AORARCHIVIA

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HEAVY BONES

 

 

  • HEAVY BONES (1992)

Etichetta:Reprise Reperibilità:scarsa

 

Ogni movimento o fenomeno artistico si sviluppa generalmente lungo un percorso ben determinato, seguendo traiettorie che evolvono quasi sempre con precisione geometrica. Ci sono i precursori, quelli che gettano nella mischia idee e suggestioni, i semi che germogliano; il fermento iniziale, libero, incontrollato ed anarchico; l’esplosione a livello di popolarità che consacra un numero ristretto di figure preminenti le quali finiscono per rappresentare ciascuna un aspetto del fenomeno; l’alluvione di seguaci che si limitano più che altro a riproporre quanto le figure preminenti hanno canonizzato e standardizzato, inflazionando il mercato fin quasi alla saturazione e portando allo stallo creativo. Arrivato a questo stadio, il movimento si trova più o meno ad un punto morto, e può succedere praticamente qualunque cosa. Ci può essere un’iniezione di idee ed energie che ridà fiato alle trombe; una lenta, insopportabile agonia; una sopravvivenza evanescente e comatosa; oppure un’eutanasia molto poco compassionevole. All’AOR è toccata la quarta possibilità. Tra il 1992 ed il 1993, le majors americane decisero che il periodo aureo del rock melodico era finito e lo cancellarono brutalmente con un tratto di penna dai loro cataloghi, per dare spazio prima al grunge ed all’industrial e poi al rinnovato punk melodico. Avevano torto o ragione? L’AOR era davvero arrivato al capolinea? Che l’originalità fosse diventata merce rara, è un fatto innegabile. Tutti suonavano più o meno la stessa roba, copiandosi a vicenda senza pudore. I pochi che cercavano di fare qualcosa di diverso dal solito (qualche nome? Jay Aaron, I,Napoleon, Diving For Pearls, Warp Drive, Tall Stories, Mark Ashton, T-Ride), erano semplicemente ignorati da un pubblico che insisteva a consumare voracemente quanto bands calate fino al collo nell’ortodossia gli serviva. Bisogna però osservare che le proposte migliori non si limitavano a ricalcare gli stilemi in voga, ma andavano oltre: ne distillavano lo spirito, riproponendolo in una forma squisita, forse estenuata ma di certo superba e sfarzosa. Tutto ciò ha un nome: decadenza. Non si crea più nulla di nuovo, ci si limita a perfezionare e tirare a lucido quanto c’è già, fino a farlo risplendere in maniera accecante. Gli esteti del movimento apprezzano, gli altri storcono il naso. Il frutto tardivo è sempre il più dolce, si sa, ma talvolta il sapore è troppo ricco, carico, intenso: può sfiorare il nauseabondo. Occorre una grande misura per gestire il raccolto nella stagione avanzata, quando l’autunno si avvicina. Certe bands lo hanno fatto in maniera mirabile, dandoci a mio parere le cose più belle che quel genere musicale chiamato melodic rock abbia generato: Bad English, House Of Lords, Giant, Unruly Child. Gli Heavy Bones appartengono sia anagraficamente che per intenti alla decadenza più gloriosa. Il loro unico disco uscì nel 1992 e conteneva dodici canzoni che riassumevano con implacabile lucidità tutto quanto l’hard rock melodico aveva espresso nella sua tarda stagione. Non era creazione, ma una celebrazione consapevole e intensamente vissuta, dove nulla era lasciato al caso, la produzione era tirata allo spasimo, ogni elemento veniva accuratamente calibrato per dare una piacevole, confortante sensazione di familiarità all’ascoltatore. Un disco senza emergenze né sorprese, dove si puntava innanzitutto all’esecuzione, per dare di quegli stilemi straconosciuti e ampiamente rimasticati un’interpretazione quanto più sofisticata e raffinata possibile. L’approccio ad opere del genere è privo di mezze misure: o ti entusiasmano, o ti lasciano freddo e indifferente come un sasso. Hanno un che di estremo, non sono dirette all’ascoltatore occasionale e meno che mai all’infaticabile macinatore di canzoni da top ten, (categorie che in quel 1992 si erano già schierate dalla parte di Pearl Jam e Nirvana), piuttosto si rivolgono ai die hard fans, a quelli che dopo dieci anni non si erano ancora stancati di ascoltare e sopratutto riascoltare quel genere che aveva ormai i minuti contati, a coloro che chiedevano AOR che fosse esplicitamente tale, niente esperimenti, niente “stranezze”, niente contaminazioni, ma neanche cover sotto falso nome, plateali scopiazzature, le solite canzoni di Ratt, Def Leppard o Journey malamente riverniciate. Insomma, una rappresentazione allestita per palati fini che non si accontentavano di riascoltare alla meno peggio le solite battute, ma sapevano apprezzare la classe ed il virtuosismo di un’interpretazione che solo dieci anni di palcoscenico potevano dare, e servite con una sorta di leggerezza indifferente, quella di chi riesce a fare con la massima facilità le cose più difficili. Perché questo disco si presta a qualunque genere di ascolto: casuale e distratto o più intenso e consapevole. Potete prenderlo come un semplice disco di hard rock e rimanere comunque perfettamente soddisfatti, oppure sprofondare nei suoi meandri e coglierne le sfumature più riposte, il delizioso gioco che la band imbastisce (quanto consapevolmente? E chi lo sa!).

