (con la stessa scaletta); la seconda, nel 2005, per la Escape (con l’aggiunta di una bonus track). Il bello – diciamo così – sta nel fatto che queste tre edizioni hanno tre copertine differenti (nel box trovate quella dell’edizione giapponese), e meno male che il titolo è rimasto sempre lo stesso… Il moniker non è proprio abusato ma comunque risulta preso in carico da più di una band (ce n’è anche una italiana), e allora non è pignoleria specificare che questi Artica sono americani, una meteora nel panorama del rock melodico dato che immediatamente dopo la pubblicazione di ‘As it Should Be’ svanirono nella nebbia di quegli anni bui. Una meteora di notevole luminosità, però, e di cui vale la pena ricordare il fulmineo passaggio nel firmamento dell’AOR.

L’album si apre con “Fantasy”, hard melodico un po’ amorfo con un surplus non sempre giustificabile di tastiere, mentre “It’s Over” vira sull’AOR hard edged tra Journey e Fortune, contraddistinta dagli sparsi tocchi pomp ed una lunghezza eccessiva. Si comincia a ragionare con “You’re Still On Your Own”, col suo tessuto d’atmosfera eppure dinamico: il synth bass danzereccio, le keys ora pop ora pomp, il refrain ruggente. Altrettanto buone risultano “One Night”, che alterna parti melodiche e decisamente Zebra ad un refrain molto elettrico e pomp, e “Hold On”, class metal galoppante avviluppato da tastiere pompose che si scatenano nel bridge e nell’assolo. Dopo un hard melodico di buona fattura intitolato “Since Loving You”, arrivano le atmosfere zeppeliniane trasposte in senso pomp di “Take Me All the Way”, mentre “Girl of My Dreams” parte tempestosa e prosegue a ritmo sostenuto pur impostata su una morbida melodia di marca Journey. La power ballad “Your Love Will Carry Me Home” si apre (ovviamente?) con un pianoforte e sale in un crescendo che ricorda un po’ i Magnum mentre la conclusiva “Let it Show” è un pomp’n’roll vivace e divertente.

Le quotazioni tra eBay e Amazon variano tra gli 11 ed i 40 euro a seconda delle edizioni (quella nipponica, come al solito, spunta i prezzi più alti): esborso ragionevole per poter entrare in possesso di un album tra i migliori fra quelli pubblicati negli anni peggiori per il nostro genere.

 

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BERNIE SHANAHAN

 

 

  • BERNIE SHANAHAN (1989)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:scarsa

 

Bernie Shanahan: chi era costui? Uno dei tanti che ha avuto la sua occasione ma non è riuscito a spiccare il balzo decisivo verso la notorietà, scomparendo nell’ombra da cui era brevemente emerso.

Le prime tracce di vita musicale di Mr. Shanahan risalgono al 1983, quando esordisce con un LP di appena sei canzoni edito dalla minuscola Carroll Records. Passano sei anni e lo ritroviamo con un contratto major per la solita Atlantic, che in quel periodo arraffava a man bassa artisti AOR e band di hard melodico, buttandoli poi sul mercato fidando più su un provvidenziale sguardo della dea bendata che in una promozione decente per farli conoscere ai potenziali acquirenti. Le vendite furono infime e Bernie scomparve come se non ci fosse mai stato (pare sia tornato nel 2007 con un album intitolato ‘You’, ma non potrei giurare che si tratti dello stesso Bernie Shanahan, anche se senza dubbio quel nome è tutt’altro che comune negli States).

Prodotto da Brian McGee e John Luongo, ‘Bernie Shanahan’ godeva di un songwriting (dovuto interamente a Bernie) discreto e nulla più. “Another Lonely Heart” apriva l’album con un rock da FM impostato sulle solite coordinate (Bryan Adams, John Waite, John Parr, qualche ombra Journey) e in quella stessa direzione si dirigeva “Hard Luck and Heroes”, aggiungendo una ritmica funky (e una decisa reminiscenza della “Someday” di B. Adams). “Living a Lie” era una ballad morbidona; apprezzabile l’intreccio elettroacustico, da southern rock patinato, di “Back to the Field”, mentre “Pray For Rain” si risolveva in una power ballad un po’ Fortune, ma inutilmente lunga. Se “The Night Is Never Long Enough” e “No Place Like Home” allargavano il discorso all’hearland rock di matrice Springteeniana, “At the End of the Day” tornava alle alchimie sonore di marca Bryan Adams, “Only Gold” (ballad rarefatta, malinconica, d’atmosfera) rinnovava la connection con i Fortune, “Lost in the Lights of Broadway” esplorava l’r&b tra fiati che impazzano e il piano martellante, “Believe It or Not” chiudeva con una ballad AOR solo per piano, tastiere e voce.

