recension

 
 

AORARCHIVIA

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HELEN HOFFNER

 

 

  • WILD ABOUT NOTHING (1993)

Etichetta:Magnet Reperibilità:discreta

 

Che cosa è, precisamente, una lost gem? L’espressione viene usata in genere per etichettare un album di grande valore che: 1) pur pubblicato da una major oppure da una indipendente di buoni mezzi, non ha avuto successo; 2) è rimasto in un cassetto e magari è uscito anni e anni dopo la sua incisione. Quello che accomuna le lost gem, però, è il fatto che sono tutt’altro che “perdute”, ossia che tra i fan del particolare genere musicale a cui appartiene l’album sono – paradossalmente, si potrebbe sottolineare –  sempre più o meno note. Pensiamo al primo album degli Aviator: all’epoca vendette forse cinque copie ma quale appassionato di AOR, oggi, non lo conosce e (giustamente) lo venera? C’è però un livello ulteriore da considerare, quello degli album che non solo non ebbero successo, ma dal popolo dell’AOR sono inspiegabilmente ignorati o, meglio, non riconosciuti non tanto come lost gem ma proprio come prodotti discografici del nostro genere. Questo esordio di Helen Hoffner è un perfetto rappresentante della categoria. Uscì nel 1993 per un’importante label inglese, ricevette una discreta promozione ma fuori dal circuito del rock melodico (che in quel torno d’anni, come ben sappiamo, boccheggiava, prossimo all’estinzione), fu un flop totale ed è attualmente reperibile sul mercato dell’usato in quantità e a prezzo vile, ma nessuno l’ha inserito su heavyharmonies, nessuno lo cita o ne parla: non perché venga giudicato una ciofeca (su heavyharmonies, ovviamente, vengono iscritte anche le ciofeche) ma perché nessuno – pare – sa che l’unico album di Helen Hoffner non soltanto è un album di rock melodico, ma è un eccellente album di rock melodico. Una lost gem al quadrato, in definitiva. Se poi mi chiedeste il motivo che potrebbe aver tenuto il popolo dell’AOR lontano da ‘Wild About Nothing’, potrei azzardare il fatto che miss Hoffner è britannica, veniva da un paio di band pop (prima The Astronauts, poi The Marines, che fece da supporto in un tour di Kylie Minogue) e l’album venne prodotto da Hugh Padgham, che ha sempre lavorato con artisti new wave, pop e rock mainstream e con l’AOR non aveva mai avuto a che fare prima di questo disco. Ovviamente, come tutti i grandi produttori, Padgham è perfettamente in grado non solo di lavorare su qualunque genere musicale ma – se l’artista collabora – di ottenere un prodotto superiore alla media, e considerato che la pattuglia degli esecutori era già di per sé fenomenale (Pino Palladino e Vinnie Colaiuta come sezione ritmica, Dominic Miller alla chitarra, Bob Marlette – anche songwriter – e Michael Scherchen alle tastiere), la collaborazione da parte di Helen non avrebbe dovuto essere esorbitante per giungere ad una raccolta di canzoni di buona caratura. E la nostra Helen faceva molto bene la sua parte, mettendo in mostra una bella voce strascicata e con un piacevole velo rauco, sexy e piccante, che faceva pensare quasi ad una versione al femminile di Bryan Adams.

La title track inaugura l’album con un bell’AOR nello stesso tempo deciso e levigato, mentre “Summer of Love” (primo ed unico singolo estratto, abbinato all’inevitabile videoclip che potete vedere su YouTube) è una ballad dalla grande estensione melodica: buone canzoni, ma con “Sacrifice” si sale decisamente più in alto, big sound di grande suggestione fra tastiere variopinte e chitarre western in sordina, e ancora più su vola “Holy River”, con il suo atmospheric power in crescendo scandito dal ritmo sensuale del basso. Scatenata, molto elettrica (e anche molto Bryan Adams) è “Is There Anybody Out There?” e ben riuscita la cover del classico di Lou Reed “Perfect Day”, impostata su un denso arrangiamento di tastiere e tramata di begli scoppi d’energia. La freschezza stile John Waite di “Lovers Come, Lovers Go” precede l’FM rock “Whispers In The Wind”, mentre “Papa’s Car” ritorna dalle parti di Bryan Adams, elettrica e anthemica con un refrain che è puro arena rock. “Say A Prayer” è una ballad dalle sfumature bluesy e soul, “This is The Last Time” allarga un po’ il discorso all’heartland rock e “Edge Of A Dream” chiude le danze con una power ballad dal gran crescendo.

Ho bisogno di specificare che la produzione è sontuosa e la qualità audio superba? E che al prezzo a cui lo vendono tra eBay e Amazon è praticamente regalato?