E quello che rende forse ancora più strepitoso il tutto sta nel fatto che gli Heavy Bones non erano una band composta per intero da professionisti scafati, da vecchie volpi del music business. L’unico personaggio ben noto al grande pubblico era l’ex Quiet Riot e WASP Frankie Banali; il chitarrista Gary Hoey pareva non avesse mai avuto esperienze di un certo livello, il bassista Rex Tennyson veniva da due bands sicuramente non di prima categoria come Allegiance e Hellion, mentre il singer Joel Ellis aveva inciso per la prima volta appena tre anni prima con i Cats In Boots. Ma qui, guidati dal drumming fenomenale di Frankie Banali, i tre novellini diventano all’improvviso giganti. Gary Hoey si rivela un chitarrista dalla versatilità prodigiosa, capace di passare dal metal più ringhioso al rhythm & blues senza battere ciglio. Rex Tennyson spalleggia la batteria con autorità e potenza e Joel Ellis dimostra di essere quel grandissimo cantante che la prova precedente con i Cats In Boots aveva fatto sospettare ma non provato fino in fondo. Definirlo la fusione perfetta di Michael Matijevic (Steelheart) e Midnight (Crimson Glory) può dare solo un’idea (e molto vaga) della sua padronanza tecnica accoppiata ad un’espressività spettacolosa. La produzione di Richie Zito fa il resto, regalando alla band un sound gigantesco, di quelli che nel nostro genere  - e non solo - sono ormai diventati merce rarissima (e per un motivo molto semplice se consideriamo che ‘Heavy Bones’ è il frutto di sei mesi di registrazioni: al giorno d’oggi, chi può permettersi sei mesi di fila in uno studio per incidere un album?).