Il capitolo reperibilità deve essere accuratamente diviso tra i supporti: il CD è una rara avis, c’è un folle su Amazon che ne vende una copia per 900 $ (avete letto bene: novecento dollari), ma gli LP e le cassette pare abbondino e i prezzi sono alla portata di tutti. Non è certo un album da fare pazzie per averlo, ma se il genere è di vostro gradimento, vale come minimo un ascolto.

 

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FROZEN GHOST

 

 

  • SHAKE YOUR SPIRIT (1991)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:in commercio

 

Di come nacquero i Frozen Ghost ho già dato conto scrivendo degli Alias (chi non ricorda, può seguire il link). Inizialmente un duo, dopo un paio di album che non avevano colto il successo sperato fuori dal natio Canada (e non è che in casa loro, ‘Frozen Ghost’ e ‘Nice Place to Visit’ avessero comunque fatto sfracelli), Arnold Lanni (in seguito produttore di successo) e Wolf Hassel decisero per questo terzo album di diventare una “vera” band, arruolando Phil X (futuro Triumph e Bon Jovi) come chitarrista e John Bouvette come batterista, e irrobustendo sostanzialmente in direzione rock il loro sound, prima sbilanciato (anche troppo) verso il pop. Il risultato, intitolato ‘Shake Your Spirit’, fu uno splendente trattato di AOR hard edged di cristallina classe, canadese fino al midollo… anche se l’apertura, affidata alla title track, suona più che altro australiana, dato che questo bell’AOR hi tech fatto di chitarre secche e lampi di keys rimanda senza equivoci agli INXS. Il funky ha spazio anche su “So Strange”: trascinante con il suo refrain da arena rock, rifinita dai fiati, con un magnifico arrangiamento variopinto. “Cry (If You Want To)” è una ballad bluesy e cromata, patinata ma percorsa da begli scoppi d’energia, mentre “Shine on Me” è fatta dal più caratteristico AOR hard edged canadese sull’asse Honeymoon Suite / Glass Tiger. Su “Another Time and Place” la pietanza canuck viene insaporita con aromi statunitensi alla Diving For Pearls, tra fascinose sovrapposizioni di chitarre e tastiere intessute di melodia squisita, “Something to Say” ritrova le suggestioni INXS proiettandole su una sorta di anthem sofisticato, con un assolo di violino ed un finale in crescendo vagamente Beatles. I chiaroscuri dell’AOR “Stuck in a Groove” sono esaltati dall’armonica, “Head Over Heels” è una ballad moderatamente power di grande estensione melodica, ma con “Swing to the Rhythm” tocchiamo le vette del sublime: fantastico connubio di potenza e atmosfera intessuta di un refrain leggiadro. Chiude “Doin’ that Thing”, più diretta e rock, con le keys quasi azzerate, dominata da intrecci sofisticati di chitarre.

Tirando le somme: songwriting ispirato, arrangiamenti policromi, melodie deliziose quasi sempre di stampo pop, produzione raffinata, backing vocals femminili camaleontici. Capolavoro, insomma? Di sicuro, una delle più belle espressioni dell’AOR canadese di tutti i tempi.

Shake Your Spirit’ (ultimo album – purtroppo – dei Frozen Ghost) è “in commercio” dato che si può scaricare per 9.49 $ da Amazon Music. Il CD gira sul mercato dell’usato a cifre oneste, tra i dieci e i quindici dollari, ma praticamente solo negli USA e in Canada, quindi chi vuole entrarne in possesso deve rassegnarsi a cercarlo oltreoceano.