 

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ROBERT HART

 

 

  • ROBERT HART (1992)

Etichetta:Hollywood Records Reperibilità:scarsa

 

L’ultimo album di Robert Hart, ‘Pure’, l’ho recensito sul numero di aprile scorso di Classic Rock, e confermo qui quanto ho scritto mesi fa: un album superbo, tra gli highlight di questo disgraziatissimo 2020 nell’ambito del più puro AOR anni ’80. Ed è un peccato che Hart non abbia curato maggiormente la sua produzione solista: ad oggi annovera appena tre titoli, con questo ‘Robert Hart’ che si contende la palma di top album con il recentissimo e (lo sottolineo ancora una volta) eccellente ‘Pure’ (che però – debbo sottolineare anche questo, e non per la prima volta – è uscito per la Escape, label che ha adottato da tempo strategie promozionali sciagurate e al limite del suicidio). Sul disco uscito da poco sono stati Tommy Denander e Steve Overland a dirigere le operazioni, mentre nell’ormai lontano 1992, chi assistè Robert Hart fu niente meno che Russ Ballard, producendo, scrivendo otto canzoni su dieci con il cantante e suonando chitarre (con, fra gli altri, Dave Colwell, ex A.S.A.P. e Samson e futuro Bad Company)  e tastiere.

Si parte benissimo con “Heart And Soul”, che bilancia alla perfezione Bryan Adams e i Tyketto, mentre “Angel” è una ballad gloriosa tutta acustiche e tastiere, caratterizzata da un lento crescendo. “Ridin’ On The Wind”, drammatica e intensa, parte dall’atmospheric power diventando elettrica e potente, seguita da un’altra ballad, “I Don’t Want To Be Here When You’re Gone”, che ha un inizio quasi sommesso, incendiandosi nella seconda parte. “Boys On The Corner” fu il singolo scelto per lanciare il disco e non fu una buona scelta, dato che inclina decisamente sul country, con un refrain degno di Huey Lewis: non rappresenta affatto i contenuti dell’album e suona del tutto fuori luogo nel contesto AOR di ‘Robert Hart’. “Fooled Around And Fell In Love” (cover di Elvin Bishop) e “Someone To Watch Over Me” virano verso il soul blues, più robusta la prima, più lenta ma con begli scoppi d’energia e una sezione fiati la seconda. L’AOR hard edged “Better Than The Rest” rimanda ai Foreigner (corretti con uno spruzzo di Bryan Adams, magari), e sulla stessa scia segue “Running Man” (qui il cocktail viene aromatizzato con una punta di Survivor). Gran finale con “A Little Love Is Overdue”, firmata da Chris Winter: con le sue tinte r&b sul telaio di robusto AOR non può che ricordare analoghe stesure dei Distance.

Robert Hart’ è stato ristampato nel 2013 dalla Escape come doppio CD assieme al primo album 'Cries and Whispers' ma questa ristampa risulta più rara e cara dell'edizione originale, che se pure non gira in quantità tra eBay e Amazon di solito viene offerta a prezzo onesto: per chi ama il grande AOR di fine anni ’80 e la voce camaleontica del suo artefice, è un acquisto quasi obbligato.

 

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BECKETT

 

 

  • BECKETT (1991)

Etichetta:Curb Reperibilità:scarsa

 

Ogni volta che si avvia un discorso sulla musica di Peter Beckett, pare sia inevitabile includervi una lunga digressione sui Player e, particolarmente, sul loro bassista diventato un divo delle soap opera. Ribellandomi a questa consolidata abitudine, qui accenno appena alla militanza del Nostro nella suddetta band (peraltro di modesto successo negli USA, e fautrice di un soft rock tutt’altro che memorabile) e attacco invece dai Think Out Loud, in cui Beckett univa le proprie forze a quelle di Steve Kipner nel 1988, per un album bello e sfortunato (ce ne sarà un altro solo nel 1997). Non che il suo esordio solista abbia riscosso più favori, tre anni dopo. Uscì per la Curb, nel periodo in cui la label (specializzata nella musica country) cercava di entrare nel mercato dell’AOR (con, fra gli altri, gli Eyes e Berry Mardones). I riscontri furono modestissimi per la scarsa promozione (la politica della Curb riguardo l’AOR si poteva sintetizzare – mutuando un’espressione in uso nella missilistica bellica – con la frase “fire and forget”: per approfondire la cosa, rimando alla recensione degli Eyes) e la decisione di Beckett di non supportare il disco suonando dal vivo: comunque, si era nel nefasto 1991 e non c’è altro da aggiungere.

L’album avrebbe meritato un riscontro faraonico, essendo una di quelle opere raffinatissime tipiche dell’AOR hard edged fine anni ’80, contraddistinte da una produzione gigantesca, uno stuolo di esecutori da urlo (tra gli artefici delle parti di chitarra ci sono, fra gli altri, Dan Huff e Michael Thompson) e un songwriting spettacoloso.