Invece di cominciare dal principio, andiamo subito al brano numero sei, “Where eagles fly”, perché è quello che meglio riassume e condensa il teorema sonoro di questa band. Un approccio superficiale alla canzone porterebbe a considerarla la solita rapina al supermarket più saccheggiato degli anni ’80, quello che porta l’insegna dei Led Zeppelin.  Ma qui c’è molto più che qualche riff á-la-Page ed un cantato planteggiante: sono sette minuti di celebrazione di quell’hard rock zeppeliniano con cui ci deliziarono Kingdome Come, Badlands, Bonham, Whitesnake e Crimson Glory e gli Heavy Bones sintetizzano con una lucidità straordinaria, dividendo il pezzo praticamente in due parti, una prima scandita dalle tastiere e da tre chitarre acustiche, una seconda aperta dal tuono della doppia cassa di Frankie Banali e da un riff parente molto prossimo di quello di “Kashmir”. È un’apoteosi di quell’estetica fatta di una grandeur metallica e barocca ed una dolcezza bucolica che meglio di tutti espressero i Kingdome Come e qui rifulge davvero in maniera abbagliante ed esplosiva, si ha quasi la sensazione che questa canzone sia l’ultima, definitiva parola sull’argomento, che dopo “Where eagles fly” non ci possa essere che il silenzio (e, dopo tutto, così è stato…). Ma i Led Zeppelin non erano solo grandeur e leggiadria ed il loro aspetto più fisico e sensuale viene omaggiato da “Your love won’t let me down”, retta ovviamente da un riff cangiante e superamplificato e dalla voce di Joel Ellis, con un coro come una ruvida carezza ed un assolo strepitoso in cui Gary Hoey rende omaggio anche a sua altezza Neal Schon ed un finale che è tutto una tempesta di chitarre elettriche. E pure una tempesta pare che annunci l’iniziale “The hand that feeds”, la batteria come un tuonare lontano, le chitarre che lanciano saette, il temporale si scatena con un serratissimo heavy metal molto Skid Row su cui Joel ricama con un cantato da maniaco degno del miglior Ozzy, mentre “4:AM T.M.” ha un prologo morbido e traditore, dato che è seguito da un riff che cade addosso come un mattone di piombo, lento ed imponente, facendo pensare di nuovo agli Skid Row e a dei Motley Crue più raffinati, pesanti e maligni, con un Ellis ancora da urlo. “Turn it on” è una power ballad molto power, che suona come un perfetto melange di Whitesnake, Tall Stories e Surgin’, più soft suona invece la deliziosa “Anna”, AOR appena tinto di folk, come dei Nelson più elettrici, a cui fa seguito il class metal cupo e lirico "Dead end St.". Il breve strumentale “Enormodrome” (scritto da Gary Hoey con Nuno Bettencourt, unica incursione di un songwriter esterno alla band), un saggio spettacolare di potenza ed atmosfera, prelude a “The light of day”, che suona come una miscela di Ratt e Firehouse impastati, fusi e portati al calor bianco, un class metal veloce e incalzante come un martello pneumatico. Si riprende il fiato con “Beating heart”, una sensibile ballad  elettroacustica, poi “Summers in the rain” ci immerge in un’atmosfera suadente e notturna, un voodoo blues insinuante, beffardo e malizioso, con un apice convulso e tumultuoso e chiude l’elettricità di “Where the livin’ is easy”, sopraffino hard rhythm & blues che cita felicemente i vecchi Van Halen  (la band descrive questa canzone nelle stringate note che accompagnano ogni brano come: Glenn Miller fatto d’acido…).

La vita degli Heavy Bones fu brevissima, ma pare non sia stato tanto il difficile clima musicale a condizionarne il destino, quanto la tossicodipendenza di Joel Ellis, che sembra non riuscisse a cantare dal vivo più di un paio di canzoni prima di crollare sul palco, strafatto solo Dio sa di cosa. Frankie Banali fu il primo ad andarsene, poi salutò anche Gary Hoey e gli Heavy Bones svanirono come nebbia al sole (oppure, considerato il periodo storico, come un castello di sabbia sotto la pioggia).

Ricordo che in un'intervista rilasciata poco dopo l’uscita dell’album, Joel Ellis dichiarò che la band si ritrovava “un armadio” di canzoni incise (e dopo sei mesi passati in studio, non si può che credergli). Tra tante ristampe inutili e raccolte di outtakes e materiale inedito di bands insignificanti, una selezione di unreleased tracks degli Heavy Bones sarebbe manna dal cielo.

 

P.S.

Questa recensione è dedicata a Paolo, per la fiducia dimostrata.