 

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JOHN MILES BAND

 

 

  • TRANSITION (1985)

Etichetta:Valentino Records

Ristampa: Krescendo Records

Reperibilità:in commercio

 

Riassumere la variopinta carriera di John Miles in poche righe non è possibile. Titolare di una rispettabile discografia personale, ha prestato la sua opera (come cantante e musicista) a Jimmy Page, Joe Cocker, Alan Parsons e parecchi altri. Concentriamoci invece su quel frammento della sua produzione solista che può interessare chi ama l’AOR. L’approccio al genere comincia praticamente con ‘Play On’ nel 1983, che è però decisamente troppo pop e culmina con ‘Transition’ due anni dopo. Album, quest’ultimo, dalla gestazione travagliata. Miles cominciò a inciderlo facendosi produrre da Trevor Rabin che però, a causa di precedenti impegni, potè prendersi cura solo di due canzoni. Beau Hill produsse soltanto una track, tutto il resto fu messo a punto da Pat Moran, spostandosi tra studi di registrazione a Londra, in Galles e a Hollywood. Pubblicato solo su LP e cassetta nel 1985, venne finalmente trasposto in CD nel 2010 da una label probabilmente russa con l’aggiunta di due bonus track. Questo CD è oggi tanto raro da venire prezzato (quando fa la sua molto sporadica comparsa sui soliti siti) ad una quarantina di dollari, ma ‘Transition’ è regolarmente in vendita su Amazon Music e di copie in vinile ne girano in abbondanza.

Se ‘Play On’ portava semplicemente il suo nome, ‘Transition’ venne intestato alla “John Miles Band”, anche se non è noto se ed eventualmente in che misura l’ex Jethro Tull Barriemore Barlow (alla batteria, ovviamente) e Bob Marshall (basso) intervennero nella stesura delle canzoni. Canzoni che interpretavano benissimo il rock melodico della metà dei Big 80s, a cominciare da “Once in Your Life”, bel mix di Bryan Adams, John Waite e Survivor, fresca e potente come la successiva “Run”, più spavalda e magari anche un po’ più Survivor, in splendido equilibrio fra le chitarre laceranti ed i tappeti di tastiere. “Blinded” era una power ballad drammatica, molto power nel refrain, ma con fini tessiture di keys nelle strofe, mentre “You’re the One” si configurava come una ballad AOR, romantica e d’atmosfera. Anche “I Need You're Love” era una ballad, un po’ Journey, soffusa a tratti, dove le tastiere prevalevano sulle chitarre, ma l’elettricità tornava a crescere con “Hard Time”, vagamente John Parr, con il suo big sound nelle strofe prime del refrain classico e diretto. “Who Knows” impastava i Journey a Huey Lewis nel segno di un pop rock bello tosto, “Don’t Lie to Me” prendeva ottimamente a riferimento Loverboy e Van Stephenson, per un altro pop rock ben ritmato, con qualche tentazione dance. In chiusura, “Watching Over Me” offriva vaghe sfumature prog ed uno strano refrain robotico che rimandano a quanto l’anno successivo Beau Hill (questa è la canzone prodotta da lui) farà sull’esordio di Fiona.

Non un classico, ‘Transition’, ma senza dubbio un perfetto esempio di pop rock e AOR di metà anni ’80, con tutto il fascino di quell’epoca dorata: impossibile da trascurare per chi di quegli anni sente una maledetta nostalgia.

 

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CORPORATE CONTROL

 

 

  • WHATEVER IT TAKES (2021)

Etichetta:Perris Reperibilità:in commercio

Paul Sabu si è alleato con il chitarrista tedesco Marcus Boeltz e il bassista Barry Sparks (Yngwie Malmsteen, Scorpions, Dokken) per questo progetto che prende il nome di Corporate Control. Songwriting e produzione sono condivisi dai tre, ma non spartiti equamente. Mi spiego: è palese che su certe canzoni Paul Sabu ha avuto un influsso molto più forte, sia nel songwriting che nella produzione e (non per caso, direi) queste sono le canzoni migliori dell’album ( l’arena rock bombastic di “Radio”; il riffing minimale e la melodia avvincente di “Vertical Horizon”; il refrain solare di “Not in Our Hands”). Il resto non è malvagio, ma soffre di arrangiamenti non esattamente straripanti di parti strumentali e una produzione asciutta, oltre ad un songwriting che in più di un frangente risulta curiosamente amorfo (“Leaving It Behind” ha un bel ritmo nelle strofe ma resta irrisolta a livello di refrain, le atmosfere cupe della title track e di “Waiting for the Roar” sembrano molto lontane da tutto ciò che Sabu ha fatto, anche se sono caratterizzate da quella sua inconfondibile matrice melodica). C’è poi il problema della voce di Paul: è ancora valido come cantante quando non deve urlare a squarciagola, ma risulta a corto di fiato e molto più rauco e impastato del solito se decide di alzare il volume (come su “No More”). In definitiva, consiglio ‘Whatever it Takes’ solo ai più affezionati fan di Sabu, a cui le tre canzoni più sopra elencate daranno ampia soddisfazione. Chi non lo conosce è meglio che cerchi ‘Heartbreak’ o il primo Only Child per entrare nel mondo di questo artista, straordinario nonostante tutto.