Si comincia con “I Told You So”, dinamica e potente su una ritmica vagamente danzereccia ed un superbo refrain anthemico, proseguendo benissimo con “My Religion”, fatta di belle sciabolate di chitarra su un tessuto funky d’atmosfera, con un refrain melodico abbastanza Foreigner. Non mi pare fosse il caso, invece, di proporre la milionesima (o giù di lì) versione di “Brother Louie”, che comunque Beckett interpreta impeccabilmente, dandole un certo smalto soul. La melodia sublime nello stile dei Drive, She Said dell’AOR cristallino “Hangin’ By A Thread” precede l’arena rock “The Big Hurt”, spettacolare, a tratti ruvido e molto Def Leppard (quantomeno nello spirito). “How Can The Girl Refuse” è impostata su un big sound alla John Parr (ma su un registro più elettrico), mentre la gloriosa “Not A Day Goes By” è una power ballad che impasta felicemente Journey, Danger Danger e Giant. Ancora AOR con “The Bottom Line” (incantato e in crescendo su un refrain solare) e “Still Of The Night” (elettrica e di nuovo molto John Parr), con la power ballad “Falling From Grace” a chiudere degnamente fra atmosfera e potenza. Nell’edizione giapponese (che ha anche una copertina leggermente diversa da quella americana) c’era un’altra canzone, “Until You Let Go”, una buona ballad cantata in duetto con Jeannette Clinger.

Ristampato da AOR Heaven nel 2011 con l’aggiunta di ben cinque bonus track (ma, curiosamente, manca proprio la bonus track dell’edizione giapponese), è tornato rapidamente ad essere una rara avis sul mercato dell’usato, in entrambe le edizioni: su eBay gira (quando compare, e non accade spesso) a cifre molto variabili, fra i venti e gli oltre cento dollari. Una nuova ristampa non sarebbe una cattiva idea.

 

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TOKIO MOTOR FIST

 

 

  • LIONS (2020)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 Tralasciando per carità di patria le dichiarazioni rese alla stampa (dichiarazioni talmente roboanti ed esagerate da superare ampiamente la soglia del ridicolo, sforando nel patetico o nel grottesco, decidete voi) limitiamoci a valutare il secondo album dei Tokio Motor Fist sulla base di ciò che questa superband effettivamente ci offre. Che i TMF abbiano diritto  all’etichetta di “superband” sembra pacifico, considerato che i suoi membri sono Ted Poley (Danger Danger), Steve Brown (Trixter), Greg Smith (in passato con Ted Nugent, Rainbow e Alice Cooper) e Chuck Burgi (Rainbow e Joe Lynn Turner, fra i tanti). Ma non si valuta un ensemble in base al curriculum vitae dei suoi componenti o a ciò che questi hanno fatto in ben altri contesti trenta e passa anni fa. Tralasciando anche il fatto innegabile che Ted Poley è ormai giù di voce, questo ‘Lions’ (prodotto dallo stesso Steve Brown e mixato da Bruno Ravel) è la fiera del già sentito, offrendo un impasto Danger Danger / Def Leppard sostanzialmente privo di spunti. In tutte le undici track non c’è un solo refrain, non dico memorabile, ma che perlomeno si riesca a ricordare dieci secondi dopo la fine della canzone e qualche tentativo di uscire dall’ovvio si arena inesorabilmente contro un tessuto melodico debole e incerto, come nella title track, ballatona pomposa che parte con un giro di tastiere molto interessante ma si affloscia nell’ovvietà più bieca. “Sedona” pure promette bene con i fiati e l’atmosfera r&b, ha delle strofe accattivanti ma quando si arriva al coro pure lei si sgonfia come un pallone bucato (e sarebbe pure il caso di tralasciare il bruttissimo assolo di sax che adorna questa canzone, dovuto nientemeno che a Mark Riviera, il quale deve però essersi presentato in studio ubriaco o strafatto o con un occhio all’orologio, risolvendo la sua pratica con l’emissione di una serie di squittii striduli e inconcludenti, registrati oltretutto alla meno peggio). Va meglio nel vivace clima Van Halen di “Decadence on 10th Street” e buone pure le rimembranze Danger Danger di “Winner Takes All”: troppo poco, comunque, per promuovere un album non malvagio, ma noioso e inutile. Che ci si potesse aspettare chissà poi cosa dalla superband in discorso è opinabile: non tutti i reduci dei Big 80s si sono mantenuti in gran forma e se certi continuano a sfornare ottima musica (Paul Sabu e Robert Hart, tanto per fare due nomi) altri sono ormai arrivati alla frutta e farebbero meglio a limitarsi ad andare in giro a suonare i vecchi successi anziché tentare la sorte con album soporiferi che soltanto qualche fan assatanato potrà trovare interessante.