 

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JOE LYNN TURNER

 

 

  • RESCUE YOU (1985)

Etichetta:Elektra

Ristampa:Wounded Bird

Reperibilità:buona

 

Trovare un leitmotiv alla carriera di Joe Lynn Turner non è facile, ma si può riassumerla abbastanza efficacemente con quel modo di dire: l’uomo giusto nel posto sbagliato. Dopo gli Ezra ed i Fandango, era arrivata la grande occasione con i Rainbow, ma la band di Ritchie Blackmore era già in fase di smobilitazione, e comunque i riscontri non furono mai faraonici, al punto che Ritchie non ci pensò troppo a metterli in naftalina e tornare con l’odiato Ian Gillan nei Deep Purple per ramazzare un po’ di quattrini mediante una reunion di cui, tutto sommato, nessuno sentiva particolarmente bisogno. Joe si ritrovò a piedi e tentò la carta solista con questo disco, dopo (pare) aver rifiutato allettanti offerte da parte di Survivor e Toto. Con una support band di grande spessore (Al Greenwood, Chuck Burgi e Bobby Messano) e la produzione del maestro Roy Thomas Baker, registrò questo ‘Rescue you’, che però non soddisfece le aspettative di successo covate da Joe, al punto da indurlo a passare per un paio d’anni dall’altra parte della barricata, lavorando come songwriter per Lee Aaron e Bonnie Tyler. Ed è proprio il songwriting il punto di forza di ‘Rescue you’ (ristampato nel 2004 dalla Wounded Bird), dato che non c’è niente di nuovo qui rispetto a quanto si faceva nell’AOR di metà anni 80, Joe (e Al Greenwood, suo partner nella stesura delle canzoni) si allinea perfettamente allo stile degli act più in voga, così “Young heart”, “Endlessly”, “Eyes of love” sono squisite variazioni su base Journey, come pure “On the run”, più ruvida ma dove il chitarrismo del bravo Bobby Messano riesce meglio a replicare (fin quasi alla clonazione) quello di Neal Schon. “Losing you” è un pregevole melange Toto/Foreigner, basata su un riff secco e bordate di drum machine, “Feel the fire” è quasi un rhythm & blues hi tech, con i fiati, una ritmica martellante ed un clima vagamente pomp che richiama alla lontana i Loverboy. “Soul searchers” è un pezzo d’atmosfera, passo felpato e coro pomposo, con qualche eco dei Rainbow come su “The race is on”, dove si strizza l’occhio anche ai Survivor. La band di Jim Peterick viene presa a modello con più convinzione su “Get tough”, dura e ritmata, e sulla title track, in un clima più heavy e pomp.

Nel 1987, Joe formò una nuova band che vedeva tra i ranghi ancora Al Greenwood, poi Tony Bruno, Bruno Ravel e Chuck Bonfante (curiosamente, tutti futuri Danger Danger e/o Saraya), ma il progetto venne accantonato quando la Elektra gli propose di fare squadra con Yngwee Malmsteen. Joe dovette credere che dopo anni di black out aggregarsi ad uno dei nuovi idoli della chitarra costituisse un’occasione d’oro per ripresentarsi al pubblico, ma non aveva fatto i conti con l’ego ciclopico di quel pallone gonfiato svedese convinto di essere la reincarnazione di Paganini. Se in studio le cose – bene o male – funzionarono (e non devo essere stato l’unico a pensarlo, dato che ‘Odissey’ è il disco dei Rising Force che ha venduto meglio), sul palcoscenico la convivenza con Yngwee si rivelò impossibile: Joe riusciva a cantare appena qualche verso facendosi largo a fatica tra le caterve di assoli logorroici e masturbatori che il suo compagno vichingo considerava componente necessaria e sufficiente dei propri show. Archiviata questa (brutta) esperienza, Joe venne riconvocato da Blackmore, stavolta per unirsi ai Deep Purple. Per i dettagli su ‘Slaves and masters’ potete seguire il link: un gran bel disco, che però uscì sotto il moniker sbagliato. Con il tramonto delle fortune commerciali dell’AOR, Joe si ritrovò occupatissimo, incidendo come un forsennato – sotto il proprio nome, in coppia, con band e cover band assortite – un numero spropositato di album che temo trovino la loro ragione principale nella necessità di far quadrare le sue finanze.