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WORK FORCE

 

 

  • WORK FORCE (1989)

Etichetta:Scotti Bros. Reperibilità:scarsa

 

Questo esordio dei Work Force è una rarità, diciamo così, parziale. Pubblicato dalla Scotti Bros. nel 1989, le sue quotazioni su eBay risultano decisamente elevate: 20 dollari per l’LP, circa 50 per il CD, con l’edizione giapponese che veleggia intorno ai 180 biglietti verdi. Il disco di vinile venne stampato però anche in Italia, la Scotti Bros. aveva all’epoca un accordo di distribuzione con la CGD (sotto la cui ala uscì anche l’unico album dei Roxanne) così che capita (ma non di frequente) che una copia finisca in vendita presso la nostra filiale di eBay, e generalmente a prezzo tutt’altro che folle.

Cosa possiamo dirne? Che è un gran bel disco, innanzitutto. Meritevole di ristampa molto più di tanta roba che le etichette specializzate spesso ci offrono. Della band poco si sa, il nucleo fondamentale era costituito dai tre fratelli Henry (Rick, Ralph e Scott) che si occupavano anche della produzione (e molto bene), con Ron Kimball alla voce.

I’m a Mess” apriva le danze con un AOR sofisticato e allegro, fra giri di tastiere e riff essenziali di chitarra, un po’ Loverboy e un po’ Van Stephenson. A seguire, c’erano i bei chiaroscuri alla John Waite di “Hold on Tight”, poi la band ingranava la quarta sparando quattro canzoni palesemente ispirate dal boogie rock dei Bad Compani versione Brian Howe: “Restless”, sculettante e dal refrain diretto; “Memory of You”, più melodica e con linee vocali pop; “Rockin’ to Win”, bella serrata, tramata di tastiere programmate col sequencer in puro stile Loverboy; “Love the Hard Way”, ben risolta in chiave arena rock. “Somethin’ for Nothin’” veleggiava in direzione Survivor, con le sue keys d’organo che saettavano sul grattare delle chitarre, “Give It All You Got” guardava di nuovo ai Bad Company, ritmata ma sempre splendidamente melodica (il top del disco?), “One More Tomorrow” era quasi una power ballad, ancora un po’ Survivor. Gran finale con il raffinato AOR di  “Higher Standard”, atmosfera sublime fra Toto e John Parr.

 I Work Force sparirono dopo la pubblicazione di questo disco, ricomparendo nel 2004 con ‘Wrecked, Welded Wet’ che – confesso il mio peccato – non ho mai ascoltato e non saprei dirvi se fu registrato all’epoca oppure era il classico album inciso nei primi anni ’90 e finito in naftalina per colpa del grunge. Se ne scrisse abbastanza bene, ma già ‘Work Force’ basta a garantire un posto ai suoi autori negli annali del rock melodico.

 

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MINEFIELD

 

 

  • MINEFIELD (2021)

Etichetta:autoproduzione Reperibilità:in commercio

 

Non sono esattamente una “superband”, ma la line up di questi neonati Minefield ha senza dubbio un certo spessore. Brandon Fields (voce e chitarra, omonimo del noto sassofonista dei Tower of Power) è il meno conosciuto dei quattro, mentre Todd Kerns lo ricordiamo al basso con Slash negli ultimi album con i Cospirators e come frontman dei Toque, il pelato Matt Starr è un batterista che non ha più bisogno di presentazioni e l’altro chitarrista Jeremy Asbrock fa parte da tempo della backing band di Ace Frehley, ma ha lavorato anche per Gene Simmons e i Mr. Big. Questo debutto autointitolato com’è? Buono, molto buono, decisamente buono.