In definitiva: nonostante una voce superlativa e notevoli doti come songwriter (ultimamente un po' appannate: il recente 'Second hand life' è risolto mediante un mosaico di citazioni da fare invidia ai Ten) a Joe Lynn Turner non è mai riuscito di imporsi e conquistare un pubblico. Ha avuto le sue brave occasioni, è vero, ma più che trampolini di lancio, si trattava di trappole, di tagliole in cui Joe è caduto forse per troppo ottimismo (ma del senno di poi…). Il suo errore, infine, è stato quello di non puntare abbastanza su se stesso, cercando dopo ‘Rescue you’ una “sistemazione” che potesse semplificargli la vita ed invece non ha ottenuto altro che di complicargliela.

 

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EYES

 

 

  • EYES (1990)

 

Etichetta:Curb Reperibilità:scarsa

 

Il caso degli Eyes possiamo considerarlo paradigmatico di ciò che accade quando una band si accasa con l’etichetta sbagliata. “Sbagliata” non per particolari demeriti, non tanto per ciò che viene fatto o non fatto, ma perché completamente estranea al genere musicale in cui la band messa sotto contratto si esprime.

Gli Eyes avevano una storia abbastanza tormentata dietro le spalle. Avevano frequentato per anni il sottobosco losangeleno con il nome di L.A. Rocks, conquistandosi un notevole seguito underground ma non uno straccio di contratto. Il membro fondatore era il batterista Aldy Damian, che tenne saldo il monicker attraverso i soliti, furibondi cambi di line up che videro transitare nei ranghi della band prima Jeff Scott Soto, poi Jizzy Pearl e infine James Christian. Quando la band aveva mutato il suo nome in Eyes e stava per firmare per la Capitol, l’allora sconosciuto James Christian venne chiamato dagli House Of Lords per sostituire David Glenn Eisley e il posto di cantante venne riassunto da Jeff Scott Soto. Con l’ex Berlin Steve Dougherty alle chitarre, Matt Thorr al basso (era nei grandi Rough Cutt) e le tastiere di un altro ex Berlin, Todd Jasmin, venne registrato parecchio materiale che però la Capitol non dovette trovare particolarmente interessante, dato che decise di non pubblicarlo e licenziò la band.

Ed ecco che entra in scena la Curb Records, etichetta indipendente ma con distribuzione major, che prende gli Eyes nella sua scuderia e gli dà modo di registrare un signor disco, ma… La Curb era specializzata in musica country. Questo significava, in concreto, che la label non aveva contatti nel mondo dell’hard rock: quella complessa macchina promozionale fatta di stazioni radio, giornalisti, locali notturni, promoters, tour managers senza cui nessuna etichetta può fare promozione per i propri artisti era tutta focalizzata sulla scena country. La Curb non poteva né voleva costruire quella rete per l’unica band hard rock del suo roster, che si ritrovò praticamente sola di fronte ad un mercato già superinflazionato. Ci furono shows a supporto di Nazareth, Slaughter, Kansas, Great White, Bad Company e Cheap Trick, qualche esibizione da headliners nei club di L.A., ma quando arrivò l’occasione di intraprendere dei veri tour, la band dovette rinunciarci perché la Curb si rifiutò di aprire i cordoni della borsa. Avevano preso quei ragazzi perché l’AOR sbancava le classifiche, non perché credessero in loro. Il genere andava forte, perciò poteva anche rivelarsi un affare mettere in scuderia qualche band, e difatti in quello stesso anno la Curb pubblicò anche un (favoloso) disco di Benny Mardones, misconosciuto principe dell’AOR di fine anni 70. Erano una scommessa, poteva anche capitare che arrivassero nei quartieri alti di Billboard tutti da soli, ma quando fu chiaro che questa ipotesi non si sarebbe realizzata, la Curb gli voltò semplicemente le spalle, dicendogli: arrangiatevi da soli. Aldy Damian tenne duro, ma era chiaro che senza il supporto di una label gli Eyes erano malati terminali tenuti in vita per accanimento terapeutico. Così, nel 1993, 'Windows of the soul', uscito per la microscopica Brilliant, non era altro che una selezione del vecchio materiale registrato per la Capitol, mentre ‘Full Moon’, pubblicato l’anno seguente dall’altrettanto minuscola label svedese Empire, solo una raccolta di vecchi demo con il nuovo singer Mark Weitz dietro il microfono.

Che gli Eyes non si meritassero un trattamento simile risulta evidente per chiunque abbia ascoltato questo loro, eccellente disco d’esordio. Una mancanza di originalità nel sound complessivo dell’album veniva abbondantemente compensata dalla brillantezza del songwriting, che pur impostato su elementi formali consolidati spiccava per efficacia e godibilità, oltre ad essere sorretto da una produzione esemplare (di Spencer Proffer). Con Marcel Jacob a incidere le parti di basso (Jimmy O’Shea entrò nella band solo a registrazioni concluse), Todd Jasmin (non più accreditato come membro della band) e Jeff Naideau alle tastiere, gli Eyes partono in quarta con “Callin’ all girls”, dove un bel refrain di metal da spiaggia si adagia su un riffeggiare molto Van Halen. L’intrecciarsi dei cori è notevole e si ripete con regolarità lungo tutto l’arco di un disco decisamente elettrico, che si concede alla ballad solo in un paio di occasioni, intitolate “Don’t turn around” (power e d’atmosfera, con un bel crescendo, ne sono autori Diane Warren e Albert Hammond) e “Nobody said it was easy” (con il piano in grande evidenza al principio, un po’ Bon Jovy). “Every single minute” e “Miss demeanor” sono eleganti schegge di metal californiano, in bilico tra Ratt e Black’N’Blue, mentre la serratissima “Can’t get enough” chiama in causa piuttosto i Kix. Su “Young and innocent” risalta piacevolmente il contrasto fra il solido telaio metallico ed il refrain arioso sostenuto dalle tastiere, “Walkin’ fire” si avventura felicemente nell’universo Autograph, “Wired 4 love” è una esercitazione impeccabile sulla materia Def Leppard (Joe Elliot e compagni l’avrebbero firmata senza pensarci due volte), dall’intro di keys fino agli intrecci dei cori. Chiude “Start Livin’”, ancora metal losangeleno, martellante, anthemico con un refrain deliziosamente glam. La chiusura del disco, in effetti, è affidata a “Somebody to love”, un paio di minuti di canto a cappella in solitario di Jeff Scott Soto, che non viene riportata in scaletta ed è a tutti gli effetti un brano nascosto, credo uno dei primi esempi (o forse il primo caso in assoluto?) di questa pratica demenziale e ormai (fortunatamente) passata di moda.

La fama postuma che la band ormai gode ha prodotto anche una conseguenza poco felice: questo CD è diventato, dopo le ristampe ufficiali dei primi due album degli Hurricane, il pezzo forte del mercato delle ristampe pirata, ovvero di quei dischi riprodotti abusivamente da loschi figuri di nazionalità greca o germanica che li spacciano senza pudore per originali. Su eBay, c’è un tizio che dalla Grecia ogni settimana – ripeto: ogni settimana – mette in vendita una copia “originale” di quest’album… e riesce regolarmente a venderla per cifre oscillanti tra i quindici ed i venticinque euro! Perciò, raccomando caldamente i miei lettori che dopo aver letto questo pezzo desiderassero mettersi in caccia dell’album in discorso di fare molta attenzione, evitando per principio di rivolgersi a venditori greci o tedeschi, e in linea di massima a chiunque offra una copia garantita in condizioni mint: nove su dieci, vi ritrovereste fra le mani una patacca. E comprata a caro prezzo, per giunta. Meglio ripiegare sul disco di vinile, oppure aspettare una ristampa ufficiale che, visto quanto è accaduto con gli Hurricane, non dovrebbe tardare troppo ad arrivare.