Alone Together” apre le danze con un riff massiccio a cui segue una chitarra funk ed un refrain solare: classico ma con una patina moderna che ricorda (non credo sia un caso) le atmosfere che Slash ha elaborato assieme a Myles Kennedy. “Seventh Heaven”, invece, pur col suo riffing di matrice AC/DC mi ha ricordato i Badlands del primo album, mentre “Home” guarda in direzione Led Zeppelin: elettrica, divisa fra atmosfere incantate e riff taglienti che preludono ad un refrain fascinoso. “Rockstar” ripete (molto bene) la formula di “Alone Together”: riffone alla Guns N’ Roses, la chitarra funk che scandisce le strofe e poi la melodia nel refrain. “My Disease” arretra fino agli anni ’70, col suo bel mix di parti lente e potenti. “All American Man” è di nuovo su base AC/DC (gli AC/DC come li rifacevano negli USA nei Big 80s), “So Help Me” sfiora i territori del metal californiano, sinuosa e con reminiscenze dei Van halen era Roth e magari del David Lee Roth solista. I Black Crowes fanno capolino nel refrain di “Hide Your Lyin”, ma “Lady Danger” è da urlo, prendendo spunto da quanto i Ratt fecero sull’ultimo ‘Infestation’, con tanto di refrain glam e sulla stessa lunghezza d’onda si posiziona la conclusiva “Day by Day”, più martellante e hard rock.

Temo che di ‘Minefield’ non se ne parlerà molto in giro, perché hanno deciso di pubblicarlo in proprio, e senza il supporto di una label la promozione fuori dal web è quasi sempre pari a zero, ma è una delle cose migliori che abbia ascoltato dal principio dell’anno e merita di essere segnalato a chi ama l’hard rock in bilico fra gli ’80 ed i ’70.

 

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ROUGHHOUSE

 

 

  • ROUGHHOUSE (1988)

Etichetta:Columbia Reperibilità:scarsa

 

La storia dei Roughhouse comincia con un moniker diverso: Teeze. È con il nome suddetto che nel 1985 esordiscono per una label indipendente, sfornando un album fatto di glam metal selvatico e urticante. Nessuno gli bada e tre anni dopo, agguantato un contratto addirittura con la Columbia, cambiato il nome e un paio di membri, abbandonano il look ultra glam alla Crüe prima maniera e pubblicano un disco che segue sempre il filone del metal californiano, ma con qualche distinguo rispetto al recente passato.

Prodotto da Max Norman, ‘Roughhouse’ guardava in più di un episodio alla tradizione hard rock yankee del decennio precedente. “Don’t Go Away” suonava difatti moderatamente sleaze nello stile degli Starz, mentre il party rock “Tonite” esibiva riff secchi che facevano tanto Kiss. “Love is Pain” era una buona ballad elettrica, con il refrain pomposo ed il crescendo disegnato dalle tastiere ad alleggerirne il clima un po’ cupo, il ritmo galoppante di “Can’t Find Love” rimandava di nuovo agli Starz, la divertente “Love or Lust” si uniformava di più agli standard del glam metal anni ’80, allo stesso modo di “Teeze Me Pleeze Me”, dove i Roughhouse suonano come dei Poison meno ammiccanti. “Midnight Madness”, recuperata dal disco dei Teeze, è diretta e fa molto primi Motley Crüe, “Without You” è quasi una power ballad, sempre in bilico fra i ’70 e gli ’80, con un bel refrain pop. “Justify”, più metallica e lineare, precede “Racin’”, su cui pure aleggia lo spettro dei Crüe, segnata da belle vocals molto glam. In chiusura, “Fantasy”, saltellante, divertente, col suo bel giro di chitarra avvolgente sul riffing grattante.

Il suono di ‘Roughhouse’ era decisamente essenziale, poche le sovrincisioni e scarna la produzione: fu una scelta o una necessità (leggi: budget ridotto all’osso)?

Capitolo reperibilità: ‘Roughhouse’ non è mai stato ristampato, il CD gira sul mercato dell’usato a cifre consistenti (circa 80$ su eBay, 55$ su Amazon), più economico il vinile ma (paradossalmente) ancora più difficile da avvistare del CD. Più oggetto da collezione che lost gem, mi pare, ma una ristampa non sarebbe fuori luogo.